Quest'articolo, che apparve in Kommunismus 1/6 (1920), pp. 161-172, rappresenta il contributo di Lukàcs ad una questione che occupò a fondo tutti i membri della III Internazionale. Dal momento che Lukàcs fa spesso riferimento ad eventi interni al Partito Comunista Tedesco (KPD), è importante sottolineare che il partito venne fondato fra dicembre del 1918 e gennaio del 1919, quando La Lega Spartachista ruppe con il Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD), a seguito della decisione adottato da questo di partecipare alle elezioni per il primo Reichstag dopo la prima guerra mondiale. Dopo l'assassinio di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht (avvenuto nel gennaio del 1919), la leadership del partito andò a Paul Levi, che nel secondo congresso del KPD, tenutosi ad Heidelberg nel mese di ottobre del 1919, impose le sue "Tesi sul parlamentarismo", in una fase che spingeva la partecipazione alle elezioni. Questo portò ad una scissione nel partito, e quelli che si erano opposti a Levi fondarono il Partito Comunista dei Lavoratoti (KAPD). Di fronte alla sfida rappresentata da questo partito ed al crescente rafforzamento della reazione di destra in tutto il paese (come venne dimostrato dal golpe di Kapp nel 1920), il quarto congresso del KPD, che si svolse a Berlino nell'aprile del 1920, decise di partecipare alle elezioni di giugno. In quelle elezioni, il KPD ottenne il 2% dei voti, e nel Reichstag vennero eletti sia Levi che Clara Zetkin. Nel dicembre di quello stesso anno, il Partito si unì all'ala di sinistra dell'USPD, adottando il nome di Partito Comunista Unito di Germania (VKPD). Da quel momento, il KPD rimase coinvolto nell'azione parlamentare. L'articolo di Lukàcs apparve tre mesi prima che Lenin dedicasse alla questione "L'estremismo, malattia infantile del comunismo". Lenin riteneva che la prospettiva di Lukàcs fosse un sintomo delle malattia estremista di sinistra e la fazione di Kun attaccò ripetutamente le posizioni qui espresse da Lukàcs.
La questione del parlamentarismo
[Zur Frage des Parlamentarismus, 1920]
- di György Lukács -
1 - Oggigiorno si afferma comunemente che la questione del parlamentarismo non è una questione di principio, ma semplicemente una questione tattica.
Nella sua indubbia esattezza quest’affermazione presenta però non poche oscurità. A prescindere dal fatto che essa è quasi sempre pronunciata da
coloro che – praticamente – sono a favore del parlamentarismo, onde quell’affermazione significa quasi sempre una presa di posizione a favore del
parlamentarismo, la mera constatazione che si tratta di una questione non di principio, ma solamente tattica, è poverissima di contenuto. Lo è
soprattutto perché, mancando una effettiva teoria della conoscenza del socialismo, il rapporto in cui si trova una questione tattica rispetto ai
princìpi è completamente oscuro.
Pur non potendo approfondire in questa sede tale problema, dobbiamo però sottolineare quanto segue: tattica significa applicazione pratica di
princìpi stabiliti teoricamente. Tattica, cioè, è la congiunzione tra l’obiettivo finale e la realtà immediatamente data. Essa dunque è determinata in modo bilaterale: da una parte, mediante i princìpi e obiettivi finali del comunismo immutabilmente fissati; dall’altra, mediante la costantemente
mutevole realtà storica effettiva. Sebbene ripetutamente si sia parlato della grande agilità della tattica comunista (almeno per quanto riguarda ciò
che essa dovrebbe essere), non va dimenticato per l’esatta comprensione di quest’assunto che la flessibilità della tattica comunista è la diretta
conseguenza della rigidità dei princìpi del comunismo. Gli immutabili princìpi del comunismo possono avere questa flessibilità solo per il fatto di
essere qualificati a rimodellare in maniera viva e feconda la realtà perpetuamente mutevole. Invece ogni Realpolitik, ogni azione senza princìpi,
diventa rigida e schematica quanto più ostinatamente viene sottolineato che essa è libera da princìpi (la politica imperialistica tedesca ad
esempio). Gli elementi che nel mutamento restano costanti e imprimono una norma alla molteplicità, non possono venire emarginati da nessuna
Realpolitik. Se questa funzione non viene espletata da una teoria capace d’influire fecondamente sui fatti e di fecondarsi in essi, al suo posto
subentra l’abitudine, lo schema fisso, la routine, che sono incapaci di adattarsi alle esigenze del momento. Proprio per questo suo saldo ancorarsi
alla teoria e ai princìpi, la tattica comunista si distingue da ogni tattica «realistica» borghese o socialdemocratica piccolo-borghese. Se dunque
per il partito comunista una questione è posta come questione tattica, occorre chiedersi: 1) da quali princìpi dipenda il problema tattico
considerato, 2) a quale situazione storica è applicabile questa tattica, in conformità a tale dipendenza, 3) di che natura, sempre in dipendenza
dalla teoria, debba essere la tattica, 4) in quale modo sia da concepire la connessione di una singola questione tattica con altre questioni
tattiche, intese ancora una volta conformemente alla loro connessione con le questioni di principio.
2. Per meglio definire il parlamentarismo come problema tattico del comunismo, bisogna sempre prendere le mosse tanto dal principio della lotta di
classe, quanto dall’analisi concreta dell’attuale situazione oggettiva dei rapporti di forza, materiali e ideologici, tra le classi antagoniste. Da
ciò discendono i due modi decisivi di porre il problema, ossia lo stabilire 1) quando in generale il parlamentarismo vada usato come arma, come
strumento tattico del proletariato, e 2) come occorra utilizzare quest’arma nell’interesse della lotta di classe del proletariato.
La lotta di classe del proletariato nega, per sua natura, la società borghese. Ciò però non implica affatto quell’indifferenza politica nei suoi
confronti dello stato già derisa a ragione da Marx, bensì un tipo di lotta in cui il proletariato non si lasci assolutamente condizionare dalle forme
e dai mezzi che la società borghese ha eretto per i propri fini: un tipo di lotta in cui l’iniziativa rimanga in ogni caso dalla parte del
proletariato. Ma non bisogna dimenticare che questo tipo assolutamente puro di lotta di classe proletaria può dispiegarsi solo raramente in forma
pura. Prima di tutto perché il proletariato, sebbene in base alla missione impostagli dalla filosofia della storia combatta senza sosta contro
l’esistenza della società borghese, nelle situazioni storiche date si trova invece molto spesso sulla difensiva nei confronti della borghesia. L’idea
della lotta di classe proletaria è una grande offensiva contro il capitalismo: la storia ce la fa apparire come un’offensiva che è imposta al
proletariato. La posizione tattica in cui il proletariato viene a trovarsi di volta in volta si può analizzare in maniera semplicissima in base alla
sua caratterizzazione offensiva o difensiva, sicché da quanto abbiamo testé detto si deduce che nelle situazioni difensive si è costretti a usare
quei mezzi tattici che, nella loro più intima essenza, contrastano con l’idea della lotta di classe del proletariato. L’impiego indubbiamente
necessario di tali mezzi è connesso perciò sempre con il pericolo di compromettere lo scopo per il quale essi vengono utilizzati, vale a dire le
lotte di classe del proletariato.
Il parlamento, che è lo strumento originariamente più consono alla borghesia, può essere solamente un’arma difensiva del proletariato. Il problema
del «quando» usare quest’arma si chiarisce ora da sé: la si usa in quella fase della lotta di classe in cui al proletariato, in conseguenza dei
rapporti di forza esterni e anche della propria immaturità ideologica, non è possibile dar battaglia alla borghesia con i propri mezzi d’assalto.
L’impegnarsi nell’attività parlamentare comporta quindi per ogni partito comunista la coscienza e l’ammissione che la rivoluzione è impensabile a
breve scadenza. Il proletariato, costretto sulla difensiva, può servirsi della tribuna del parlamento per l’agitazione e la propaganda politica, può
utilizzare in sostituzione di forme di lotta esterna non attuabili le possibilità che la «libertà» borghese assicura ai membri del parlamento; può
servirsi delle lotte parlamentari contro la borghesia per raccogliere le proprie forze, come preparazione alla vera, autentica battaglia contro la
borghesia. Che una tale fase possa anche durare un lasso di tempo considerevolmente lungo si comprende da sé, ma ciò non toglie nulla al fatto che
per un partito comunista l’attività parlamentare non può mai essere altro che una preparazione alla lotta autentica, e mai esser concepita come se
fosse essa da sola la vera lotta.
3. Ancor più difficile dello stabilire il momento in cui può essere applicata la tattica parlamentare, è stabilire come deve comportarsi una frazione
comunista in parlamento (i due problemi d’altronde sono strettamente connessi). Ci si richiama quasi sempre [*1] all’esempio di Karl Liebknecht e
alla funzione bolscevica della Duma. Ma proprio questi due esempi mostrano come sia difficile per i comunisti rispettare le regole del gioco
parlamentare, e quali straordinarie capacità vi si richiedono da parte dei parlamentari comunisti. In breve, la difficoltà si riassume in questo: il
deputato comunista deve combattere contro il parlamento nel parlamento – e occorre farlo con una tattica che nemmeno per un momento venga a porsi
sul terreno della borghesia, cioè del parlamentarismo. Non vogliamo riferirci alla «protesta» contro il parlamentarismo, né alla «lotta» contro di
esso durante i «dibattiti» (tutto ciò restando parlamentaristico, legale, una mera fraseologia rivoluzionaria), bensì alla lotta contro il
parlamentarismo e il potere della borghesia condotta con l’azione nel parlamento stesso.
Quest’azione rivoluzionaria non può avere altro scopo se non di preparare ideologicamente il passaggio del proletariato dalla fase difensiva a quella
offensiva, nel senso che mediante questa azione la borghesia e i suoi complici socialdemocratici saranno costretti a mettere a nudo la loro dittatura
di classe in modo tale che l’ulteriore prosecuzione può risultarne compromessa. Nel caso della tattica comunista volta a mascherare la borghesia, non
si tratta perciò d’una tattica verbale (la quale può essere spesso una vuota fraseologia rivoluzionaria tollerata dalla borghesia), ma di una
provocazione verso la borghesia per indurla a svelare più apertamente la sua condotta, a scoprirsi da sola con azioni che a un certo momento possono
risultare ad essa sfavorevoli. Poiché il parlamentarismo è una tattica difensiva del proletariato, bisogna apprestare questa difensiva in modo che
l’iniziativa tattica resti pur sempre al proletariato, e che gli attacchi della borghesia risultino fatali alla medesima [*2].
Già questa breve e sommaria esposizione mostra spero con sufficiente chiarezza le enormi difficoltà di questa tattica. La prima difficoltà che quasi
tutti i gruppi parlamentari non riescono a superare, è di pervenire entro lo stesso parlamento a un effettivo superamento del parlamentarismo.
Infatti anche la più acuta critica all’azione delle classi dominanti resta un verbalismo, una vuota frase rivoluzionaria, se non arriva a incidere
oltre il mero ambito parlamentaristico, se non ha come effetto che la lotta di classe riprende immediatamente vigore e che i contrasti di classe si
presentano in una maniera più palese la quale accelera la maturazione dell’ideologia del proletariato. L’opportunismo, che è il maggior pericolo
della tattica parlamentare, ha la sua ragione prima nel fatto che è opportunistica ogni attività parlamentare la quale per sua natura ed effetto non
vada oltre lo stesso parlamento, ossia non abbia almeno la tendenza a rompere l’ambito parlamentaristico. La più serrata critica esercitata
all’interno di quest’ambito non può mutare assolutamente nulla. Al contrario! Proprio il fatto che nell’ambito del parlamento un’aspra critica della
società borghese appare possibile, contribuirà al disorientamento, auspicato dalla borghesia, della coscienza di classe del proletariato. La finzione
della democrazia parlamentare borghese si basa proprio sul fatto che il parlamento appare non come organo dell’oppressione di classe, ma come
l’organo di «tutto il popolo». Ogni radicalismo verbale – con il fatto stesso della sua possibilità d’esplicarsi in parlamento – risulta
opportunistico e riprovevole poiché rafforza negli strati meno coscienti del proletariato le illusioni nei confronti di questa finzione.
Bisogna quindi sabotare il parlamento in quanto parlamento, e l’attività parlamentare dev’essere proiettata oltre il parlamentarismo. Questo compito
implica però per la rappresentanza parlamentare comunista un’ulteriore difficoltà tattica che rischia di compromettere questo lavoro proprio nel
momento in cui il pericolo dell’opportunismo pare superato. Il pericolo è che, nonostante gli sforzi della frazione parlamentare comunista,
l’iniziativa e il sopravvento tattico restino nelle mani della borghesia. Il sopravvento tattico dipende dal fatto di quale delle due parti riesca a
imporre all’avversario condizioni di lotta per sé favorevoli. Ma abbiamo già rilevato che ogni stasi parlamentaristica della lotta è una vittoria
tattica della borghesia; in numerosi casi il proletariato è perciò posto dinanzi alla scelta di evitare la lotta decisiva (arrestandosi al livello
parlamentare, il che implica un rischio di opportunismo), o di attuare la spinta oltre il parlamentarismo e l’appello alle masse in un momento in
cui ciò è favorevole alla borghesia. L’esempio più chiaro dell’irresolubilità di questa questione ce lo offre l’attuale situazione del proletariato
italiano. Le elezioni, svoltesi apertamente sotto l’insegna comunista come una larghissima «agitazione», hanno fatto guadagnare al partito un
considerevole numero di mandati. E con questo? O si prende parte al «positivo lavoro» parlamentare (cosa che Turati e i suoi accoliti auspicano), e
la conseguenza è la vittoria dell’opportunismo, lo svilimento del movimento rivoluzionario; oppure si opera un aperto sabotaggio del parlamento, e
la conseguenza è che prima o poi avverrà lo scontro diretto con la borghesia, proprio quando il proletariato non sarà in grado di sceglierne il
momento. Non si fraintenda: non partiamo affatto dal ridicolo presupposto che si possa «scegliere il momento» per la rivoluzione; riteniamo, al
contrario, che le esplosioni rivoluzionarie sono azioni di massa spontanee, nelle quali al partito spetta il compito di rendere cosciente il fine,
d’indicare la direzione. Ma per il fatto stesso che il punto di partenza dello scontro sta nel parlamento, la spontaneità delle masse corre appunto
un serio pericolo. L’azione parlamentare diventa una vuota dimostrazione (il cui effetto con l’andar del tempo prostra le masse e le indebolisce),
oppure conduce a ben riuscite provocazioni della borghesia. La frazione italiana, temendo quest’ultima eventualità, oscilla senza posa tra le vuote
dimostrazioni e il cauto opportunismo della retorica rivoluzionaria (accanto a questi errori tattici di metodo sono stati certo compiuti anche altri
errori tattici di contenuto, come ad esempio la dimostrazione piccolo-borghese per la repubblica).
4. Da quest’esempio esce ben rafforzata la teoria che mostra come possa diventare rischiosa per il proletariato una «vittoria elettorale». Infatti
per il partito italiano il maggior pericolo sta in ciò, che la sua attività antiparlamentare in parlamento può portare molto facilmente alla
spaccatura del parlamento stesso, sebbene ideologicamente e organizzativamente il proletariato italiano non possieda ancora la maturità necessaria
alla lotta decisiva. La contraddizione tra vittoria elettorale e impreparazione chiarisce senza ambagi l’inconsistenza di quella argomentazione la
quale, favorevole al parlamentarismo, scorge in esso una specie di «parata militare» del proletariato. Se ogni voto significasse realmente un vero
comunista, queste remore cadrebbero da sé, ossia la maturità ideologica esisterebbe fin da ora.
Ciò mostra però anche che, perfino come mero strumento di propaganda, l’agitazione elettorale non è da accettare ad occhi chiusi. La propaganda del
partito comunista deve servire alla chiarificazione della coscienza di classe delle masse proletarie, a risvegliare alla lotta di classe. Essa
perciò dev’essere diretta ad accelerare nella maniera più intensa possibile il processo di differenziazione all’interno del proletariato. Solo in
tal modo si può ottenere che da un lato il nucleo saldo e cosciente del proletariato rivoluzionario (il partito comunista) si sviluppi nel senso
della quantità e della qualità, e che dall’altro il partito, mediante l’insegnamento pratico dell’azione rivoluzionaria attiri a sé gli strati meno
coscienti e li porti alla coscienza rivoluzionaria della loro condizione. L’agitazione elettorale si rivela a tal fine uno strumento assai dubbio.
Infatti l’atto del voto non solo non è un’azione, ma ciò che è molto peggio, è un atto apparente, è la parvenza illusoria di un’azione, onde esso
opera nella direzione non di promuovere, bensì di offuscare la coscienza. Apparentemente viene messa sul piede di guerra una grande armata la quale
però fa cilecca nel momento preciso in cui si rende necessaria una ferma resistenza (è il caso della socialdemocrazia tedesca nell’agosto 1914).
Questa situazione deriva necessariamente dal carattere tipicamente borghese dei partiti parlamentari. Come per l’organizzazione complessiva della
società borghese, così anche per i partiti borghesi lo scopo finale, sebbene raramente a livello di coscienza, è l’offuscamento della coscienza di
classe. Da sparuta minoranza della popolazione, la borghesia riesce a mantenere il suo potere solamente perché essa inquadra nel suo séguito tutti
gli strati sociali materialmente e ideologicamente incerti e indefiniti. Di conseguenza il partito borghese-parlamentare è una risultante dei più
eterogenei interessi di classe (in cui dal punto di vista del capitalismo il compromesso apparente è ovviamente sempre maggiore di quello reale). Il
proletariato, non appena partecipa come forza politica alla lotta elettorale, è quasi sempre costretto a subire questa struttura del partito. La
vita peculiare di ogni meccanismo elettorale che necessariamente lavora per la più grande «vittoria» possibile, condiziona quasi sempre le parole
d’ordine nel senso ch’esse sono dirette a procacciare il maggior numero possibile di nuovi «aderenti». E anche quando ciò non avviene, o non avviene
intenzionalmente, è pur sempre insito nella tecnica complessiva delle elezioni un metodo d’adescamento dei «seguaci» che cela in sé il pericolo
fatale di scindere tra loro convinzione e azione, e destare così un’inclinazione all’imborghesimento, all’opportunismo. L’opera educativa dei
partiti comunisti, la loro influenza sui gruppi indecisi ed esitanti del proletariato, può diventare realmente efficace soltanto a patto di riuscire
a rafforzare in essi la convinzione rivoluzionaria mediante l’insegnamento diretto dell’azione rivoluzionaria. Ogni campagna elettorale, in
corrispondenza al suo carattere borghese, prende invece una direzione completamente opposta, che solo in rarissimi casi si riesce a superare. Anche
il partito italiano ha subito questo pericolo: l’ala destra ha considerato l’adesione alla Terza Internazionale, la richiesta della repubblica dei
consigli, come mere parole d’ordine elettorali. Il processo di differenziazione, l’effettiva conquista delle masse per una azione comunista possono
quindi cominciare solo più tardi (e probabilmente in condizioni più sfavorevoli). In generale le parole d’ordine elettorali, proprio perché non
hanno alcuna relazione immediata con l’azione, rivelano una sorprendente tendenza a svisare i contrasti, a unificare linee divergenti:
caratteristiche, queste, le quali sono più che rischiose proprio in questo particolare momento della lotta di classe, in cui è in gioco l’effettiva
e operante unità del proletariato, e non già l’unità apparente dei vecchi partiti.
5. Tra le difficoltà pressoché insormontabili di una azione comunista in parlamento va annoverata l’eccessiva indipendenza e il potere decisionale
che si suole attribuire al gruppo parlamentare nella vita di partito. Che ciò rappresenti un vantaggio per i partiti borghesi è indubbio, ma qui non
possiamo analizzare la questione più da presso [*3]. Comunque ciò che è utile per la borghesia è quasi senza eccezione rischioso per il
proletariato. È così anche in questo caso in cui, dati i suesposti pericoli derivanti dalla tattica parlamentare, si può nutrire una certa speranza
di evitarli solo se l’attività parlamentare è incondizionatamente e totalmente sottoposta alla direzione centrale extraparlamentare. Teoricamente la
cosa sembra ovvia, ma l’esperienza ci insegna che il rapporto tra partito e frazione parlamentare si capovolge pressoché costantemente, onde è il
partito a venir rimorchiato dalla frazione parlamentare. Avvenne così, ad esempio, nel caso Liebknecht durante la guerra, allorché nei confronti
della frazione del Reichstag egli si richiamò, del tutto inutilmente come era da aspettarsi, al contenuto vincolante del programma di partito [*4].
Ancora più arduo del rapporto fra frazione parlamentare e partito, è il rapporto tra la prima e il consiglio operaio. La difficoltà di
un’impostazione teoricamente corretta del problema getta ancora una volta una vivida luce sul carattere problematico del parlamentarismo nella lotta
di classe del proletariato. I consigli operai, come organizzazione dell’intero proletariato (di quello consapevole come in quello privo di
coscienza), si proiettano con il solo fatto della loro esistenza al di là della società borghese. Per loro natura essi sono organizzazioni
rivoluzionarie di diffusione, capacità operativa e potere del proletariato; in quanto tali, essi sono veri e propri criteri di misura dello sviluppo
della rivoluzione. Infatti tutto ciò che viene attuato e conseguito nei consigli operai è strappato di forza alla borghesia, ed è quindi prezioso
non solo come risultato, bensì soprattutto come strumento educativo all’azione di classe cosciente. Siamo dunque al colmo del «cretinismo
parlamentare» quando si fanno dei tentativi (come quelli ad opera dell’USPD) «di ancorare alla Costituzione» i consigli operai, di garantire loro un
determinato campo d’azione legale. La legalità uccide i consigli operai. Come organizzazione offensiva del proletariato rivoluzionario, il consiglio
operaio esiste solo in quanto minaccia l’esistenza della società borghese, in quanto passo per passo si batte per distruggerla e preparare così
l’edificazione della società proletaria. Ogni forma di legalità, vale a dire il suo inserimento nella società borghese con determinati limiti di
competenza, trasforma la sua esistenza in una parvenza di vita: il consiglio operaio diventa una ibrida via di mezzo fra un circolo per conferenze e
un comitato esecutivo, insomma una caricatura del parlamento.
È dunque possibile che in generale il consiglio operaio e la frazione parlamentare coesistano come armi tattiche del proletariato? Dal carattere
offensivo dell’uno e da quello difensivo dell’altra sarebbe naturale dedurne una reciproca integrazione [*5]. Tali tentativi di conciliazione
trascurano però il fatto che offensiva e difensiva, nella lotta di classe, sono concetti dialettici, ognuno dei quali comprende un intero universo
di azioni (e quindi, in entrambi i casi, offensive singole e difensive singole), e può venire applicato solo a una determinata fase della lotta di
classe, epperò in connessione con le fasi contigue. Ai fini della questione qui trattata la differenza tra le due fasi si può nel modo più breve e
più chiaro definire così: il proletariato si trova sulla difensiva fin quando non è cominciato il processo di dissoluzione del capitalismo. Se
questa fase dello sviluppo economico è iniziata, allora – e non importa se questo mutamento sia divenuto un fatto consapevole o meno, e men che meno
importa se sia «scientificamente» individuabile e verificabile – il proletariato è costretto all’offensiva. Ma siccome il processo evolutivo
dell’ideologia non coincide meccanicamente con quello dell’economia, né procede del tutto parallelamente ad esso, accade raramente che la
possibilità e la necessità obiettiva di passare alla fase offensiva della lotta di classe trovi il proletariato sufficientemente preparato sul piano
ideologico. In conseguenza della situazione economica, l’azione spontanea delle masse procede sì in una direzione rivoluzionaria; essa però viene
sempre deviata su falsi binari dal gruppo dirigente opportunistico (che non vuole o non può liberarsi dalle abitudini proprie della fase difensiva),
oppure viene completamente sabotata. Pertanto nella fase offensiva della lotta di classe non sono soltanto la borghesia e gli strati sociali da essa
guidati a trovarsi schierati ostilmente contro il proletariato, ma anche i suoi vecchi dirigenti. La critica perciò non va più rivolta in prima
linea alla borghesia (la quale è già stata giudicata dalla storia), bensì all’ala destra e al centro-dei movimento operaio, alla socialdemocrazia,
senza il cui aiuto il capitalismo non avrebbe in nessun paese la minima prospettiva di superare, sia pure temporaneamente, la sua attuale crisi.
La critica del proletariato è però ugualmente una critica dell’azione, un’opera di educazione in vista dell’azione rivoluzionaria, un insegnamento
pratico. A questo fine, i consigli operai sono lo strumento più idoneo che si possa immaginare. La loro funzione educativa è infatti più importante
di tutte le singole conquiste che essi sono in grado di ottenere a favore del proletariato. Il consiglio operaio è la morte della socialdemocrazia.
Mentre in parlamento è possibile celare l’effettivo opportunismo con una retorica rivoluzionaria, il consiglio operaio è invece costretto
all’azione, oppure cessa altrimenti di esistere. Quest’azione, la cui guida consapevole deve essere il partito comunista, riesce ad eliminare
l’opportunismo, a condurre a fondo la critica oggi necessaria. Nessuna meraviglia, dunque, che la socialdemocrazia paventi l’autocritica che le
viene imposta in questa sede. L’evoluzione dei consigli operai in Russia, dalla prima alla seconda rivoluzione, mostra chiaramente la direzione in
cui questo sviluppo deve portare.
Dal punto di vista teorico e tattico, infine, le posizioni del consiglio operaio e del parlamento risulterebbero così definite: dove un consiglio
operaio (anche nell’ambito più modesto) è possibile, il parlamentarismo è superfluo. Esso è perfino pericoloso perché la sua natura comporta che la
critica esercitabile nel suo ambito sia solo la critica della borghesia, e non l’autocritica del proletariato. Ma il proletariato, prima di porre
piede nella terra benedetta della liberazione, deve passare attraverso il purgatorio di questa autocritica, nella quale esso dissolve, ripudia e
porta infine a purificazione la sua stessa forma, assunta nell’epoca capitalistica e la quale forma si manifesta nel modo più pregnante nella
socialdemocrazia.
- György Lukács -
NOTE:
[*1] - Recentemente in Karl Rader, Die Entwicklung der Weltrevolution und die Taktik der Kommunistischen Parteien im Kampfe um die Diktatur des Proletariats [Lo sviluppo della rivoluzione mondiale e la tattica dei partiti comunisti nella lotta per la dittatura del proletariato], Berlin 1920, p. 29.
[*2] - Nella sua Prefazione alle Lotte di classe in Francia, troppo spesso intenzionalmente fraintesa, Engels pensa senza dubbio a questa tattica quando dice che i partiti dell’ordine vanno in rovina attraverso la situazione «legalitaria» da essi creata. L’analisi fatta da Engels è inequivocabilmente l’analisi di una situazione difensiva.
[*3] - È una questione che si connette strettamente col problema dei vantaggi che la «divisione dei poteri» comporta per la borghesia.
[*4] - Karl Liebknecht, Klassenkampf gegen den Krieg [Lotta di classe contro la guerra], Berlin 1915, p. 53.
[*5] - In questo senso va la proposta di Max Adler d’istituire il consiglio operaio come «seconda Camera».
fonte: György Lukács ~ il primo blog in progress dedicato a Lukács
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