Maurice Blanchot, la scrittura del rifiuto
- di Rosa Martínez González -
Maurice Blanchot rimane ancora oggi un pensatore inclassificabile: scrittore contro l'atto dello scrivere, pensatore contro l'istituzione della filosofia, le sue proposte, sia nel campo della teoria letteraria che in quello della riflessione filosofica, sembrano resistere, data la loro apparente oscurità, alla comprensione della cultura regolamentata e normativa. Nelle righe che seguono, si cercherà di dare qualche suggerimento su almeno due delle nozioni centrali che attraversano tutta l'opera di M. Blanchot: i concetti di refus e di révolution.
Il nuovo compito dello scrittore: ascoltare il rifiuto, fare la rivoluzione
La prima cosa da sottolineare è che se entrambe le nozioni - refus e révolution - sono centrali nel pensiero di M. Blanchot, ciò non avviene tanto perché questi concetti caratterizzano la sua posizione politica - cosa che tuttavia pure fanno - ma, soprattutto, perché essi definiscono ciò che, secondo lui, determina l'esigenza etico-politica che sta alla base di ogni attività critica letteraria: la letteratura, vista come spazio che si situa nell'intervallo in cui si attende la rivoluzione, quello in cui la Legge tace e parla invece il «refus» (il rifiuto) dell'ordine stabilito, l'anonimo mormorio proveniente dal di fuori.
La rivendicazione politica, una domanda che si lega alla funzione dello scrittore in quanto intellettuale - più specifico che classico, in senso foucaultiano - la quale implica che egli (ella) non parli più a nome di nessuno, o per nessuno, ma che invece si limiti piuttosto a essere un semplice portavoce che irrompe da solo sulla scena pubblica, rompendone il silenzio, e proprio nel momento in cui l'urgenza degli eventi lo spinge ad assumere su di sé la responsabilità del proprio prossimo, esponendosi pubblicamente, avendo ancora fresco nella memoria - come ammonisce ne "La questione degli intellettuali"- il paradigma della resistenza al fascismo. Per questa stessa ragione, la rivendicazione politica è anche un'esigenza etica rispetto al prossimo (con l'Altro/l'Altra), ed è questo che spinge Blanchot a una ricerca incessante di una comunità, in un certo senso, impossibile, composta da tutti quegli individui, o esperienze, che non hanno comunità, e la cui esperienza, la cui ragione, il cui discorso sarebbero stati espulsi in precedenza ai margini, all'esterno di una cultura alla quale, paradossalmente, non possono partecipare, ma nella quale, in maniera perversa, si trovano rinchiusi, emarginati, mutilati, messi a tacere, e dalla quale - proprio per questo - non possono uscire. Ed è in questa ricerca della parola proibita, zittita o espulsa dal lavoro culturale del suo tempo, che Blanchot si ostina riguardo la portata di quest'altra comunità, sempre situata nell'orizzonte del comunismo.
Il tempo della rivoluzione. L'altra ragione
Ne "La Raison de Sade", pubblicato per la prima volta nel 1963, Blanchot riflette su ciò che una rivoluzione richiede per poter essere considerata tale. E conclude che, per essere tale, una rivoluzione deve nascere dalla forza del rifiuto (refus) del patto sociale stabilito, e da un evento nel quale viene stabilito uno stato «senza legge», ovvero un'anarchia. La rivoluzione rappresenta pertanto - per qualche tempo - la possibilità di una comunità senza legge. Si tratta di quel momento in cui gli individui, uniti dal rifiuto, riconquistano la propria sovranità che era stata illegittimamente usurpata in un qualche momento della storia. E, in tal senso, non fa alcuna differenza se la rivoluzione è effimera, dal momento che l'essenziale è che la Legge taccia e, in quell'istante, tutte le possibilità, che da essa erano state messe a tacere appaiano dimostrando, rendendo visibile all'immaginazione politica, che queste possibilità - queste esperienze anomale, problematiche, demonizzate o emarginate, questa comunità senza Legge - sono possibili e che è questo il modo in cui il potere positivo si conserva, o si reintegra nel futuro, restituendo al silenzio le nuove possibilità.
Per Blanchot, il tempo della rivoluzione - così come il tempo della scrittura - è, al limite, il tempo in cui si ferma il Tempo, la Storia e il Diritto. La rivoluzione è, perciò, uno iato o una cesura nella rete omogenea del Tempo e della Storia in cui si svolge l'evento. Ecco perché in questo frattempo, e non nel momento prima o dopo il suo avvento, la rivoluzione - in quanto evento impossibile quando la Legge, intesa come ordine politico concreto, viene infranta - non si realizza mai, né deve mai essere interpretata a partire dalla prospettiva dell'altra Legge a venire, ma deve essere intesa come quel lasso di tempo durante il quale essa non esiste (già/ancora), mentre per il pensiero, per la comunità e per la letteratura, appaiono nuove possibilità, sebbene esse emergano discretamente, come è accaduto, secondo Blanchot, nel maggio '68. Infatti, secondo Blanchot, nel maggio francese tutto quanto, compreso il linguaggio, era una risposta appassionata al richiamo del potere del refus. Una rivoluzione - sostiene Blanchot - più filosofica e sociale che istituzionale, lontana da qualsiasi modello rivoluzionario esistente e, nel contempo, più esemplare che reale; nel senso di un'apertura di quelli che erano i limiti della nostra immaginazione politica, conseguente a quell'evento. Nel maggio '68, infatti, così come avviene in generale in ogni rivoluzione, secondo Blanchot il linguaggio è riuscito a rompere con il codice della lingua, cessando di essere un segno, trasformandosi in un richiamo impaziente, eccessivo, incombente e sempre rivolto all'esterno. Così, ne "Le tre parole di Marx" Blanchot descrive la rivoluzione come un qualcosa che attraversa il tempo e che viene vissuta come se fosse una domanda che ci sfida, che ci chiama.
La comunità di coloro che non hanno comunità
Per Blanchot, la ricerca di una tale comunità, sempre disobbediente, in qualche modo inconfessabile, rivolta all'esterno, rimanda, come orizzonte insormontabile, al comunismo.
Il comunismo di Blanchot si avvicina parecchio a quello del cosiddetto gruppo di rue Saint-Benoît, che prende il nome dal luogo dove un gruppo di noti intellettuali francesi - come Marguerite Duras, Dionys Mascolo, Robert Antelme e lo stesso Maurice Blanchot, tra gli altri - si riuniva dagli anni '50 (la casa di Duras e Antelme). Il comunismo di questi intellettuali francesi, alcuni dei quali erano stati espulsi dal PCF, si poneva in totale opposizione allo stalinismo, al Jdanovismo (o al realismo socialista, come politica culturale) e, in generale, a tutta l'ortodossia di Partito. Pertanto, la comunità (di coloro sono senza una comunità) e l'orizzonte del comunismo, che esclude ed esclude sé stesso da ogni comunità positiva (compresa quella del Partito), da questo periodo dell'opera di Blanchot, appaiono come il compito fondamentale dell'intellettuale: una rivendicazione infinita, in linea con tutto l'insieme dei rifiuti che portano all'impossibile evento della rivoluzione.
In questo modo, per Blanchot, il nuovo compito dello scrittore presuppone - diremmo oggi - un esercizio di controcultura che non ha senso finché non provoca realmente, in qualche modo, una rottura con uno stato di cose esistente. Questa rottura può essere parziale, o può coincidere con un deciso rifiuto politico dell'ordine stabilito che porti a una rivoluzione, come è accaduto, secondo Blanchot, nel maggio francese. E la rivoluzione è esattamente questo: un refus massiccio che riguarda e coinvolge tutti gli strati e le dimensioni dell'esistenza laddove la società finisce per allearsi con la propria rottura. Con un simile compito, o rivendicazione, come punto di partenza, appare chiaro come, per Blanchot, lo scrittore, dalla sua torre d'avorio, non interpreta più, né si occupa della realtà del suo tempo, ma piuttosto è proprio la sua esigenza che lo porta ad accettare la chiamata all'azione politica nel momento in cui le circostanze lo interpellano, facendolo aprire a un'esperienza che non è più quella della Realtà che esclude o limita.
Per Blanchot, nella sua epoca il comunismo rappresentava non solo uno iato teorico, in quanto nuova esigenza etico-politica, ma anche una rottura decisiva rispetto allo stato di cose del suo tempo (e tuttora del nostro): il mondo liberal-capitalista. Il comunismo, in definitiva, appare perciò, in primo luogo, come quell'orizzonte di cui abbiamo parlato prima, e che coincide con tutto ciò che esclude (e si esclude da) ogni comunità positiva; in secondo luogo, nella sua dimensione di superamento dell'orizzonte forgiato dal capitalismo liberale e, in terzo luogo, come avverte Blanchot nel suo "Comunismo senza eredità", come ciò che rifiuta ogni patriottismo, in attento ascolto dell'appello che proviene dal difuori; e che non è né un altro mondo né un trans-mondo.
Insomma, è a partire da tutte queste ragioni che, per Blanchot, l'esperienza della scrittura in senso critico esige un sacrificio. L'autore deve scomparire di fronte all'opera, e questa davanti all'esperienza stessa, compiendo un salto (critico) da Io a Lui, un salto verso il neutro che, rompendo con ogni realismo, scaraventa lo scrittore in un'altra forma di esperienza dove, superata la sovranità (l'orgoglio) dell'Io, può farsi carico, in linea con il refus, della parola anonima ammutolita, dell'altra ragione marchiata come anormale o eccessiva, dell'evento impossibile che non rientra nella Storia.
- Rosa Martínez González - Marzo 2022 - Pubblicato su Comunizar -
Opere Citate:
- M. Blanchot, "La questione degli intellettuali", "L'amicizia". Marietti, 2010 -
- M. Blanchot, "La conversazione infinita. Scritti sull'«insensato gioco di scrivere»", Einaudi, 2015 -
- M. Blanchot, "Nostra compagna clandestina. Scritti politici 1958-93", Cronopio, 2004 -
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