lunedì 11 aprile 2022

A casa propria !??

«Atene libera fu la madre delle scienze e dell'arti della più colta umanità e vi cominciarono i filosofi da Solone, principe de' sette sappienti di Grecia, che ordinò la libertà ateniese con le sue leggi e lasciò quel motto, pieno di tanta civile utilità: Gnothi seauton, “Nosce te ipsum”, che fu scritto sugli architravi de' templi, proposto come una vera divinità» (Giambattista Vico)

Per caratterizzare l'identità dell'Occidente si è soliti chiamare in causa tradizioni diverse: la democrazia greca, il diritto romano, il cristianesimo, la rivoluzione scientifica e così via. A volte si evocano anche la filosofia e la scienza greca, un'idea caratteristica non soltanto di filosofi come Husserl, Heidegger o Popper, ma anche di scrittori come Jorge Luis Borges. Studioso da sempre attento al tema dell'incontro e del contatto fra culture, l'autore scruta oltre duemila anni di storia del pensiero per mettere in dubbio che la Grecia sia sempre stata considerata terra di origine della filosofia e che quest'ultima sia una sua esclusività, fatta poi propria dall'Europa e dall'Occidente come segno identitario. Si tratta piuttosto di una costruzione storica, dell'«invenzione di una tradizione». L'identità europea è infatti l'esito di una vicenda complessa, è un'identità plurima in continuo movimento, tutt'altro che monolitica e uniforme. E forse proprio questa è la sua peculiarità, forse anche il suo pregio.

(dal risvolto di copertina di: "Filosofia greca e identità dell’Occidente. Le avventure di una tradizione", di Giuseppe Cambiano. il Mulino, pagg.792, € 50 )

Noi e i Greci antichi. Le facili certezze irrise da Nietzsche
- Civiltà: Omero, Platone e Socrate sono stati usati per giustificare il colonialismo e il razzismo, ma anche per difendere i valori umani -
di Mauro Bonazzi

Ormai signore incontrastato della scena intellettuale tedesca, e presto europea, George Wilhelm Friedrich Hegel era solito iniziare il suo corso a Berlino con un’affermazione lapidaria: «Al nome della Grecia l’uomo colto in Europa, soprattutto noi tedeschi, si sente come a casa propria». Heimatlich: il termine non era scelto a caso, ed era gravido di conseguenze. Heim non è banalmente la casa (Haus), ma il focolare, l’ambiente familiare in cui ci si sente nel proprio posto. Heimat, la patria. Non male, quanto a chiarezza, per un filosofo notoriamente oscuro. In un momento epocale, mentre il nuovo mondo uscito dalla Rivoluzione francese si stava lentamente assestando, Hegel mostrava cosa ci fosse veramente in gioco. Era la creazione, ma forse sarebbe meglio dire l’«invenzione», dell’Europa e dell’Occidente, e della sua tradizione. A pensare così non è Hegel soltanto: «Noi siamo tutti greci», scrive Percy Bysshe Shelley, «le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione hanno le loro radici in Grecia». Idee simili corrono da una parte all’altra del continente, mentre lord Elgin sta faticosamente organizzando il trasporto (forse sarebbe meglio dire il furto) dei fregi del Partenone in Inghilterra, inseguito dalle truppe napoleoniche che vorrebbero portare questi reperti al Louvre. «It’s coming home» (sta tornando a casa): a Londra, Berlino, Parigi. Possedere questi capolavori, esibirli, significa mostrare a tutti chi è l’erede legittimo di quella civiltà, e dunque chi più degli altri ha il diritto di fregiarsi del titolo di nuova Atene, al centro dell’Europa. «Il miracolo greco», scrive ispirato Ernest Renan in visita nella vera Atene, «una cosa che è esistita una sola volta, che non si era mai vista, che non si vedrà più, ma il cui effetto durerà eternamente». La Grecia, l’Europa, noi.

Che cos’è in effetti l’Europa, dove è la sua cifra distintiva? Lo spiegava appunto Hegel: nella ragione. La nostra immagine dell’Occidente è intrinsecamente legata al concetto di razionalità. Qui è il tratto distintivo che fa la grandezza di questa tradizione rispetto alle altre civiltà, i cinesi laboriosi, i mistici indiani, gli islamici dominati dai sensi e dalle passioni. E dove nasce tutto questo? In Grecia, ovviamente: è in Grecia che per la prima volta la ragione (il logos) ha conquistato il suo spazio di azione, permettendoci di avanzare nella comprensione del mondo, disperdendo le nebbie della superstizione, della magia, delle religioni. La Grecia è la sua filosofia, insomma, è Platone e Aristotele. «In Platone è il germe di questa Europa che conosciamo così bene», scrive Ralph Waldo Emerson (in America). Lì è l’Europa: dall’altra parte, tutto il resto. È l’eterna divisione tra Occidente e Oriente, tra noi e gli altri: la divisione è così familiare da sembrare scontata, quasi naturale. Non lo è. È il risultato di una storia, che conviene conoscere, se vogliamo davvero capire la complessità della tradizione europea. Perché questa è solo una riconfigurazione possibile del nostro rapporto con la Grecia. Di questo si occupa il lavoro più recente di Giuseppe Cambiano Filosofia greca e identità dell’Occidente (il Mulino). Perché poi, che cos’è la Grecia, davvero?

«È tutta colpa di Platone! È lui la più grande rovina d’Europa!». L’attacco più duro viene dalla penna di un professore di Filologia, una giovane promessa che avrebbe presto tradito il suo campo. Nel 1870, a Sedan, l’esercito tedesco trionfa sulle truppe francesi, la Germania si conferma potenza europea. L’avventura di Friedrich Nietzsche al fronte dura poco, perché si ammala subito. La sua battaglia, del resto, si svolge altrove: nel 1872 pubblica La nascita della tragedia, e tutto cambia. Perché ciò che questo libro astruso dimostra è che l’immagine di una Grecia serena, armonica e razionale, un modello di perfezione se mai la perfezione è stata di questo mondo, è una finzione. «Giudicare i Greci dai loro filosofi!». La vera Grecia è altro: è dolore, caos, disordine; è il coraggio di guardare all’assurdità della condizione umana senza cercare facili consolazioni, come se ci fosse sempre una spiegazione morale per tutto. È Dioniso e Omero, non Socrate o Platone: la vera Grecia non ha nulla a che spartire con quella sterile esaltazione della ragione, del logos, in cui l’Europa borghese si rispecchia compiaciuta, timorosa di scrutare le proprie malattie.
Al momento non sembra, l’Europa è all’apice della sua potenza, ma presto la crisi diventerà evidente, e non per le ragioni preconizzate da Nietzsche. Senza quasi rendersene conto, in effetti, l’esaltazione dei Greci antichi contribuisce alla diffusione di un’ideologia colonialista. I Greci non sono come gli altri: i francesi sono francesi, i cinesi sono cinesi, i Greci sono l’idea stessa di cosa è un essere umano nella sua perfezione. Il compito per tutti è quello di imitare le loro verità eterne e universali, diffonderle è responsabilità delle potenze europee, impegnate nella loro missione «civilizzatrice». Qualche anno ancora e la situazione degenererà, con l’avvento dei totalitarismi — con l’Italia fascista che si proclama erede dell’Impero romano e Hitler che si proclama erede dei Greci, la razza delle «bestie bionde» (un’espressione che Nietzsche aveva ricavato da Platone, rendendola celebre). Gli ideologi nazisti non si stancano di ripeterlo: i tedeschi sono gli eredi, spirituali e biologici (non è forse vero che i Dori arrivavano dal Nord?), della Grecia, e dunque i guardiani e i salvatori dell’Europa. La casa di Hegel diventa la «Fortezza Europa». È questa la nostra tradizione? Non sorprende che siano proprio i filosofi i primi a rimettere tutto in discussione. Perché è appunto nel confronto con la filosofia che si comprende il destino dell’Europa. Il primo, tanto per cambiare, è Nietzsche: il «buon europeo», così si definisce, si rivela nella lotta contro il Platone, contro il cristianesimo (che altro non è che «platonismo per il popolo»), contro questa illusione che la ragione possa spiegare tutto. Il problema è cosa resta, dopo aver reciso i contatti con la propria tradizione. Poco, secondo Nietzsche: «Uno non si trova più a casa da nessuna parte (heimisch); perché c’è un solo posto in cui ci si sentirebbe a casa, dove si desidera essere: il mondo greco! Ma i ponti sono rotti…».

Dalle coste della California, dove è dovuto riparare in fuga dalle orde hitleriane, gli farà eco Theodor Wiesengrund Adorno. La crisi dell’Europa è la crisi della razionalità, di questa pretesa di poter controllare tutto grazie alla ragione. Perché questa fiducia nel logos era un’illusione, un mito che nascondeva un desiderio di sopraffazione e violenza che colonialismo e nazismo hanno ormai portato alla luce. Il viaggio verso la patria greca termina così in un naufragio, come nel «folle volo» dell’Ulisse dantesco. La Grecia sfugge come acqua dalle mani, e con lei l’idea stessa d’Europa. Quella che resta è la nostalgia, non si sa più neppure di che cosa. «Europeo: colui che ha nostalgia dell’Europa», scriverà a tal proposito Milan Kundera. Ma questa è solo una parte, piuttosto ridotta, di una storia molto più ricca e promettente. Cambiano lo spiega bene, sono tante altre le riconfigurazioni possibili della Grecia nel corso dei secoli. Se l’Europa moderna sembra ossessionata da un’ansia isolazionista, ben diversamente erano andate le cose in precedenza. Nel 1400, ad esempio, mentre a Firenze arrivavano i dotti bizantini in fuga da Costantinopoli. Il Rinascimento, che fa la gloria dell’Italia, è sì la riscoperta del mondo antico, ma in un senso completamente differente rispetto alla modernità. Per i grandi autori rinascimentali, come Pico della Mirandola o Marsilio Ficino, il mondo greco (o meglio: la filosofia platonica) è il ponte che ci avvicina alla sapienza delle tradizioni orientali — dell’antico Egitto e della Persia, o della cabala giudaica. Nel Rinascimento la riscoperta del mondo greco serve insomma a risvegliare la consapevolezza di una storia comune, fatta di scambi e incontri (e anche scontri, certo), che unisce, non che divide. È interessante questa idea della Grecia come «ponte». Ci ricorda che l’identità europea è l’esito di una vicenda complessa, e in continuo movimento, pronta al dialogo e non alla chiusura. Del resto, quegli stessi testi che erano stati usati a supporto del colonialismo si sarebbero poi prestati a letture ben diverse: come per esempio l’Apologia di Socrate di Platone, sempre lui, l’idolo nei nazisti, capace di ispirare Gandhi e Martin Luther King nella battaglia contro le ingiustizie del razzismo. O, più sorprendentemente ancora forse, come l’Iliade, il poema della forza, in cui Simone Weil aveva trovato l’esatto opposto di quello che tanto piaceva ai cultori della violenza invaghiti di Achille: un canto alla solidarietà degli uomini uniti nel dolore. Anche questa è la Grecia, senza miracoli, ma più umana. E se avessero ragione proprio loro, i Pico, i Gandhi e le Simone Weil? Di certo è impossibile fare a meno di occuparci di questo «piccolo popolo presuntuoso» (Nietzsche): perché parlare di loro significa parlare di noi, e di quello che vogliamo essere.

- Mauro Bonazzi - Pubblicato su La Lettura del 20/2/2022 -

Cercasi culla dell’occidente
- di Michele Ciliberto -

È molto importante questo libro di Giuseppe Cambiano, sia per le ricerche che comprende sia per i problemi di carattere filosofico e politico da cui esso è stato generato. Muovendo dall’oggetto studiato pone questioni che toccano il nostro mondo attuale e i problemi che abbiamo di fronte in quanto europei. Trattarlo solo come un libro di storia della filosofia significherebbe quindi ridurne il valore. A mio giudizio alla radice di questo libro è un’interrogazione su quello che oggi è l’Europa e su quello che può essere il suo destino nel millennio appena iniziato. Si sa: ogni storia è contemporanea. Quando non lo è, diventa antiquaria, certo importante, ma senza vita. In questo caso, è un’interrogazione, un problema posto in termini storici, muovendo dalla questione dell’identità europea e della sua connessione con la filosofia greca. Cambiano muove infatti da una duplice constatazione, che è alla base del suo libro: la Grecia è stata in genere considerata terra di origine della filosofia e la filosofia greca è stata a sua volta ritenuta il punto di partenza di tutto l’Occidente, la sua struttura originaria. In questo senso, il problema della filosofia greca si congiunge con quello dell’identità europea, come suona il titolo del libro.

Simul stabunt, simul cadent. Cambiano mette in discussione questa duplice prospettiva, mostrando anzitutto i limiti dello stesso concetto di «identità». Un concetto pericoloso, egli dice: «non di rado serve, ricorrendo anche all’ausilio di qualche aspetto di singole filosofie antiche, a negare l’altro e il diverso, a cui tuttavia è inestricabilmente legato». Da questo punto di vista la critica del concetto d’identità e la tesi che l’Occidente è «meticcio» - avendo una pluralità di luoghi di nascita - è un asse del libro, e costituisce la base delle considerazioni di ordine sia filosofico sia politico che ne costituiscono, a mio giudizio, uno degli aspetti più interessanti. Cambiano critica dunque entrambe le tesi appena citate, mostrando attraverso un’amplissima serie di testi come esse siano parte costitutiva di quella che definisce l’«invenzione di una tradizione», di cui ricostruisce le varie stazioni in un percorso che muovendo dall’antichità arriva fino alla fine dell’Ottocento. L’identità europea è infatti più complessa e articolata - sottolinea Cambiano - e a questo proposito cita, facendole proprie, le battute di Albert Camus il quale riteneva che l’Europa fosse una civiltà pluralista, anzi «il luogo della diversità delle opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva mai a una sintesi». E che proprio questa pluralità e diversità - che sentiva in pericolo - fosse «il fondamento della nozione di identità europea». Uno dei meriti del libro consiste appunto nella decostruzione questa tradizione, mostrando come essa sia stata “inventata” lungo i secoli, connettendosi al problema dell’identità europea, che viene sottoposto, anch’esso, a un simmetrico processo di critica e di decostruzione. Ma Cambiano, nell’uno e nell’altro caso, procede con i suoi strumenti di storico, attraverso una serie di analisi che costituiscono una sorta di libro nel libro, con osservazioni che muovendo dalla storia della filosofia antica entrano nel merito dei filosofi studiati. Un solo esempio, per dare il senso di questo lavoro: analizzando i testi di Marx, Cambiano mostra come Marx, a differenza di quanto in genere si pensi, «ben prima di Nietzsche» abbia sottolineato «la necessità di comprendere i filosofi nella loro individualità, nella forma soggettiva data al loro filosofare». Osservazioni importanti, che danno il senso dell’ampiezza della ricerca e del suo aprirsi in una pluralità di prospettive. E altrettanto interessanti sono quelle dedicate a Nietzsche con cui il libro si conclude riprendendone la tesi secondo cui l’Europa è un’identità fatta di molteplici differenze. «Forse questo è il lascito più importante - scrive Cambiano -, l’introduzione della pluralità e delle differenze come costitutive di una identità capace di ospitarle anche se contrastanti».

E con ciò si viene al problema filosofico e politico che alla radice di questo libro di storia della filosofia. Da un lato, infatti, Cambiano prende atto della crisi di una lunga tradizione, dall’altro lato si sforza di prefigurare una prospettiva che tenga vivo il meglio anche della storia passata, e della «dimensione aperta e plurima» della filosofia greca: «un cantiere aperto», sottolinea Cambiano, e disposto a misurarsi con mondi diversi, con posizioni differenti, come lo studioso dimostra introducendo nella sua analisi riferimenti all’Oriente, alla Cina e all’India. Il punto di vista di Cambiano, mi verrebbe da dire, è rappresentato dalla civetta riprodotta sulla copertina del libro. Per i filosofi la civetta vuol dire il tramonto, il pensiero che si alza quando un’epoca è finita. Lo diceva Hegel: «quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere».
Cambiano, questo lo sa. È consapevole che un mondo è finito, che l’identità dell’Occidente, nelle vecchie forme, non c’è più. Questo libro - con la decostruzione sia del concetto di Occidente che della concezione della filosofia greca come struttura originaria dell’Europa - scaturisce da questa consapevolezza. Prende dunque atto che un aspetto della vita è invecchiato, e riconoscendolo se ne distacca. Sta qui la sua forza, nel distaccarsi da un’antica tradizione analizzandone con grande sapienza la lunga formazione, il rapporto complesso con le altre tradizioni, e anche le diverse civiltà. Ma se ne distacca per porre, muovendo di qui, il problema di quale debba essere oggi il destino dell’Europa ed anche dell’Occidente, salvaguardando gli esiti - e gli insegnamenti - più alti di una lunga storia, e i valori principali che essa ci consegna - «la dimensione aperta e plurima della filosofia greca», il carattere meticcio dell’Occidente. In vista - e questo è il nocciolo della proposta - della creazione di una «identità accogliente», contro «la tesi della incommensurabilità delle culture». Un progetto per la nuova Europa che dobbiamo costruire; un programma, aggiungo, che non si può non condividere.

- Michele Ciliberto - Pubblicato sulla Domenica del 13/3/2022 -

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