martedì 23 ottobre 2018

Tempo

Pentiti Arlecchino Harlan Ellison

«Ora può essere rivelato, il mio vizio segreto. Sepolto nel profondo, più profondo recesso del mio animo, è una mia caratteristica così odiosa, così indisponente, così terribile nelle sue ripercussioni da fare della sodomia, della pederastia e della pirateria sui mari passatempi innocui come un romanzo di Carolina Invernizio. Sono sempre in ritardo. Invariabilmente. Tenacemente. Se vi dico che passo a prendervi per le 8,30, aspettatemi per giovedì. Sono un genio nel ritardo. Un difetto che mi ha causato un mucchio di seccature. Quand'ero sotto le armi, fui spesso deferito alla Corte Marziale. E a causa sua, ho perso diverse amichette. Così un giorno me ne andai da un medico, per vedere se ci fosse qualcosa di guasto nel mio cervelletto, sezione adibita ai ritardi. Il dottore mi disse che avevo una forte tendenza a far tardi. E mi porse un conto di settantacinque dollari. Ho concluso che, mentre altri uomini hanno sviluppatissimo il senso della fluidità temporale, il mio tictac mentale non funziona come dovrebbe. Così bisogna che mi spieghi al mondo, tanto per mettere avanti le mani e non trovarmi poi sul banco degli accusati. Ho scritto questa storia come implorazione alla comprensione degli uomini, per spiegare a me stesso il mondo esterno — in cui tutti non fanno che correre per arrivare a tempo in qualche altro posto — e rappresentarmelo come sarà in un tempo non troppo lontano, secondo il mio orologio, quando ogni infrazione agli orari stabiliti sarà reato gravissimo. Ed eccovi quindi:

"PENTITI, ARLECCHINO!" DISSE L'UOMO DEL TIC-TAC                                            di Harlan Ellison

C'è sempre chi chiede, a che scopo? Per quelli che hanno bisogno di domandare, per quelli che hanno bisogno di matite sempre appuntite, e di sapere «a che serve», ecco:

«La massa degli uomini serve lo stato non come uomini, ma come macchine, con i loro corpi. Essi sono l'esercito vigile, e le milizie, e i carcerieri, i poliziotti, i comitati civici. Nella maggior parte dei casi, non esiste un libero esercizio del giudizio o del senso morale; essi si pongono, spontaneamente, al medesimo livello delle piante e delle pietre; e forse si arriverà a costruire uomini di legno, che serviranno egualmente bene allo scopo. Eppure, spesso questi individui sono stimati ottimi cittadini. Altri, la maggior parte dei legislatori, politici, avvocati, ministri, servono lo stato soprattutto con la testa; e, poiché raramente si lasciano indurre a distinzioni d'ordine morale, sono dispostissimi a servire il Diavolo, magari senza saperlo, quanto Dio. Pochissimi, e sono gli eroi, i patrioti, i martiri, i riformatori in senso lato, e gli uomini, servono lo stato anche con la loro coscienza, e perciò sono quasi sempre in polemica con esso; e ne sono quasi sempre trattati alla stregua di nemici». (Henry David Thoreau. «Disobbedienza civile»)

Questo il nocciolo della questione. Ora, cominciamo dalla metà, e poi passiamo all'inizio; la fine, sta al posto giusto, in coda.
Poiché così andava il loro mondo, il mondo che essi avevano voluto, per mesi la sua attività non suscitò l'attenzione di Coloro Che Mandavano Avanti Efficacemente La Baracca, di coloro che versano burro fuso sui pistoni e gli ingranaggi della civiltà. Finché non divenne chiaro che, chissà come, chissà quando, era diventato una notorietà, una celebrità, forse persino un eroe per (come l'Ufficialità la definiva) «una parte emozionalmente instabile del popolino». Allora si rivolsero al Tictacchiere e alla sua macchina legale. Ma ormai, quella spirale di scontentezza svanita da tempo ed ora, d'improvviso, risorta in un sistema dove l'immunità aveva perso ogni efficacia, era divenuto troppo reale. Ora aveva forma e sostanza. Era diventato una personalità, qualcosa che avevano escluso dal loro sistema sociale molte decadi prima. Ma esisteva, esisteva con la sua personalità prepotente. In certi ambienti, gli ambienti delle classi medie, era considerato disgustoso. Un volgare estroverso. Anarchia. Vergogna. In altri, ci si limitava a una breve smorfia di disprezzo, in quegli ambienti cioè dove il pensiero è soggetto a complicati rituali, a gentilezze ostentate. Ma più in giù, oh molto più in giù, dove la gente aveva sempre bisogno dei suoi santi e dei suoi peccatori, dei suoi «panem et circenses», dei suoi eroi e filibustieri, era considerato un Bolivar, un Napoleone, un Robin Hood, un Gesù Cristo, un Jomo Kenyatta.
E al vertice della gerarchia sociale, dove ad ogni vibrazione i potenti temono d'essere scavalcati dal cadreghino, era considerato una minaccia, un eretico, un ribelle, un pericolo. Tutti lo conoscevano, ma le reazioni più forti, più decise, si avevano ai due estremi, in cantina e all'attico della scala sociale.
Così, i suoi incartamenti furono consegnati, assieme alla sua carta temporale e al cardiocontrollo, all'ufficio del Tictacchiere.
Il Tictacchiere: un uomo alto quasi due metri, quasi sempre silenzioso. Persino nei cubicoli della gerarchia, dove la paura si generava, anche se sempre a danno degli altri, lo chiamavano il Tictacchiere. Ma nessuno osava dirglielo in faccia.
Non si chiama apertamente un uomo con un nomignolo che denota odio, specie quando quell'uomo può annullare i minuti, le ore, i giorni e le notti e gli anni della vostra vita. In sua presenza, lo chiamavano Gran Maestro del Tempo. Era più prudente.
— Questo è ciò che egli è, — disse il Tictacchiere con sincera bonomia, — ma non chi è. Questa carta temporale che tengo nella mano sinistra porta un nome, ma è il nome di ciò che egli è, non di chi è. Prima di poter emettere sentenza di revocazione, devo conoscere chi egli sia.
Chi è Arlecchino?
Alto, sopra il terzo livello della città, se ne stava accoccolato sulla piattaforma d'alluminio dell'aerodisco, e guardava la pulita geometria alla Mondrian degli edifici.
Da qualche parte, gli giungeva il ritmo da metronomo sinist-dest-sinist del turno delle 14,47 che entrava nella fabbrica Timkin, strusciando le scarpette da tennis. Un minuto dopo, con esattezza cronometrica, gli giunse il rumore, più soffocato, del ritmo sinist-dest-sinist del turno delle 5 che tornava a casa.
Un ghigno da elfo increspò la sua faccia abbronzata, e per un attimo nelle gote si scavarono due fossette. Poi, grattandosi i capelli nero ebano, tremolò nell'abito variegato, pregustando ciò che stava per accadere, gettò in alto la mazza da buffone e s'immerse nel vento, in picchiata. Scese lungo un viale, a pochi centimetri da terra, sfiorando le nappine delle dame alla moda, e infilandosi i pollici nelle orecchie e le mani aperte a ventaglio, trasse una spanna di lingua e si divertì a far boccacce. Una piccola digressione. Una dama urlò e scivolò, sprizzando pacchi e pacchetti da tutte le parti, un'altra se la fece addosso, un'altra cadde come corpo morto cade, e i servitori bloccarono il passaggio sinché non riuscirono a riportarla in vita. Una piccola digressione.
Poi s'innalzò su una brezza vagabonda, e sparì.
Girando oltre l'edificio dell'Ente per lo Studio Tempo-Moto, vide il turno che era appena salito sul marciapiedi mobile. Con assoluta coordinazione di movimenti, essi salivano sul marciapiedi e di qui venivano scaricati, come tanti birilli, sul marciapiedi espresso per i percorsi ad alte velocità.
Ancora una volta, il sorriso da elfo: gli mancava un dente, sulla mandibola sinistra. Picchiò, frenò, e si arrestò sopra le loro teste: e qui, ondeggiando graziosamente, slegò le bocche dei grandi sacchi che s'era portato da casa. E mentre lui slegava, l'aero-disco volteggiava sopra gli operai della fabbrica, e centocinquantamila dollari di mentini piovvero sul marciapiedi espresso.
Mentini! Milioni e milioni di mentini rossi e gialli e verdi e di liquerizia e di fragola e di ciliegia e rotondi e oblunghi e duri di fuori ma cremosi di dentro caddero, crepitarono, tintinnarono, rimbalzarono, spiovvero, carambolarono, sulle teste e le braccia e le spalle e i toraci degli operai della Timkin, scivolando sul marciapiedi e sotto i piedi, riempiendo il cielo di strisce di colore, dei colori della gioia e della fanciullezza, una pioggia battente, uno scroscio di doccia, un'invasione di pazzia in quel mondo ferreamente logico e timorato. Mentini!
I lavoratori gridarono e scoppiarono a ridere e ruppero le file, e i mentini s'insinuarono tra i meccanismi del marciapiedi mobile, e poi ci fu uno stridio assordante come un milione di unghie strascinate su un quarto di milione di lavagne, seguito da tosse e brontolii e cigolii, unodiquieunodilà come una fascina di legna secca, sempre ridendo e ficcandosi in bocca manciate di mentini. Una festa, un'allegria, una assoluta pazzia. Ma…
Il turno registrò sette minuti di ritardo.
Arrivarono tutti a casa sette minuti dopo l'orario previsto.
L'orario massimo fu spostato di sette minuti.
La media fu sovvertita da una interruzione di sette minuti dei marciapiedi.
Lui aveva fatto cadere il primo birillo, ed erano caduti tutti quanti.
Il Sistema aveva subito un ritardo di sette minuti. Un fatto secondario, pressoché indegno di nota, ma in una società che si reggeva sull'ordine e sulla precisione, sull'assoluta dedizione all'orario, era un disastro d'inimmaginabili proporzioni.
Così, gli fu ingiunto di presentarsi davanti al Tictacchiere. Tutti gli apparecchi radio e televisivi ripeterono l'invito. Doveva presentarsi alle 7,00 in punto. Aspettarono, ma lui si fece vivo solo alle dieci e mezza, cantò una canzoncina sulla luna piena in un posto che mai nessuno aveva sentito nominare, Venezia mi pare, e sparì di nuovo. Ma loro erano stati ad aspettarlo dalle sette, e il suo ritardo aveva mandato al diavolo tutti i loro orari. E la domanda restava senza risposta alcuna: chi era Arlecchino?

* * *

La parte di mezzo, ora la conoscete. Eccovi l'inizio. Come tutto cominciò.
Una scrivania. Giorno per giorno. Alle 9,00, apertura della posta. 9,45, appuntamento con la direzione. 10,30, discussione sui progressi del lavoro con J. L. Alle 11,15, preghiera per la pioggia. Alle 12,00 colazione… e così sempre.
— Spiacente, signorina Grant, ma l'orario dei colloqui era alle 14,30, e adesso sono quasi le diciassette. Mi spiace che lei abbia fatto tardi, ma queste sono le regole. Dovrà aspettare l'anno prossimo, e rifare la domanda. — E così sempre.
Il treno locale delle 10,10 ferma a Cresthaven, Galeswille, Tonawanda Junction, Selby e Farnhurst, ma non a Indiana City, Lucasville e Colton, tranne la domenica. L'espresso delle 10,35 ferma a Galeswille, Selby e Indiana City, tranne la domenica e gli altri giorni festivi, perché nei suddetti giorni ferma… e così sempre.
— Non potevo aspettarti, Fred. Dovevo trovarmi da Pierre Cartain alle 3,00, e mi avevi detto che ci saremmo trovati sotto l'orologio del capolinea alle 2,45, non sei venuto e così son dovuto andare da solo. Sei sempre in ritardo, Fred. Se fossi arrivato in tempo avremmo potuto fare a metà, e invece ho dovuto firmare l'ordine da solo… — E così sempre.
Gentili signori Atterley, riferendomi ai costanti ritardi di vostro figlio Gerald, sono spiacente di informarli che dovremo sospendere vostro figlio dalle lezioni, se non si troverà qualche mezzo atto a garantire la sua puntualità. Egli è un ottimo alunno, e in ogni materia ha la votazione massima, ma la sua incuranza degli orari della scuola rende impossibile la sua presenza in una organizzazione in cui tutti gli altri ragazzi sono tenuti alla scrupolosa osservanza… e così sempre.
POTRETE VOTARE SOLO SE VI PRESENTERETE AALLE 8,45.
— Me ne frego che il romanzo sia buono, ne avevo bisogno giovedì scorso!
APPUNTAMENTO ALLE 14,00.
— È in ritardo. Il posto è già stato dato a un altro postulante. Spiacente.
LE ABBIAMO FATTO UNA RITENUTA SULLO STIPENDIO DI VENTI MINUTI A CAUSA DEI SUOI RITARDI.
— Dio, com'è tardi, devo correre.
E così sempre. E così sempre. E così sempre. E così sempre sempre sempre sempre tic tac tic tac tic tac, e un giorno non è più il tempo a nostro servizio ma noi al servizio del tempo, schiavi dell'orario, adoratori del sole che trascorre nel cielo, legati ad una vita colma di costrizioni perché il sistema funziona soltanto e nella misura in cui noi ne rispettiamo gli orari.
Sinché essere in ritardo non fu più solo una piccola seccatura, ma divenne una colpa. Poi un delitto. Poi un delitto che doveva essere punito.
CON EFFETTO DEL 15 LUGLIO 2389, 12.00,00, mezzanotte, l'ufficio del Gran Maestro del Tempo richiede a tutti i cittadini di consegnare le loro tessere del tempo e i cardio-controlli per registrazione. In ottemperanza allo Statuto 555-7-SGH-999 tutti i cardio-controlli saranno collegati direttamente ai portatori e…
Erano riusciti a controllare la durata della vita dell'uomo. Se un cittadino registrava un ritardo di dieci minuti, la sua vita veniva accorciata di dieci minuti. Un'ora di ritardo, un'ora di anticipo nell'appuntamento con la morte. Se uno s'ostinava a fare ritardi, poteva trovarsi una domenica notte con un comunicato del Maestro del Tempo in cui gli si diceva che il suo tempo era spirato e che sarebbe stato «eliminato» a mezzogiorno in punto di lunedì, s'affretti a sistemare le sue faccende, signore.
E così, applicando un semplice procedimento scientifico (tenuto segreto dai collaboratori del Maestro del Tempo) il Sistema si manteneva efficiente. Era l'unico mezzo valido. Ed era anche patriottico. Infatti, si era in guerra, e non era ammissibile che qualcuno ritardasse. Ma quando mai non si era in guerra?
— Adesso, fanno veramente schifo, — disse Arlecchino, vedendo il manifesto con la taglia. — Non siamo mica più all'epoca dei banditi. Una taglia!
— Sai, — disse Alice, — che parli proprio con affettazione?
— Spiacente, — disse Arlecchino in tono umile.
— Non c'è motivo d'essere spiacente. Stai sempre a dire spiacente. Hai un grosso complesso di colpa, Everett, ed è davvero triste che tu sia così.
— Spiacente, — ripeté lui. Poi si morse le labbra per non ridere, e riapparvero le fossette, per un attimo, al centro delle gote. Non aveva fatto apposta a dire spiacente. — Devo uscire. Devo assolutamente fare qualcosa.
Alice sbatté sul tavolo il bulbo di caffè. — Oh, per amor di Dio, Everett, non potresti startene a casa almeno una sera! Devi sempre andartene in giro con quel vestito da carnevale a dar fastidio alla gente?
— Io… — si fermò, e si mise in testa il berretto a sonagli che tintinnò allegramente. Si alzò, sciacquò il suo bulbo nel lavatore e lo mise nell'asciugatore. — Devo andare.
Lei non rispose. Il notiziatore ronzò: lei ne tolse un foglietto, lo lesse e poi l'appoggiò sul tavolo. — Parla di te. Naturalmente. Ti stai rendendo ridicolo.
Egli lo lesse in fretta. Diceva che il Tictacchiere stava cercando di individuarlo. Non importa, anche quella sera avrebbe fatto tardi. Si avviò alla porta, si arrestò un attimo, e quindi le urlò in risposta: — Bene, se vuoi saperlo, anche tu parli con affettazione!
Alice ruotò al cielo i suoi begli occhioni. — Sei ridicolo. — Arlecchino uscì di scatto sbattendo la porta, che si richiuse dolcemente, silenziosamente, facendo scattare la serratura.
Bussarono leggermente, e Alice si alzò con un sospiro esasperato e aprì la porta. Dietro, c'era lui. — Torno per le dieci e mezza, bene?
Lei aggrottò le ciglia. — Perché mi dici così? Perché? Lo sai che farai tardi. Lo sai! Fai sempre tardi, perché dunque mi dici queste stupidaggini? — E richiuse la porta.
Dall'altra parte dell'uscio. Arlecchino assentì. Ha ragione. Ha sempre ragione. Farò tardi. Faccio sempre tardi. Perché sto qui a raccontarle tante stupidaggini?
Si strinse nelle spalle, e se ne andò.

* * *

Aveva sparato un razzo che diceva: Parteciperò alla 115a Invocazione Annuale dell'Associazione Medica Internazionale alle 8,00 precise. Spero mi farete compagnia.
Le parole avevano fiammeggiato a lungo nel cielo, e naturalmente le autorità si erano affrettate sul posto. Naturalmente, avevano pensato che sarebbe arrivato in ritardo. Lui invece arrivò con venti minuti d'anticipo, quando ancora stavano sistemando l'ampia rete che doveva intrappolarlo, e soffiando in un grosso corno li spaventò e li innervosì talmente che la rete scattò, imprigionando loro al posto suo e sollevandoli in alto nel cielo dell'anfiteatro dei congressi. L'Arlecchino rise e rise e si prosternò in scuse. I medici, riuniti in solenne conclave, scoppiarono a ridere essi pure, e accettarono le scuse di Arlecchino con esagerati inchini e pose grottesche, e tutti quanti si divertirono un mondo: tutti, naturalmente, tranne le autorità che erano state mandate dall'ufficio del Tictacchiere e adesso se ne stavano appesi nella rete come poveri pesci.
(In un'altra zona della città dove Arlecchino stava compiendo le sue imprese, del tutto indipendente da quanto qui viene descritto tranne che per le informazioni che questo episodio può fornire sui metodi e sulla potenza del Tictacchiere, un uomo di nome Marshall Delahanty ricevette l'avviso di scadenza dell'ufficio del Tictacchiere. Fu sua moglie a ricevere dal fattorino, con la solita smorfietta di circostanza stampata in faccia, la notifica. Sapeva di che si trattava, anche prima di aprire la busta. Tutti in quei giorni riconoscevano al primo sguardo un biglietto del Tictacchiere. Si appoggiò allo stipite, e prese il biglietto tra due dita, e sperò che non fosse per lei. Fa che sia per Marsh, pensò, brutalmente, realisticamente, o per uno dei ragazzi, ma non per me, per favore mio buon Gesù, non per me. E poi l'aprì, e vide che era per Marsh, e fu assieme sollevata e terrorizzata. Il compagno accanto nella trincea aveva preso la pallottola. — Marshall, — strillò. — Marshall. Scaduto il termine, Marshall! Odiomio Marshall, cosa faremo mai Marshall! Cosa faremo mai, cosa faremo, Marshall, omiodiomarshall!… — E in casa loro quella notte ci fu suono di carte strappate e paura, e puzzo di pazzia, ma non c'era niente, assolutamente niente da fare.
Ma Marshall Delahanty cercò di fuggire. Il giorno dopo alle prime luci del sole, quando tutto il suo tempo si esaurì, egli si trovava lontano, nella foresta a duecento miglia dalla città, ma l'ufficio del Tictacchiere spense il suo cardiocontrollo e Marshall Delahanty cadde di schianto sulle ginocchia, e il suo cuore si fermò e il suo sangue seccò mentre accorreva al cervello, e lui crepò. Una luce si spense nel suo settore sulla mappa del Maestro del Tempo, la notizia fu trasmessa agli archivi e il nome di Georgette Delahanty fu trascritto negli elenchi delle donne disponibili, sino al suo prossimo matrimonio. Qui finisce la nota, e fate le considerazioni che credete, ma non ridete, perché questo succederà ad Arlecchino se il Tictacchiere scoprirà il suo nome. E non sarà una cosa allegra).
Il quartiere delle compere della città era colmo di folla. Donne in cotonina gialla di cotone e uomini in costumi pseudotirolesi. Quando Arlecchino apparve sull'edificio ancora in costruzione del Centro d'Acquisti, il corno sulla bocca ghignante, tutti si fermarono, indicandoselo a braccio teso, e lui li arringò:
— Perché vi lasciate comandare a bacchetta? Perché vi lasciate dire che dovete correre e affrettarvi come formiche o api? Ma prendetevela comoda! Godetevi l'alba, godetevi la brezza del mare, fate che la vita scorra al vostro ritmo! Non siate schiavi del tempo, c'è un mucchio di maniere per morire… abbasso il Tictacchiere!
Ma chi è quel matto? voleva sapere la folla. Ma chi è quel oh ma è tardi devo andare di corsa…
La squadra delle costruzioni al Centro d'Acquisti ricevette dall'ufficio del Maestro del Tempo l'ordine urgente di collaborare alla cattura del pericoloso criminale noto con il nome di Arlecchino che in quel momento si trovava sulla cupola dell'edificio. La squadra rispose di no, che avrebbero perso tempo sul loro orario di lavoro, ma il Tictacchiere riuscì a muovere i fili adatti del governo, e la squadra ricevette l'ordine ufficiale di cessare il lavoro e di catturare il disturbatore sulla cupola. Così una dozzina di robusti lavoratori cominciarono la scalata con le piattaforme anti-g, raggiungendo Arlecchino.
Dopo il primo assalto (in cui, nonostante gli attenti sforzi di Arlecchino per preservare la sua libertà e integrità, nessuno rimase ferito), i lavoratori cercarono di raggruppare e riorganizzare le forze. Ma troppo tardi, Arlecchino era già sparito. Intanto però aveva radunato una grossa folla, e gli impianti del Centro d'Acquisti furono sballati per ore, ore intere. Le necessità di rifornimento superarono ben presto le medie solite, e furono prese misure straordinarie per il resto della giornata, ma tutto andò storto, e si vendettero troppe chicchere spaiate e troppo pochi cavatappi, e così i livelli normali andarono a farsi fottere. Le spedizioni subirono contrattempi e le ripercussioni raggiunsero persino, rapide come un brivido, i sancta sanctorum dei centri di produzione.
— Non tornate se non l'avete preso, — disse il Tictacchiere in tono molto calmo, molto sincero, e soprattutto molto pericoloso.
Usarono i cani. I delatori. Gli indicatori dei cardio-controlli. La corruzione. L'intimidazione. Il tormento. La tortura. Gli invertiti. I poliziotti. Le impronte digitali. La fisica applicata. Le tecniche di criminologia.
E finalmente, dannato diavolo, lo presero.
In fin dei conti, era solo un certo Everett C. Marm, un uomo normalissimo. Solo assolutamente privo del senso del tempo.
— Pentiti, Arlecchino! — disse il Tictacchiere.
— Piantala, — replicò con un ghigno Arlecchino.
— Hai collezionato un ritardo di sessantatré anni, cinque mesi, tre settimane, due giorni, dodici ore, quarantun minuti, cinquantanove secondi virgola trentasei microsecondi. Hai già consumato tutto il tuo tempo, e passa. Devo eliminarti.
— Non mi fai paura. Preferisco morire, che vivere in un mondo idiota con una gattamorta come te.
— È il mio lavoro.
— Tu sei un tiranno. Non hai il diritto di spiare la gente e di ammazzarla se fanno ritardo.
— Non sai inserirti nella nostra società.
— Scioglimi, e ti mollo un pugno sui denti.
— Sei un nonconformista.
— Non è mai stata una colpa, che io sappia.
— Ora lo è. Devi vivere nel mondo che ti è assegnato.
— Lo odio. È un mondo terribile.
— Non tutti la pensano così. La maggior parte della gente ama vivere nell'ordine.
— Io no. E nemmeno la maggior parte della gente che io conosco.
— Non è vero. Sai come siamo riusciti a prenderti?
— Non m'interessa.
— Una ragazza di nome Alice ci ha detto chi eri.
— Non è vero.
— È vero. Le davi sui nervi. Lei vuole conformarsi, avere un padrone, una regola di vita. Devo eliminarti.
— Sei un idiota!
— Pentiti, Arlecchino! — disse il Tictacchiere.
— Piantala.
Lo mandarono a Coventry. E a Coventry se lo lavorarono ben bene. Applicarono una tecnica piuttosto antica. E un giorno Arlecchino apparve sui teleschermi, sempre con il suo ghigno da elfo e gli occhi lucenti, e a vederlo non si sarebbe detto che gli avessero fatto il lavaggio del cervello, e disse che si era sbagliato, che in effetti era una cosa ottima, ottima davvero avere padroni e orari e rispettare gli orari, e tutti stettero a guardarlo sugli schermi pubblici sulle facciate delle case, e si dissero l'un l'altro, beh, in fin dei conti, vedi, era proprio matto, e se così va il mondo lasciamolo andare perché non c'è scopo ad opporsi al Tictacchiere. Così Everett C. Marm venne eliminato, il che costituì certo una perdita per l'umanità, ma non si può fare una frittata senza rompere qualche uovo, e in ogni rivoluzione alcuni muoiono che non dovrebbero, ma bisogna, perché così vanno le cose, e per piccolo che sia il cambiamento, vale pur sempre la pena. O, per meglio spiegarmi:
— Ehm, mi scusi signore, ehm, non so se, ehm, devo dirglielo, ma è in ritardo di tre minuti.
L'usciere sorrise con aria di chiedere scusa.
— Ridicolo! — mormorò il Tictacchiere. — Il tuo orologio corre troppo. — Ed entrò nell'ufficio, sogghignando.

Harlan Ellison ("Repent Harlequin!", Said the Ticktockman, 1965)

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