giovedì 7 aprile 2022

Non ci si rialza indenni !!

Nel 1941 Claude Lévi-Strauss è un antropologo francese di trentadue anni rifugiato negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo. Esiliato dalla sua terra natale, Lévi-Strauss vive in una condizione di incertezza esistenziale e professionale. I sei anni newyorkesi costituiranno invece per lui un percorso iniziatico, un momento di confronto con la tradizione scientifica e di affermazione dei propri principi metodologici dal quale scaturirà la sua rivoluzione nello studio delle culture e società umane. Antropologia strutturale zero, curato da Vincent Debaene, presenta per la prima volta al lettore italiano gli scritti di quel periodo, restituendo una nuova prospettiva sul lavoro del celebre studioso e sulla nascita dello strutturalismo in antropologia. Una sinfonia di testi che spaziano da osservazioni sul contesto sociale del boogie-woogie statunitense a descrizioni di strumenti musicali dei Nambikwara e ricette per la selvaggina dei Tupi-Kawahib ad analisi dei rituali alimentari dei Bororo.
Antropologia strutturale zero illustra il modo in cui Lévi-Strauss maturò la sua rivoluzione antropologica; il modo in cui, tenendo insieme sociologia e psicologia, Mauss e Durkheim, approdò a un nuovo modo di intendere l’essere umano. Dai riti alimentari degli indigeni del Sudamerica al folklore degli Stati Uniti negli anni quaranta, le osservazioni e le riflessioni da cui Claude Lévi-Strauss fece scaturire, prima di Antropologia strutturale e Antropologia strutturale due, la rivoluzione degli studi sull’uomo.

(dal risvolto di copertina di CLAUDE LÉVI-STRAUSS, "Antropologia strutturale zero". A cura di Vincent Debaene, IL SAGGIATORE, Pagine 327, €38 )

L’America bambina vista da Lévi-Strauss
- di Elisabetta Moro -

«Le sue idee non sono ancora mature!». È quel che si sentì dire Claude Lévi-Strauss a quarantacinque anni suonati da Brice Parain, il consigliere editoriale di Gallimard. Così l’uomo che stava per rivoluzionare l’antropologia del Novecento si vide rifiutare dal re degli editori francesi la sua Antropologia strutturale, il libro di culto dello strutturalismo. Ferito nell’orgoglio, il grande Claude se la lega al dito e fino alla sua morte nel 2009, non accetta nessuna delle profferte riparatorie di Gaston Gallimard. Alla fine però il patron si fa perdonare l’oltraggio dedicandogli un volume della Pleiade, che lo proietta nell’empireo intellettuale del secolo breve. La vicenda editoriale di quell’opera magistrale, pubblicata da Plon nel 1958, si intreccia a doppio filo con quella di un nuovo libro intitolato Antropologia strutturale zero, appena mandato in libreria dal Saggiatore e uscito in Francia tre anni fa. La traduzione è di Massimo Fumagalli, mentre la cura è di Vincent Debaene, tra i massimi esperti della sterminata opera del maestro. Nella ricca e appassionata prefazione al volume, Debaene risale le correnti del pensiero antropologico dell’autore fino alle sorgenti, così il lettore scopre di fatto la preistoria dell’antropologia strutturale, cioè di quel Rio delle Amazzoni delle scienze umane che ha fertilizzato il pensiero occidentale. Influenzando le discipline più diverse, dalla critica letteraria alla sociologia, dalla storia all’etnologia, come racconta bene il volume di Quodlibet Lévi-Strauss fuori di sé curato da Marino Niola.

Antropologia strutturale zero è un testo prezioso in quanto mostra come Lévi-Strauss abbia incubato e sviluppato la sua rivoluzione antropologica sfociata in un nuovo modo di intendere l’essere umano. Di fatto la selezione operata da Debaene offre per la prima volta al lettore italiano diciassette saggi che rappresentano il primo cantiere del pensiero strutturalista. Una sinfonia di testi che spaziano dalle osservazioni sulla società statunitense all’etnografia dei Nambikwara del Mato Grosso, fino all’analisi dei rituali alimentari dei nativi amerindiani. Il curatore fornisce una preziosa tessitura di rimandi tra le pagine scritte e le vicende biografiche dell’autore, facendo emergere ancora una volta la vertigine di un pensiero inimitabile, frutto di una particolarissima capacità di intravedere le cose attraverso le cose, di accostare fino al cortocircuito il particolare più minuto alla verità più universale, consentendo di far affiorare quel minimo comune denominatore di umanità che ci rende simili nella diversità, parenti e differenti. Affiora insomma alla superficie di questo fiume in piena l’infiorescenza delle idee portanti dello strutturalismo.
Tutti questi scritti vengono redatti da Lévi-Strauss negli anni del suo soggiorno newyorkese del periodo 1941-47, inizialmente nei panni di profugo ebreo sfuggito alla persecuzione nazista e successivamente in quelli di consigliere culturale presso l’ambasciata di Francia. È il momento in cui il giovane Claude, laureato in filosofia, muove i primi passi verso l’antropologia, che all’epoca negli Stati Uniti era già molto affermata. Viene da subito etichettato come l’etnologo specialista delle cosiddette «terre basse» dell’America Latina, per distinguerle dalle civiltà andine. Scrive infatti cinque saggi, presenti in questo volume, sulle popolazioni indiane di quei territori che smentiscono la vulgata secondo cui Lévi-Strauss avrebbe fatto una striminzitissima ricerca sul terreno. Si evince invece che era un «etnografo cavilloso», secondo il prefatore. Rigoroso nel seguire la metodologia allora in voga, che consisteva soprattutto in ricognizioni geografiche e demografiche. Certamente non in lunghi soggiorni presso i villaggi dei nativi per immergersi in una «osservazione partecipante» come quella di Bronislaw Malinowski nelle isole del Pacifico. Anche se nell’elogio del grande etnologo polacco, riportato nel primo capitolo, dice testualmente che l’etnologia si divide in pre e post Malinowski. Così nel capitolo Guerra e commercio presso gli Indiani dell’America meridionale, la sua lettura acuta e brillante trasforma quelle società povere e dotate di un’organizzazione politica minimale in un esempio cruciale di forme sociali precedenti l’idea di Stato e di accumulazione del capitale. In questo filone spicca il tredicesimo capitolo, intitolato L’uso sociale dei termini di parentela presso gli indiani del Brasile. Un testo che negli anni Novanta è diventato un punto di riferimento per un ramo specifico dell’antropologia che si occupa della ricostruzione delle ontologie amerindie attraverso l’estensione della nozione di affinità al mondo non umano, dove l’affinità diventa un linguaggio e uno schema relazionale che organizza i rapporti tra il Simile e l’Altro, tra l’identità e la diversità.

Nelle riflessioni dedicate agli Stati Uniti traspare un Lévi-Strauss in contraddizione con sé stesso. È grato al Paese che gli dà asilo, ma al tempo stesso la sua raffinata cultura ebraica ed europea, sempre velata da un tratto di snobismo, lo rende estremamente critico. Al punto che quando al culmine della sua notorietà gli viene offerta una cattedra ad Harvard, la ricusa senza pensarci nemmeno un attimo. Ma, paradossalmente, proprio da questo conflitto interiore nascono pagine interessantissime sul folklore degli States. Una originalissima fusione tra le tradizioni del vecchio mondo portate dai colonizzatori europei e nuovi riti inventati sul posto, come la festa del Ringraziamento e Halloween. Un processo di folklorizzazione cui partecipano anche la malavita e le gang urbane, generatrici di estetiche proprie e promotrici di nuove passioni come quella musicale per lo swing, il boogie-woogie, il burlesque. Ai suoi occhi la società americana è un organismo embrionale con l’ossatura ancora all’esterno. Non interiorizzata, ma calata dall’alto. Soprattutto da un liberalismo «più didattico che rivoluzionario», impegnato a creare nuovi bisogni e desideri. Nel capitolo intitolato «La tecnica della felicità» l’autore di Tristi tropici racconta come la società americana persegua un ossessivo programma di controllo e di plasmazione degli individui, per integrarli nel gruppo o dargli quanto meno l’illusione di essere inclusi e compresi. E per realizzare tale programma di inclusione-formattazione, l’American way of life si rivolge al bambino che ogni essere umano porta dentro di sé. Così, se solitamente le società promuovono un modello ideale di adulto, mortificando la parte «infantile», gli Stati Uniti invece legittimano e soddisfano questa parte bambina che abita ogni individuo. Perché lo scopo ultimo è dargli la felicità. Come per altro è scritto nero su bianco nella Costituzione a stelle e strisce, che sancisce un vero e proprio diritto alla felicità. Emerge in filigrana una collettività ossessionata dall’educazione al successo, dal miglioramento di sé per mezzo di fitness, diete, counseling. Con le parole di oggi un’equazione tra mindfulness e happiness. Un vero e proprio dispositivo per l’eradicazione del male. E in queste pagine si intravedono tutti i presupposti dei Tea Party, della cancel culture e del neo femminismo americano di oggi. Anche questa volta, come ha detto Ivan Simonis, non ci si rialza indenni dalla lettura di Lévi-Strauss.

- Elisabetta Moro -  Pubblicato su La Lettura del 27/2/2022 -

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