domenica 21 ottobre 2018

Lui, lei e gli altri...

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Quando il 16 agosto del 1960 la polizia sovietica bussa alla porta di Olga Ivinskaja, la donna conosce già il motivo di quella visita sgradita. Da quindici anni è infatti l’amante, l’amica, la confidente dello scrittore Boris Pasternak, diventato un nemico della patria all’indomani della pubblicazione clandestina del Dottor Živago. Olga è entrata a tal punto nel cuore di Boris da ispirare la protagonista femminile del romanzo, l’immortale Lara. Nel 1960 Pasternak è ormai morto da qualche mese, sono passati tre anni dalla prima edizione del romanzo e due anni dal Premio Nobel che è stato costretto a non ritirare, così Olga finisce in Siberia dopo un processo sommario. È solo l’ultimo capitolo, postumo, della vita sentimentale di uno scrittore irregolare, segnata da amori folli e abbandoni repentini: dalla seconda moglie Zinaida, rubata a un amico, alla poetessa Marina Cvetaeva, fino all’incontro folgorante con la sua nuova musa, Olga. Intorno, scorre la vita ambigua di Pasternak verso un regime che contesta in privato ma che non esita ad appoggiare pubblicamente, tradendo gli ideali dei compagni intellettuali come Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, che conoscevano gli orrori della Lubjanka.

(dal risvolto di copertina di: "Il senso di colpa del dottor Zivago", di Pierluigi Battista. La nave di Teseo)

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Nel labirinto di Pasternak: I tradimenti e un amore che sa di riscatto
- di Barbara Stefanelli -

C’era un gioco che si faceva da ragazzi, bisognava essere in gruppo e avere in mente una storia: due protagonisti, qualche comparsa, il luogo dove avvengono i fatti, i dialoghi, un epilogo. Si scriveva una striscia di testo su un foglio, che poi si piegava accuratamente per proteggere l’embargo e si passava a chi avevi accanto, in senso orario. Alla fine del giro si poteva distendere la carta — nel frattempo era diventata una specie di ventaglio richiuso lungo un’unica stecca — e si rileggeva. Dalla storia d’origine di ciascuno scaturivano tante versioni, incrociate e sovrapposte, quanti erano i partecipanti. Nello stupore generale, le vicende umane avevano preso mille strade, ognuna legittima e (in)credibile. È l’effetto che fa il sorprendente libricino scritto da Pierluigi Battista: Il senso di colpa del dottor Živago, dove in meno di cento pagine si distende d’un fiato un labirinto di disvelamenti di uomini e donne, poeti ed editori, spie e dittatori, telefonate, carteggi segreti, letteratura e verità.

Chi è lui. Boris Pasternak, autore di poesie e di un romanzo, Il dottor Živago, premiato nel 1958 con un Nobel che non andò a ritirare per «ragioni di Stato», figlio di un pittore e di una pianista, artista promettente già agli esordi e affascinante sin dai primi ritratti dipinti dal padre, sposato due volte (con la prima moglie ebbe un figlio, Evghenij; la seconda, Zinaida, la strappò al miglior amico di allora) e per 15 anni — dai suoi 56 alla fine — amante fedele dell’unica vera musa della sua vita.
Chi è lei. Olga Ivinskaja, redattrice nella rivista «Novy Mir» dove trentaquattrenne conobbe Boris e ne ricambiò una passione senza preliminari, vedova due volte (il primo marito suicida), due figli, due aborti con Pasternak, due volte imprigionata nei gulag di Stalin che perseguitò lei e risparmiò lui («lasciatelo in pace tra le nuvole», sarebbe stata la linea del Cremlino).
Dove siamo. Ci troviamo nella Mosca degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta fino — per chi sopravvisse — alla caduta del Muro, quando Evghenij andò finalmente a prendersi il Nobel di famiglia. Mosca e i campi per i sospettati, Mosca e le dacie dei privilegiati, Mosca e le fughe a Parigi.
Chi sono «gli altri». Che Battista sceglie di raccontare attorno a Boris e Olga, lasciando intravedere i destini dell’intellighenzia russa dell’epoca. Una sequenza di vessazioni, tragedie e vertici lirici che dimostrano quanto Mandel’štam aveva intuito: il paradosso di un regime capace di uccidere «per motivi poetici», dimostrandosi l’unico sistema politico intimorito a morte dal potere della poesia. Marina Cvetaeva, dal 1922 al 1935 amore epistolare di Boris, interrotto a causa di quello che per la scrittrice era «il complesso-dolce» Pasternak. Un traditore, sempre accomodante, rispetto all’intransigenza che avrebbe portato lei prima a rinunciare all’esilio francese e poi nel 1941 a togliersi la vita con ancora indosso il grembiule da donna delle pulizie, impiccata a un chiodo nella via di Elabuga, nel Tatarstan, intitolata all’uomo che aveva elaborato le direttive della dittatura culturale stalinista: Andrej Ždanov. «Cerco con gli occhi un gancio e non ne trovo». Anna Achmatova, due mariti finiti agli arresti, il figlio Lev condannato a 18 anni di lavori forzati, la scelta di cantare comunque l’eroismo di Leningrado contro i nazisti e il ritorno — dopo «la grande guerra patriottica» secondo Stalin — nell’isolamento decretato dalla dittatura per la quale lei era «metà suora metà sgualdrina». Pasternak non partecipò al linciaggio e cercò sempre di passarle del denaro ma da lontano la osservò sprofondare in un disperato delirio — «una spossatezza crudele travolge il giorno e la notte in un cerchio di sangue» — mentre chiuso nella dacia di Peredelkino vedeva salire il genio del suo Živago.

E poi Osip Madel’štam, braccato da quello che in un epigramma declamato e mai scritto aveva definito «il montanaro del Cremlino» con dita «grasse come larve» e «baffi da scarafaggio». Fu Mandel’štam la prova più lacerante per la tempra dell’intellettuale Boris Pasternak. Tradito, arrestato due volte, il poeta e saggista morì durante il trasferimento in Siberia nel 1938. La sua grandezza fu salvata da Nadežda, capace di mandare a memoria tutti i versi del marito per vanificare i roghi di Stato. Nel solco tra i due artisti — uno naufrago predestinato, l’altro abile navigatore — si decide una parte del giudizio sul senso di colpa di Pasternak-Živago. Battista risale la corrente, a volte tenera, del loro rapporto fino al gorgo della famosa telefonata giunta dal Cremlino, una notte del 1934. Una telefonata che vide «il compagno Stalin» esercitare feroce la sua doppiezza per stanare un interlocutore colto volutamente in contropiede. «Di’ un po’, cosa si dice nei vostri circoli letterari riguardo all’arresto di Mandel’tam?». Pasternak rispose incerto e confuso, dissimulando, tergiversando. Finì umiliato. «Se a un mio amico fosse capitata una disgrazia, mi sarei fatto in quattro per salvarlo», lo strattonò l’uomo all’origine di quella stessa «disgrazia». «Ma perché parliamo sempre di Mandel’štam?». «E di cosa vorresti parlare con me?». «Della vita e della morte», azzardò lo scrittore. E una frazione di secondo dopo sentì la comunicazione interrompersi.
Con Mandel’štam alle spalle e sulle spalle portandosi per sempre il suo ricordo, entriamo nella zona rossa: andiamo al cuore delle vite e delle ambiguità di Pasternak. Perché il senso di colpa del dottor Živago raggiunge il climax nella relazione di Boris-Yuri con Olga-Lara, l’unica in grado di indicargli la strada di un’espiazione letteraria che lo avrebbe trattenuto da un destino amletico o achmatoviano giù nel baratro dell’ossessione. Pasternak pagò le sue oscillazioni esistenziali con un paio di infarti, tuttavia Olga lo riscosse, accompagnò, a tratti guidò e spinse al compimento del capolavoro. «La porta della verità — scrive Battista — si era spalancata e Boris Pasternak sentiva ora la missione di rovesciare il comportamento seguito per decenni. Finalmente il vero come redenzione dell’inautentico, del falso, del compromissorio, della mancanza di coraggio». Rischiare in grande diventò una sfida possibile, una sfida innanzitutto a sé stesso. «Fin d’ora siete invitati alla mia fucilazione», dichiarò firmando il contratto per la pubblicazione all’estero del manoscritto, un contratto destinato a Giangiacomo Feltrinelli, che di tutti i coprotagonisti raccolti in quel ventaglio di nomi, frasi, gesti si rivela forse il più coraggioso e tenace — ma questa è un’altra storia nella Storia.

Nel 1960, poco più di due anni dopo il successo mondiale del romanzo, l’autore morì nella sua dacia. Non ammessa in casa, Olga lo vegliava dalla veranda, consapevole che avrebbe presto pagato per tutti e due. Venne infatti rispedita ai lavori forzati, questa volta con la figlia Irina, e fino al crollo dell’Urss non poté rivedersi nel magnifico volto cinematografico di Julie Christie che dal 1965 l’aveva trasformata in un mito del Novecento. Lei che durante la prima detenzione, nel 1949 a Potma, all’inizio della grande avventura, si disperava perché non possedeva neppure uno specchio rotto. «Olga aveva l’ossessione della cura di sé e del suo aspetto — nota Pierluigi Battista che sembra aver compreso ogni sfumatura — non voleva che al ritorno da quell’inferno di ghiaccio Boris la vedesse vecchia, decrepita, brutta. E potesse disamorarsi di lei». Nella Postilla, l’autore si chiede se sia tutto vero quanto ha raccontato. E per rispondere descrive un lunghissimo «percorso tra i libri che mi hanno accompagnato e suggestionato (e ossessionato) nel corso degli anni». Quel percorso riunisce memorie di protagonisti diretti, figlie e pronipoti, discendenti lontani. E poi saggi, documenti, lettere. L’irresolutezza congenita, la consapevolezza del danno che questa può causare alle persone amate, il desiderio di affrontare la vita che non è un gioco, «non è come attraversare un campo»: tutto questo affiora e si accavalla nella narrazione di Battista, dà forza e senso a quella «personale ma non arbitraria interpretazione» di che cosa sia stato il senso di colpa di Boris Pasternak. E di quali siano state le conseguenze — dolorose, senza mai rimpianti — dell’amore di Olga.
«Era già tardi quando sentì suonare il campanello del destino. Aprì la porta, stupita di vedersi di fronte proprio Boris, affannato, visibilmente emozionato: “Cara Olga, oggi però sotto la statua di Puškin non ti ho detto la seconda cosa, quella più importante”. “Dimmela subito Boris, in effetti ero ansiosa di sapere quale fosse”. “Eccola: Olga, io ti amo”».

- Barbara Stefanelli - Pubblicato sul Corriere del 25/9/2018 -

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Se Stalin telefona di notte Pasternak rinnega l’amico
- La vita da romanzo (non sempre eroico) dell’autore del “Dottor Zivago” dai poeti che non osò salvare, al dramma di Olga che per amore finisce ai lavori forzati -
di Mattia Feltri

Nella Mosca di Stalin un grande pianista sta suonando Chopin. Si blocca, scoppia in lacrime, sbatte il coperchio della tastiera e lascia il palco fra la meraviglia e il clamore del pubblico. Il pianista si chiama Genrikh Neigaus. Sua moglie, Zinajda, lo ha appena lasciato per mettersi col suo migliore amico, il sommo poeta Boris Pasternak. Potrebbe essere la trama classica di una commedia di Hollywood, è invece la superficie dello sprofondo. Pasternak, per avere la donna, ha ingoiato un tubetto di medicinali. Lei lo salva e si strazia. Lui lascia la prima moglie e il figlio e va a vivere con lei. Finché non incontrerà la giovane Olga, le darà appuntamento sotto una statua di Puškin, le parlerà a lungo, la congederà per poi raggiungerla a casa: Olga, mi sono scordato la cosa più importante, io ti amo.
Le cose belle costano care. L’amore di Pasternak costerà a Olga la fortuna inestimabile. Pasternak è l’intoccabile – lasciatemi stare questo abitante delle nuvole, diceva Stalin agli aguzzini con gli artigli affilati. Pasternak sa incatenare le parole, le sa far suonare, e ha paura, controlla che non una sillaba stoni con le aspettative di regime. Attorno a lui camminano uomini morenti, poeti che temono la tirannia, e la affrontano. Marina Cvetaeva gli scrive lettere crepitanti – quanto saremmo stati felici insieme, avremmo cantato in questo e quell’altro mondo. Lui abbandona la lirica – quanto ti amo! Sono separati da chilometri, da storie in cui sono entrati a capofitto, dal disastro dei tempi, e dall’indole imbelle di Pasternak. Lei, sempre in disgrazia, senza lavoro, senza soldi, senza una mano tesa («sono sola, sono un deserto umano»), troverà un chiodo a cui impiccarsi. Anna Achmatova per la polizia culturale non è una poetessa, è metà suora e metà sgualdrina. Suo marito, il poeta Nikolaj Gumilev, era stato arrestato e fucilato per cospirazione monarchica, e Anna imparò a memoria le sue poesie perché non lasciassero traccia ma avessero un futuro. Sarà arrestato anche il secondo marito, e pure Lev, il figlio di Anna; lei trascorre l’esistenza dentro una tana di terrore e di irriducibile resistenza, coltivando ammirazione e affetto per Pasternak, il maestro che non ha mai un problema. E poi Osip Mandelstam, forse il più grande, schiena drittissima, convoca gli amici e recita un epigramma in cui Stalin è il montanaro del Cremlino, ha dita grasse come larve, baffi di scarafaggio, un antropofago per cui ogni omicidio è un banchetto. Non può durare tanta sfrontatezza. Lo arrestano, lo condannano al gulag, muore durante il trasferimento. Stalin chiama Pasternak nel cuore della notte, gli chiede di Mandelstam, Pasternak balbetta, si scansa di lato, cerca di cambiare discorso, Stalin prova ribrezzo – non hai nemmeno saputo difendere un compagno, io per un amico mi sarei fatto in quattro.
Questo non è un libro, è uno strepitoso, desolante ed esaltante balletto di fantasmi che volteggiano nella più allucinata e inafferrabile dittatura del Novecento. Esaltante perché poi la soluzione è nel titolo – Il senso di colpa del dottor Zivago. Pierluigi Battista ci porta dritti verso l’unica cosa che conta delle nostre vite: non possiamo essere migliori degli altri, possiamo soltanto cercare di essere migliori di noi stessi. E dunque si deve tornare a Olga, la giovane Olga che si innamora di Pasternak sotto la statua di Puškin, e che di notte viene presa, portata alla Lubjanka, condannata ai lavori forzati. Ogni cedimento, ogni piccolo sbandamento del poeta non può che dipendere da quest’anima nera di donna. Anche Olga diventa un fantasma che danza attorno a Pasternak. Non ha saputo proteggerla, come non ha saputo proteggere la prima e la seconda moglie, ha allungato giusto qualche rublo a Mandelstam e a Cvetaeva, ha dimenticato Achmatova, ha assistito al loro tracollo e quello di tanti altri col dolore attutito dal muro di protezione che si era costruito attorno. E lì che mette mano alla sua unica opera in prosa, il romanzo progettato per decenni – Il dottor Zivago. Olga è Lara, lui è Jurij, i loro indici sono puntati dritti contro il male sovietico, e il domani non avrà pace, ma Pasternak saluterà finalmente la folla dei fantasmi guardandoli negli occhi.

- Mattia Feltri - Pubblicato sulla Stampa del 29/8/2018 -

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