mercoledì 17 ottobre 2018

La barbarie e i “blocchi mentali”

carles

Rifiutare il lavoro, è bene... Superare il lavoro, è meglio.
- A proposito di «Attention Danger Travail» di Pierre Carles -
di Gérard Briche

Che cosa ci fa vedere il film «Attention Danger Travail»? Ci mostra degli uomini e delle donne che non vogliono, che non vogliono più, lavorare. Rifiutare il lavoro, può sembrare a prima vista davvero scandaloso. Del resto, la testimonianza di V. ce lo mostra, si sente in colpa per rifiutare un lavoro, mentre ci sono così tanti disoccupati che cercano lavoro. E si deve pur lavorare per poter avere di che vivere, per avare accesso a quelli che sono i beni di consumo... Davvero? Ecco quella che è un'idea sbagliata!

Non è l'uomo che consuma: è il lavoro che consuma l'uomo
Certo, più ancora che l'accesso ai mezzi materiali di esistenza, il lavoro, in questa società, costituisce il modo stesso di esistenza. Si lavora per guadagnarsi da vivere; e come viene constatato da Y., ex imprenditore e ora disoccupato soddisfatto, si lavora per «guadagnare soldi per poter sostenere questo sistema di vita». Sì, questo «sistema di vita» in cui si lavora, non per produrre qualcosa di utile, che arricchisca l'uomo, ma per avere del denaro. Per consumare quello che viene fabbricato solo perché venga comprato da delle persone che lavorano per guadagnare denaro per consumare ciò che è stato fabbricato per... Stop! In questo ciclo infernale, l'uomo non è altro che un anello: il «soggetto automatico» di questa società, è il processo in cui il lavoro «concreto» è irrilevante. Perché quel che è importa è solo la produzione di una merce, qualsiasi, che realizzi più denaro di quanto è costata la sua produzione. In poche parole, quel che importa è solo il lavoro «astratto» i cui la forza lavoro umana viene  spesa per una produzione che in quanto tale è senza alcuna importanza. Ed in questo processo, l'uomo non è altro che una merce che il lavoro consuma. Che il lavoro mutili l'uomo, e che vivere è poco più che «sopravvivere», è dimostrato in maniera dolorosa dall'esempio della catena; ma i lavoratori del tele-marketing ne rappresentano un'attualizzazione evidente. O i fattorini che consegnano le pizze: «non abbiamo tempo da perdere... siamo qui per lavorare!»

Una reazione salutare: rifiutare la sottomissione al lavoro
J., l'ex operaio finalmente felice ci dà una testimonianza incoraggiante: si può esistere al di fuori del lavoro, ed è proprio allora che viviamo veramente. Ma la soluzione è quella di «imparare a vivere senza lavorare» come suggerisce P., disoccupato militante il quale ha uno «stile di vita» modesto che, per il produttivismo dilagante, costituisce una provocazione?
Rendersi conto, come ha fatto V., che «il lavoro non è necessariamente un fine in sé», è un inizio incoraggiante. Ma trarne la conclusione che «dal momento che esiste la disoccupazione, bisogna approfittarne», significa fare solo metà strada. Rifiutare di «sprecare la propria vita per guadagnare», è una cosa buona; vivere la disoccupazione come se fosse una guerriglia contro il «sistema», è una scelta eccellente. Ma il lavoro non è solo ripetitivo o noioso: qualsiasi lavoro, nel momento in cui è inserito nel processo dello scambio con il denaro, ecco che non è altro che lavoro «astratto», vale a dire che a prescindere da cosa si produce, quel che conta è che venga venduto. Realizzare questo, è il primo gradino di una critica radicale di questo mondo.

Critica del lavoro, critica del valore
Qualsiasi prodotto, il cui interesse reale è indifferente purché esso sia comunque vendibile, si chiama merce. E se la «sacralizzazione del lavoro» è caratteristica del produttivismo, come viene spiegato nel film da Loïc Wacquant, ciò avviene perché il valore di una merce non è altro che la coagulazione del lavoro «astratto» contenuto in essa. Criticare il lavoro, è rifiutare un lavoro la cui funzione essenziale è quella di sviluppare sempre più lo scambio della merce in maniera sempre più indifferente all'interesse reale. Dal momento che non hanno importanza né il prodotto né il produttore: importa solo la produzione, sempre più importante, e lo scambio, sempre più ampio, con il fine dell'aumento sempre più crescente del valore in circolazione.
Il problema, è che questa società del lavoro, e questo mondo del produttivismo funzionano sempre peggio. Seguendo la comparsa della macchine che permettono una forte produttività con poco lavoro umano, il meccanismo «tautologico» della valorizzazione del valore riesce ora ad espellere sempre più lavoratori diventati ormai superflui. Crisi insolubili guerre inestinguibili: sono tutti altrettanti simboli di un regno della «barbarie» in cui le uscite di emergenza ed altri "Sistemi D" sono solo delle soluzioni ingannevoli, di certo gratificanti, ma senza dubbio insostenibili a medio termine... La speranza risiede quindi nei movimenti di ribellione che si vedono dappertutto nel mondo, a patto che riescano da uscire dalla gabbia di ferro dei «blocchi mentali» (Loïc Wacquant) che ci impediscono di «imparare a vivere senza lavorare» in una società del lavoro, ma di immaginare di vivere «al di là del lavoro» in una società che, avendo eliminato il lavoro, lo scambio ed il valore, sarà una società dove gli uomini vivrebbero in comune, semplicemente.

- Gérard Briche - Testo redatto per un dibattito relativo alla proiezione del film "Attention Danger Travail" -

fonte: Avec Marx

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