martedì 2 ottobre 2018

Il capitalismo a rovescio

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- La crisi del lavoro e i limiti della società capitalista -
di Norbert Trenkle -

1 - Quando il CEO della Siemens, Josef Kaeser, ha annunciato, nel novembre del 2017, che la sua azienda avrebbe tagliato qualcosa come 7.000 posti di lavoro nel mondo, ed avrebbe chiuso diversi siti produttivi in Germania, questo, com'era prevedibile, ha innescato feroci critiche e proteste. La gente si è chiesta perché mai stavano facendo dei tagli nel momento in cui l'azienda realizzava grandi profitti. Le lamentele provenivano da tutti quei settori che ancora una volta sottolineavano come un'azienda si sottometteva ai dettami dei mercati finanziari e degli azionisti, e come non contasse più quel «lavoro onesto» che l'aveva portata al successo. Alcuni giornalisti liberali si sono anche preoccupati del fatto che le scelte del capo della Siemens avrebbero potuto danneggiare la legittimità del sistema capitalista. Sulla "Süddeutsche Zeitung", nel novembre 2017, Detlef Esslinger ha scritto che «se si vuole, in fondo è per le persone che sono alla ricerca disperata di una crescita con l'economia di mercato, il capitalismo, e  la globalizzazione, che devi comportarti come Kaeser & Company. Sono loro che stanno promuovendo i peggiori cliché a proposito degli avidi speculatori che non sono mai soddisfatti che i tassi dei mercato azionario siano abbastanza alti.»
In effetti, il caso Siemens evidenzia sia la situazione del lavoro che le relazioni di potere fra lavoro e capitale nell'attuale era del sistema capitalista globale. Ovviamente, negli ultimi trent'anni, le dinamiche dell'accumulazione di capitale si sono spostate in direzione dei mercati finanziari, e ciò ha avuto le sue drastiche conseguenze sulle condizioni di vita e di lavoro nella società. Ma tutto questo non è dovuto all'avidità di alcuni manager, banchieri ed investitori  che hanno agito a livello globale. Ci sono delle ragioni strutturali che possono essere spiegate per mezzo delle dinamiche storiche oggettivate della società capitalista. Per poter capire come negli ultimi trent'anni , il lavoro sia stato sempre più degradato, dobbiamo prima esaminare più da vicino tali dinamiche storiche.
Innanzitutto bisogna prima affermare che le dinamiche storiche che si trovano alla base della società capitalista hanno un loro carattere storicamente specifico. E qui non mi sto riferendo ad una logica trans-storica dello sviluppo sociale, quale vorrebbe il marxismo tradizionale (che la situa all'interno della tradizione illuminista). Invece, mi riferisco ad una dinamica che viene prodotta a partire da una contraddizione interna alla società capitalista, e che quindi è applicabile solamente a questa società. Il primo momento di questa contraddizione è la compulsione all'accumulazione di capitale. Il capitale non è altro che il valore che dev'essere valorizzato, vale a dire aumentato. Empiricamente il valore assume la forma del denaro in quel senso che può essere illustrato dalla famosa formula di Marx, M - C - M', cioè Denaro - Merce - Più Denaro. Possiamo chiamarlo Movimento-Fine-a-sé-stesso poiché la stessa cosa si trova sia all'inizio che alla fine di questo ciclo infinito di aumento: il denaro viene trasformato in più denaro. Il valore (sotto forma di denaro) quindi fa riferimento continuamente solo a sé stesso, e l'unico obiettivo di questo movimento è la costante accumulazione di plusvalore, A causa della sua propria logica interna, questo movimento fine a sé stesso non riconosce alcun limite. A causa della sua natura puramente astratto-quantitativa, deve, in linea di principio, continuare all'infinito. E' questa la base per l'incessante spinta alla crescita nella società capitalista - la quale, come sappiamo, sta distruggendo le basi dell'esistenza umana sulla terra. Questa spinta verso l'incessante accumulazione di capitale ora affronta un secondo momento, vale a dire l'obbligo di sviluppare costantemente il potere produttivo o, come diciamo ai nostri giorni, aumentare incessantemente la produttività. Questa compulsione, che viene prodotta dalla competizione fra i singoli capitali, esiste in contraddizione interna con il movimento autoreferenziale senza fine della valorizzazione del valore. Poiché incrementare la produttività porta sempre ad una riduzione del dispendio di lavoro per ogni singola merce e, di conseguenza, ad una riduzione della quota di lavoro rappresentata in ciascuna singola merce. Ciò avviene in quanto il valore non viene valorizzato in un assoluto isolamento, ma si basa sul fatto che la forza lavoro viene spesa nella produzione di merci. Il capitale acquisisce forza lavoro per poterla applicare alla produzione di merci ed appropriarsi del plusvalore, cosa che viene resa possibile in quanto la riproduzione della forza lavoro costa meno del plusvalore che essa produce durante le ore lavorative. Se pertanto il dispendio di lavoro per ciascuna merce viene ridotto, a causa della produttività incrementata, allora diminuisce anche la quota di valore rappresentato in ogni singola merce. E ciò rappresenta una tendenza che si oppone al movimento fine a sé stesso della valorizzazione del capitale, il quale può continuare solo se si continua a produrre costantemente sempre più valore.

2 - Ma da una prospettiva storica, questa contraddizione intrinseca alla logica delle dinamiche capitaliste non ha ostacolato la valorizzazione del capitale. Gli effetti delle produttività sono stati compensati e sovracompensati dall'espansione accelerata verso nuovi mercati e dallo sviluppo di nuovi settori manifatturieri per la produzione di massa. La riduzione del valore di ciascuna merce individuale è stata quindi compensata da una crescita accelerata complessiva in modo tale che dal bilancio è stato eliminato sempre più valore. Questa dinamica ha preso particolare vigore durante l'era, relativamente breve, del fordismo, in particolare all'incirca durante i trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale. Nei centri capitalisti, quel periodo viene considerato come una sorta di età dell'oro, poiché era la prima volta che la maggioranza della popolazione, la quale dipendeva dal proprio salario, era in grado di partecipare in maniera significativa alla ricchezza capitalistica. Ma quell'era (che in retrospettiva è stata romanticizzata) arrivò alla fine verso la metà degli anni '70, quando il boom fordista ebbe raggiunto il suo limite e ci fu l'inizio di un nuovo impulso produttivista, stavolta basato sulle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione: la Terza Rivoluzione Industriale.
La Terza Rivoluzione Industriale rappresenta una rottura qualitativa nella storia della crescita della produttività. Ciò è dovuto al fatto che la microelettronica ha facilitato una riorganizzazione radicale della produzione in generale, in maniera tale che il lavoro ha perduto l'importanza centrale che aveva avuto precedentemente, e la conoscenza - e, per essere più precisi, l'applicazione della conoscenza alla produzione - è diventata la principale forza produttiva. Ma questo sconvolgimento ha avuto delle conseguenze devastanti per la valorizzazione del capitale. Con il massiccio dislocamento del lavoro rispetto alla produzione, la fonte del plusvalore, che precedentemente aveva alimentato il movimento della valorizzazione del valore fine a sé stesso, si è prosciugata. Ciò è empiricamente dimostrabile a partire dal fatto che, a partire dagli anni '80, la produzione materiale globale (vale a dire, la massa di di merci prodotte) è stata incrementata molte volte, mentre durante lo stesso periodo di tempo il numero dei lavoratori nei settori chiave della produzione del mercato globale è diminuita in maniera considerevole. Lo sviluppo di nuovi settori manifatturieri per il consumo di massa non ha portato a nessun cambiamento, dal momento che tali settori sono stati organizzati in termini di automazione dei processi. Come risultato, avviene che il mondo viene sommerso da un flusso di merci in rapida crescita (che porta alla distruzione accelerata delle risorse naturali), le quali però rappresentano una quantità di valore sempre più decrescente in quanto possono essere prodotte facendo uso di sempre meno forza lavoro.
E' questo il motivo per cui la crisi del fordismo è diventata una crisi fondamentale della valorizzazione del capitale che non avrebbe potuto più essere risolta nello stesso modo in cui, nella storia del capitalismo, erano state risolte le precedenti grandi crisi. Lo sviluppo di nuove aree di crescita per l'applicazione della forza lavoro alla produzione di merci, non era e non è più possibile al livello dell'attuale livello di produzione esistente. Perfino i metodi keynesiani di rilancio imprenditoriale, così come venivano ovunque applicati negli anni '70, non hanno portato a nulla se non ad una bolla nel debito pubblico, dal momento che non sono stati in grado di correggere le cause strutturali della crisi. Di conseguenza, il capitalismo classico ha raggiunto quello che è un limite storico. che negli anni '80 non è stato più in grado di superare.
Ciò nonostante, dopo molti tentativi, è emersa un'altra via per uscire dalla crisi: il capitale che non poteva puù essere sufficientemente investito nella cosiddetta economia reale, evadeva fuggendo su larga scala verso il mercato finanziario. In questo modo il capitale riprendeva il suo movimento fine a sé stesso di aumento del denaro, ma tuttavia questo non era più basato sull'applicazione del lavoro alla produzione di merci, ma piuttosto sull'accumulazione di capitale fittizio. Da quel momento in poi, questa forma di accumulazione di capitale ha determinato la traiettoria della società capitalista. E tutto ciò implica che il lavoro ha perduto quello che era il suo status precedente nelle dinamiche del capitalismo. Per meglio comprendere, che cosa significhi questo per il lavoro nella società, dobbiamo innanzitutto chiederci, cos'è che costituisce il carattere specifico dell'accumulazione di capitale fittizio, e in che cosa questo differisce dalla valorizzazione del capitale per mezzo dell'applicazione del lavoro alla produzione di merci.

3 - Il concetto di capitale fittizio proviene dalla critica dell'economia politica di Marx, ma esso è stato sviluppato solamente in dei frammenti che fanno parte del terzo volume del Capitale. Nel nostro libro "Die große Entwertung" ["La Grande Svalorizzazione"], Ernst Lohoff ed io facciamo riferimento a questi frammenti, e tentiamo di svilupparli e utilizzarli per un'analisi della crisi contemporanea del capitalismo. I punti essenziali di questo procedimento possono essere riassunti nel modo seguente:
    Il capitale fittizio appare ogni qual volta qualcuno dà del denaro a qualcun altro in cambio di un titolo di proprietà (un'obbligazione, una quota in una società, ecc.) che rappresenta un credito rispetto a quel denaro ed al suo aumento (ad esempio, sotto forma di interessi o di dividendi). Questo processo duplica la somma originale: Ora tale somma esiste due volte, e può essere utilizzata da entrambe le parti. Il beneficiario può usare il denaro per comprare delle cose, per fare investimenti, o per acquisire beni finanziari; e tuttavia, allo stesso tempo, quel denaro è diventato capitale monetario che frutta un profitto in primo luogo a colui che ha dato i soldi. Il capitale viene perciò aumentato grazie al semplice atto di emettere una garanzia finanziaria. Per dirla in un alta maniera: il capitale è stato accumulato anche se non è stato prodotto niente. Ma questo capitale monetario non consiste di nient'altro che dell'affermazione documentata che esiste l'aspettativa del futuro valore. Il fatto che l'aspettativa venga coperta o meno dalla produzione di valore, diventa chiaro solo a posteriori.
L'anticipazione di valore futuro sotto forma di capitale fittizio è una classica caratteristica del capitalismo. Ma tutto questo, nel corso della crisi all'indomani della Terza Rivoluzione Industriale, ha assunto un significato del tutto diverso. Se una volta la creazione di capitale fittizio serviva a fiancheggiare e a sostenere il processo della valorizzazione di capitale (ad esempio, attraverso il prefinanziamento di grandi investimenti), ora questi ruoli si sono invertiti in quanto le basi per un tale processo sono venute meno. L'accumulazione di capitale non è più significativamente basata sullo sfruttamento del lavoro nella produzione di merci come automobili, hamburger e smartphone, ma sulla massiccia emissione di titoli di proprietà come azioni, obbligazioni, e derivati finanziati che rappresentano un credito per un futuro valore. Di conseguenza, lo stesso capitale fittizio è diventato il motore dell'accumulazione di capitale, mentre la produzione di merci è stata ridotta ad una variabile dipendente. Certo, esiste una distinzione fondamentale fra questa forma di accumulazione di capitale e la precedente forma di movimento capitalistico. Dal momento che si tratta di un anticipo del valore che verrà creato in futuro, si tratta di un processo di accumulazione di capitale senza valorizzazione di capitale. Non è basato sullo sfruttamento presente della forza lavoro all'interno del processo di produzione del valore, bensì sull'aspettativa di profitti futuri, la quale in ultima analisi dev'essere conseguenza di un addizionale sfruttamento del lavoro. Ma poiché, alla luce dello sviluppo della forza produttiva, quest'anticipazione non può essere riscattata, in futuro questi crediti devono essere rinnovati continuamente, e l'anticipazione del valore futuro dev'essere posticipata sempre più nel futuro. Di conseguenza, i titoli di proprietà finanziaria sono soggetti ad un imperativo di crescita esponenziale. Ciò perché il valore del capitale costituito dai beni finanziari ha oltrepassato molte volte, e da molto tempo, quello delle merci prodotte e scambiate. Questi «mercati finanziari fuori controllo» vengono spesso criticati dall'opinione pubblica in quanto presunti responsabili della crisi, ma in realtà, una volta perse le basi per la valorizzazione, era proprio questa l'unica strada per poter continuare l'accumulazione di capitale. Ecco perché nel nostro libro - per descrivere l'attuale periodo rispetto al capitalismo classico, il quale era invece basato sull'applicazione del lavoro alla produzione di merci - ci riferiamo all'era del capitalismo a rovescio.
Il predominio dell'accumulazione dell'industria finanziaria non significa che l'accumulazione di capitale sia stata completamente sganciata dall'economia reale. A modo suo, l'accumulazione di capitale nell'industria finanziaria attiene sempre a determinati punti di riferimento nell'economia reale. Non assume che ogni valorizzazione sia avvenuta in anticipo, ma che essa anticipi profitti futuri. Dipende perciò dalle speranze e dalle aspettative di futuri incrementi di profitto sui mercati delle merci, o quanto meno su mercati di determinate merci. Per esempio: ogni boom immobiliare è basato sulla prospettiva di un aumento dei prezzi degli immobili, ed ogni aumento dei prezzi di mercato viene messo in moto dalla speranza di futuri profitti delle imprese.
La specifica vulnerabilità di crisi dell'era del capitale fittizio può essere spiegata a partire dalla dipendenza del capitale fittizio dall'aspettativa di profitto sperato nell'economia reale. Ogni qual volta quelle previsioni si rivelano illusioni e bolle speculative che scoppiano, il capitale fittizio accumulato perde la sua validità e le dinamiche di accumulazione si fermano. Così come si è recentemente verificato
nel corso della crisi globale del 2008, in una situazione del genere, l'economia è minacciata da una spirale discendente di svalorizzazione nella quale diviene evidente quello che è il nascosto fondamentale processo di crisi. C'è solo un modo per prevenire tutto questo: creando nuove, ed anche maggiori, quantità di capitale fittizio, la cui accumulazione è alimentata da aspettative di profitto in altre aree dell'economia reale. Ma più si prolunga l'era del capitale fittizio, più diventa difficile sfruttare nuove aree che possono offrire speranze per l'economia reale. Perciò, l'industria finanziaria non può continuare indefinitamente nella sua accumulazione. Ha i suoi limiti intrinseci, verso i quali si avvicina sempre di più. Non approfondirò ulteriormente questi limiti intrinseci, ma preferirò piuttosto guardare alle conseguenze che ha l'accumulazione del capitale fittizio per il lavoro - e per la massa di persone che fanno affidamento sulla vendita della propria forza lavoro.

4 - Innanzitutto, possiamo dire che per il capitale, da una prospettiva economica, il lavoro esperisce una perdita fondamentale di significato, nel momento in cui il capitale non viene più aumentato in maniera significativa attraverso lo sfruttamento della forza lavoro nel processo di produzione di merci, e per mezzo dell'appropriazione del corrispondente plusvalore, ma facendo piuttosto riferimento a sé stesso. Quando il capitale (nella forma dei titoli di proprietà) viene venduto come una merce, e nel corso di tale vendita il capitale iniziale viene duplicato (anche se questo avviene solo per un tempo limitato), a questo punto il feticcio del capitale è arrivato ad assumere la sua forma ideale. Il movimento M - C - M', abbreviato, diventa M - M', in cui il capitale aumenta sé stesso senza incovenienti di deviazioni dovuti alla produzione di merci. Ma questo porta a tagliare la connessione diretta dell'accumulazione di capitale con il mondo dei beni materiali e dei servizi. Quella produzione era sempre e solo un mezzo per la riproduzione fine a sé stessa del denaro, ma doveva avvenire per poter mantenere attivo il ciclo di produzione. Ora non svolge più nemmeno questa sua funzione strumentale. E ciò implica che la merce forza lavoro sta perdendo il suo significato centrale per quel che riguarda l'accumulazione di capitale.
Durante l'era del capitalismo classico, che si basava sulla valorizzazione del valore e che è terminata con la crisi del fordismo, la forza lavoro era la merce di base dell'accumulazione di capitale, in quanto era l'unica merce il cui valore d'uso consisteva nel produrre più valore di quello che era il costo della propria rigenerazione. Per i venditori della merce forza lavoro, questa posizione speciale significava, da una parte, dover servire il capitale ogni giorno e sottomettersi alle costrizioni della produzione di merci. D'altra parte, questo dava loro una posizione negoziale relativamente forte rispetto al capitale, e permetteva loro di stabilire significativi miglioramenti in termini di retribuzione, condizioni di lavoro, e protezione sociale - quanto meno nei centri capitalisti. Inoltre, le specifiche condizioni di produzione del lavoro di massa standardizzato, in particolare nell'era fordista, aveva facilitato la generale organizzazione sindacale.
Ma con la fine del capitalismo classico, questa costellazione di un relativo equilibrio di potere fra capitale e lavoro era completamente andata in pezzi. L'automazione della produzione ed il costituirsi di una nuova divisione transnazionale del lavoro, nota come globalizzazione, non erano state le uniche cose che avevano significativamente indebolito la posizione negoziale dei venditori di lavoro degli anni '70 e '80. Avevano contribuito anche la deregolamentazione e la flessibilizzazione delle condizioni di lavoro, e l'indebolimento mirato dei sindacati per mezzo di politiche neoliberiste. Ma  per il continuo cambiamento a lungo termine nei rapporti di potere fra capitale e lavoro, era stato decisivo il fatto che il punto focale dell'accumulazione di capitale si era spostato dallo sfruttamento della forza lavoro nel processo di produzione di merci ai mercati finanziari. Di conseguenza, la merce forza lavoro aveva perduto il suo status di merce di base dell'accumulazione di capitale, ed era diventata la variabile dipendente delle dinamiche del capitale fittizio.
Ciò perché, anche se l'accumulazione del capitale fittizio non può mai essere del tutto tutto disgiunta dalla produzione volta all'economia dei beni, nondimeno la sua relazione con questo settore differisce da quella che era durante la valorizzazione classica del capitale. Nell'era del capitalismo rovesciato, come ho detto in precedenza, l'attività nell'economia reale soddisfa solamente una funzione per l'accumulazione di capitale: dare speranza per le future aspettative. La crescita, o la speranza per la crescita, in particolari regioni o settori, è il punto di partenza per la creazione di nuovi titoli finanziari, che in quanto tali danno impulso all'accumulazione di capitale nei mercati finanziari. Ma allo stesso tempo, l'attività nell'economia reale dipende, fondamentalmente e strutturalmente, da un afflusso costante di capitale fittizio. Questo si applica al consumo di beni e di servizi che vengono pagati attraverso entrate e crediti nel settore finanziario, ma anche per mezzo di investimenti nell'industria, nelle materie prime, e soprattutto nell'industria delle costruzioni. Questi investimenti possono avvenire solo grazie finché agiscono le dinamiche dei mercati finanziari. In tutti questi casi, la forza lavoro viene messa in moto, ma è del tutto dipendente dalle condizioni economiche del capitale fittizio. Quindi, fondamentalmente, nell'era del capitalismo rovesciato, la produzione materiale (e, di conseguenza, il dispendio di forza lavoro) avviene solo nella misura in cui viene direttamente ed indirettamente indotto attraverso l'accumulazione di capitale fittizio. I settori dell'economia reale si espanderanno solo finché verranno alimentati dal denaro prodotto nel settore finanziario, denaro che in questo modo crea simultaneamente nuovi punti di riferimento per la continuazione delle proprie dinamiche autoreferenziali. Se per una ragione o l'altra questo circolo si rompe, ciò porta immediatamente ad una forte inversione nel movimento a spirale dell'accumulazione, provocando una massiccia svalutazione dei titoli finanziari, con immediate ripercussioni sull'attività nell'economia reale. Questo rapporto appare essere particolarmente diretto per quanto riguarda l'industria delle costruzioni, poiché la speculazione sull'aumento dei prezzi degli immobili è direttamente connessa alla costruzione di edifici e all'espansione delle infrastrutture. Inoltre, il settore delle costruzioni ha sempre relativamente bisogno di forza lavoro in quanto non può essere automatizzato nella stessa misura della produzione industriale. In ogni boom regionale, è quindi il più grande compratore di forza lavoro ed è diventata una delle maggiori posizioni nelle statistiche del PIL. Ma per la medesima ragione, il settore delle costruzioni è anche particolarmente sensibile alle crisi del capitale fittizio, come ha recentemente mostrato la crisi del 2008.
Ma anche il settore industriale ed i settori delle materie prime, in particolare nei paesi orientati all'esportazione, sono fondamentalmente e strutturalmente dipendenti dalle dinamiche del capitale fittizio. Ciò è particolarmente evidente nel caso della Cina, la quale compra una massiccia quantità di titoli finanziari, soprattutto dagli Stati Uniti, come controvalore per l'esportazione in tutto il mondo delle sue merci. Senza un tale meccanismo, non avrebbe mai potuto industrializzarsi così rapidamente, poiché questo implica necessariamente accumulare un'enorme e continua eccedenza di esportazione che dove essere in qualche modo compensata dai paesi importatori. E' questo il motivo per cui, dopo il crollo del 2008, la leadership cinese ha eluso la mancanza di capitale fittizio dall'estero creando capitale fittizio sul proprio territorio - soprattutto creando enormi quantità di credito per mezzo delle sue banche controllate dallo Stato. Come conseguenza, il debito interno cinese si è gonfiato e rappresenta oggi un enorme rischio di crisi globale.

5 - I venditori della merce forza lavoro non solo rilevano un'estrema dipendenza del lavoro dal capitale fittizio durante i periodi di acuta crisi finanziaria, ma anche durante il normale corso dell'accumulazione. In particolare, l'immensa pressione è prodotta dalle alte aspettative di rendimento, che viene misurato dai profitti ottenuti nei settori finanziari, e che sono di gran lunga al di sopra della norma del capitalismo classico. Per poterli soddisfare, salari e condizioni di lavoro devono essere continuamente spinti verso il basso, e le ore lavorative devono essere spietatamente aumentate. Non esiste sito ed azienda che non siano stati contagiati da questa gara globale. Tirarsene fuori viene punito con il recesso di capitale, che, dal momento che ha il suo punto focale nel settore finanziario, è diventato quasi infinitamente flessibile. Anche le più grandi compagnie transnazionali e gli attori del mercato globale sono soggetti a questa pressione. Il precedente esempio della Siemens è tipico: mostra come le relazioni fra lavoro e capitale siano radicalmente cambiate nell'era del capitalismo a rovescio. Se quarant'anni fa una compagnia globale avesse annunciato che avrebbe chiuso un sito perfettamente autosufficiente, ed avrebbe licenziato diverse migliaia di dipendenti, gli azionisti avrebbero preso a calci i manager, per aver sabotato la valorizzazione del capitale della compagnia. Ovviamente c'erano siti che venivano chiusi e si verificavano anche licenziamenti di massa, ma ciò avveniva quando una fabbrica aveva perso denaro nel lungo periodo e non poteva più essere resa competitiva per mezzo della razionalizzazione. In definitiva, si trattava di ampliare le opportunità di investimento per il capitale nella produzione di merci per il mercato.
Nell'era del capitale fittizio questa logica non si applica più, perché creare nuove opportunità di accumulazione per il capitale non richiede più l'espansione della produzione. Invece, la cosa importante è la continua riproduzione di titoli finanziari, che rappresentano crediti per il valore futuro. La redditività attuale di un particolare sito produttivo è solo un punto di riferimento superficiale per quel processo. Da questa prospettiva, la redditività media non sembra più essere sufficiente, come dimostra il sito minacciato da Siemens, in quanto non riesce a tenere il passo con gli obiettivi di profitto dei mercati finanziari e perché non genera fantasie di futuri aumenti di profitto. Ecco perché la loro chiusura spinge verso l'alto le azioni della società interessata, anche se ciò equivale alla distruzione di capitale funzionante. Il fatto che la base produttiva della compagnia sia stata ridotta è irrilevante perché le conseguenze effettive sull'economia reale sono secondarie rispetto all'accumulazione di capitale fittizio. Il punto cruciale è la creazione di aspettative di futuri profitti possibilmente altri che possono essere realizzati oggi.
Anche se queste aspettative non vengono soddisfatte, le azioni o i titoli possono essere ceduti in pochi secondi ed essere sostituiti con altri titoli finanziari. Ecco perché frammentare le compagnie in diversi componenti che vengono poi piazzate separatamente nel mercato azionario è così  popolare nel mondo del management - uan disciplina che, per inciso, il CEO della Siemens Josef Kaeser padroneggia abbastanza bene. Il criterio per questo genere di frammentazione, non è quindi se essa abbia o meno senso per la produzione di tecnologia della compagnia, o per la sua organizzazione. Quel che importa, ancora una volta, è che i nuovi punti di riferimento per l'accumulazione di capitale fittizio vengano creati per ogni unità di affari che viene immessa nel mercato borsistico (idealmente con un nome immaginativo). La stessa logica è stata, e continua ad essere, seguita dalla grande vendita di infrastrutture e servizi pubblici. E' ben noto il fatto che la privatizzazione non rende in alcun modo i servizi "più efficienti", nonostante quel che affermano gli ideologhi neoliberisti. Infatti, di solito diventano solo peggiori e più costosi. Ma anche qui vengono creati nuovi punti immaginari per l'accumulazione di capitale fittizio.

6 - Il fatto che il lavoro sia diventato una mera appendice del capitale fittizio nell'era del capitalismo a rovescio, non ha per niente danneggiato quello che è il suo status morale nella società. Al contrario: il lavoro si trova ad essere sotto una crescente pressione ed ha perso la sua importanza economica, così come il suo potere negoziale e politico. Ecco perché negli ultimi trent'anni ha riguadagnato rilevanza in maniera massiccia, ai fini della costruzione di identità individuali e collettive. Negli anni '70 e '80, sotto l'impatto della "crisi del lavoro" e sulla scia della rivoluzione culturale del 1968, l'etica capitalistica del lavoro e l'identificazione con il lavoro visto come uno scopo nella vita vennero ampiamente discusse. Ma con la svolta politica verso il neoliberismo, che diede l'inizio all'era del capitalismo a rovescio, ci fu un cambiamento ideologico. All'inizio, furono le élite neoliberiste ed i socialdemocratici orientati al neoliberismo a predicare un ritorno all'etica del lavoro e, di conseguenza, legittimarono soprattutto la flessibilizzazione e la deregolazione delle relazioni lavorative, così come un taglio dello stato sociale. Ma dopo che i devastanti effetti sociali di queste politiche divennero inequivocabili, ci fu una nuova svolta ideologica. In generale, l'identificazione con il lavoro divenne la base per una regressiva e nazionalistica critica del neoliberismo e della finanziarizzazione del capitalismo. Ora, i populisti di destra e di sinistra invocano l'idea dei «buoni e bravi lavoratori» e promettono di rimetterli al centro della società. A quanto pare, ciò dovrebbe avvenire attraverso un ritorno all'«economia di mercato» basata sul lavoro di massa, il quale verrà regolato da uno Stato nazionale rafforzato per il bene comune. Ma quella che appare come una critica radicale, in realtà non è altro che una pericolosa regressione politica. Fondamentalmente, l'appello al lavoro equivale ad un'affermazione di quello che è il nocciolo della società capitalista. La specificità storica della società capitalista è costituita proprio dal fatto che essa pone il lavoro al centro, a differenza di quanto hanno fatto tutte le altre società precedentemente esistenti. Sicché la produzione di merci significa sempre che le relazioni sociali vengono mediate attraverso il lavoro. Ma questa forma di mediazione è necessariamente reificata e costituisce un'indubbia forma di dominio astratto, che è storicamente specifico del capitalismo. Le persone non interagiscono direttamente fra loro, ma piuttosto attraverso i prodotti del loro lavoro (vale a dire, le merci) e la vendita della loro forza lavoro. Perciò le relazioni sociali vengono trasformate in relazioni fra le cose. In questo modo, prodotti del lavoro acquisiscono potere sui loro produttori ed esercitano su di essi le loro costrizioni reificate. Marx ha definito tutto questo come feticismo della società produttrice di merci. Queste compulsioni feticistiche non hanno solo un impatto esteriore sugli individui, ma inoltre li formano e li modellano in maniera fondamentale. Per dirla senza mezzi termini, possiamo affermare che sotto il capitalismo gli individui diventano dei soggetti attraverso il lavoro, trattando tutti gli altri membri della società, e la società nel suo insieme, come oggetti. Quindi il lavoro è intimamente associato alla costituzione del soggetto moderno. E questo è anche il motivo per cui l'identificazione con il proprio lavoro sembra essere così naturale ed indiscutibile.
Gli individui moderni, ovviamente, non sono consapevoli di questa costituzione feticistica. Per loro, il lavoro sembra essere una costante trans-storica che costituisce l'essenza della "umanità". Visto da una simile prospettiva, non sorprende che la critica del capitalismo sia quasi sempre accompagnata da riferimenti positivi al lavoro. Il fatto che il lavoro sia il nucleo dell'essere umano, costituisce il credo, non solo del liberalismo, ma anche del marxismo tradizionale, il cui rapporto con il lavoro ha assunto una connotazione potenzialmente religiosa. Ha considerato la classe operaia come il vero soggetto della storia, e quindi come se fosse il portatore predestinato dell'emancipazione sociale. Secondo questa visione marxista tradizionale, emancipazione significava essenzialmente instaurare una società basata sul lavoro universale, nella quale però non sarebbe più esistito qualcosa come il capitale. In altre parole, si trattava di liberare il lavoro dal capitale, e non della liberazione dell'umanità dal lavoro.
Ma una concezione simile è una contraddizione in termini. Una società in cui le relazioni sociali sono focalizzate sul lavoro, è concettualmente una società di produttori di merci. E la produzione universale di merci implica strutturalmente il dominio astratto, ed anche l'esistenza del capitale e dello Stato. Il cosiddetto «socialismo realmente esistente» non era quindi nient'altro che una variante del capitalismo in cui lo Stato, a suo modo, ha assunto la funzione di capitalista generale. Il capitale non è una forza esterna che sottomette il lavoro, ma piuttosto il capitale ed il lavoro sono entrambi al centro di una società basata sulla produzione di merci.
Da una simile prospettiva, la stragrande maggioranza del buon vecchio movimento operaio non era un movimento contro il capitalismo, ma bensì un movimento per il lavoro all'interno del capitalismo. In quanto tale, a suo tempo, ha essenzialmente contribuito a rendere assai più sopportabile quella che era la vita all'interno dell'ordine esistente, e ad ottenere delle libertà. Parimenti, le sue lotte hanno contribuito a mantenere in un certo qual modo viva l'idea dell'emancipazione sociale. Al contrario, nel nuovo populismo, la glorificazione del lavoro ha avuto un carattere completamente differente. Nel vecchio movimento operaio, l'identificazione con il lavoro era alla base delle lotte pratiche per il riconoscimento sociale, per il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, e per la partecipazione politica durante l'era della valorizzazione del capitale basata sul lavoro di massa. Il nuovo populismo, al contrario, rappresenta una reazione al fondamentale degrado del lavoro attuato dalle dinamiche della crisi capitalista, ed è guidato dal desiderio nostalgico di tornare ad un'era capitalista ormai lontana.
In questo senso, oggi il populismo operaio - nelle sue varianti sia di destra che di sinistra - è, nel senso stretto del termine, regressivo. Il fatto che il un ritorno ad uno stadio precedente del capitalismo sia impossibile non lo rende meno pericoloso; è proprio il fatto che non ci sia modo di tornare indietro a rendere la politica populista sempre più aggressiva in maniera imprevedibile (basta pensare a Trump). La tendenza alla spartizione nazionalista si sta intensificando, allo stesso tempo in cui in tutto il mondo avanza l'autoritarismo. Ovunque i nuovi populisti arrivano al potere, essi smantellano sistematicamente lo Stato costituzionale liberal-democratico, abolendo la divisione classica dei poteri e i tradizionali controlli ed equilibri. Ovviamente, tutto viene fatto «nel nome del popolo» e apparentemente per «ripristinare la democrazia».
Oggi, la lotta contro questa regressione politica è il compito fondamentale di chiunque sostenga ancora la possibilità di una società emancipata. Ma questa battaglia può essere vinta solo attraverso una critica intensificata del capitalismo. Il fatto che attinga ad un diffuso scontento rispetto al capitalismo, non è l'ultima delle ragioni per cui il populismo autoritario, da destra a sinistra, abbia tanto successo. Ma anche se questo scontento indica una vaga consapevolezza del fatto che la società capitalista ha raggiunto il suo limite, questo viene canalizzato innanzitutto nel desiderio disperato di preservare l'ordine sociale esistente contro le dinamiche delle sue proprie crisi. In tutto questo, l'appello al lavoro in quanto pilastro dell'identità è un motivo centrale. Ma dal momento che «l'onore del lavoro», in senso tradizionale, non può più essere mantenuto, ciò che rimane di tale identità è solo il suo contributo all'esclusione sociale e razzista, e la sua narrazione nazionalista.
Una ben fondata critica del lavoro, visto come principio centrale della società capitalista, non è quindi un inutile progetto intellettuale, bensì un progetto cruciale per poter aprire una nuova prospettiva per l'emancipazione sociale. In questo, l'abolizione del lavoro non è affatto un'idea utopica. Da molto tempo, in senso negativo, il capitalismo ha comunque continuato ad abolire il lavoro. Da un lato, lo ha reso largamente superfluo attraverso il potere produttivo della conoscenza e, dall'altro, lo ha degradato fino a renderlo una mera appendice dell'accumulazione di capitale fittizio. Regredire ad un punto precedente a questa fase, sarebbe possibile solo a causa di un disastro sociale. Per contro, è necessario usare l'enorme potenziale produttivo che il capitalismo ha creato per rendere finalmente possibile una buona vita per tutto il mondo. Ma questo non può avvenire senza una trasformazione sociale fondamentale.
Le condizioni per la liberazione dal lavoro e per la creazione di una società nella quale ciascuno agisce in base ai propri bisogni e alle proprie capacità esistono ormai da tempo. Ma questa possibilità dev'essere realizzata.

- Norbert Trenkle - Introduzione alla Conferenza Internazionale «Ripensare il Futuro del Lavoro» -
- Aprile 27 – 28, 2018 – ICUB Research Institute of the University of Bucharest -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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