La nuova traduzione del capolavoro di Max Stirner (1806-1856) ha la pretesa di essere una ''bella fedele'', contro le ''belle infedeli'' che l'hanno preceduta. Ancora oggi l'anarchico Stirner, pensatore controcorrente della sinistra hegeliana, è considerato da molti un matto e ancora oggi molti altri fanno iniziare da lui una nuova epoca dell'umanità, appunto perché era un anarchico. Stirner in realtà fu un uomo silenzioso, nobile, che nessun potere e nessuna parola sarebbero riusciti a corrompere, un uomo così unico che non trovò un posto nel mondo, e di conseguenza visse in povertà. L'obiettivo della sua opera fu quello di difendere l'unicità di ogni individuo, soprattutto dei diseredati, dei misconosciuti, dei calpestati in primo luogo ad opera dello Stato, della legge, delle religioni, dei sistemi etici e di tutte le istituzioni sorte con fini positivi, ma che fin troppo spesso, già solo per l'imperfezione umana (ma per Stirner di per se stesse, sempre), deragliano e richiedono continuamente interventi correttivi. Nella sua forma paradossale ed eccessiva, spesso urtante e urticante, espressione della sua indignazione e ribellione morale, ''L'unico'' difende un'esigenza umana fondamentale, che viene fin troppo spesso negata o elusa dai fanatismi, dai veri egoismi, che si abbeverano e si ubriacano di devastanti astrattezze.
(dal risvolto di copertina di: "L'unico e la sua proprietà", di Max Stirner. Bompiani)
Può sembrare un paradosso che colui che ha esaltato l’Egoista, l’interesse personale senza limiti né leggi, abbia vissuto la sua vita come un miserabile. La nuova edizione del classico dell’anarchismo individualista, L’Unico e la sua proprietà, scritto da Max Stirner nel 1845, pubblicata da Bompiani con testo tedesco a fronte (ben tradotto da Sossio Giametta ma purtroppo minato da molti refusi), permette di ripercorrere la vicenda di un filosofo maledetto, fonte d’ispirazione per Black Bloc e insurrezionalisti di varia risma. Personaggio misterioso, di lui esiste solo un ritratto tratteggiato da Friedrich Engels dopo la sua morte. Lo raffigura come il tipico intellettuale con gli occhialini tondi e l’immancabile sigaretta da cui esce il fumo a forma di punto interrogativo. Ma Stirner non era un topo da biblioteca. Restio ad ogni regola e costrizione, dopo gli studi intraprende una breve carriera di insegnante in un istituto privato berlinese. La sua attività didattica si interrompe bruscamente dopo la pubblicazione de L’Unico che causa subito scandalo nei circoli intellettuali dell’epoca, egemonizzati dagli hegeliani di destra e di sinistra. E non deve stupire visto che il primo capitolo s’intitola, significativamente «Io ho fondato la mia causa sul nulla». In questa voluminosa disanima della società ottocentesca, non priva di sarcasmo, butta a mare Dio, Stato, società e financo l’umanità, considerata da lui una vuota chimera. ?Scrive: «Io, egoista, non ho a cuore il bene di questa ‘società umana’, non le sacrifico niente, me ne servo soltanto». Gli onesti e i moralisti gli fanno ribrezzo. Gli illuministi lo disgustano: «I nostri atei sono gente devota». La democrazia è un obbrobrio per l’egoista: «Che me ne importa a me di quello che vale per il popolo?». Dalle rovine del vecchio mondo borghese si erge «L’Unico», «la mia potenza», «Il godimento di me stesso», a fare da apripista al superuomo nietzchiano. Il libro viene considerato talmente radicale nelle sue tesi, così assurdo, che i rigidi censori prussiani non ritengono opportuno sequestralo. Ai dirigenti della sua scuola però non sfuggono le conseguenze dirompenti del suo discorso e viene licenziato in tronco. Ridotto all’indigenza, Stirner tenta di aprire una latteria, ma il negozio fallisce ancor prima di aprire. Inseguito dai debitori, costretto a vivere in una stamberga, finisce due volte in prigione per insolvenza. Negli ultimi anni sbarca il lunario come rappresentante di commercio. Muore a 50 anni per la puntura di un insetto. Questa la fine dell’Unico che rifiutò sempre di essere ingabbiato, addomesticato in schemi ideologici. È facile immaginarselo, questo filosofo solitario, che guarda con disprezzo i rivoluzionari che nei moti del ’48 pensano di poter migliorare la società, rendere il mondo migliore e più giusto.
- Andrea Colombo - sulla Stampa del 30/6/2018 -
Io sono unico, la rivolta di Stirner
- di Donatella Di Cesare -
Presso la casa editrice Bompiani è uscita da poco una nuova edizione della grande opera di Max Stirner L’unico e la sua proprietà, con testo tedesco a fronte e un’eccellente traduzione di Sossio Giametta, corredata da minuziose note storico-critiche. Completa il volume un’imponente bibliografia, curata da Vincenzo Cicero, che offre un quadro esauriente dell’alterna fortuna toccata a questo singolare pensatore.
Di Max Stirner non è rimasta alcuna immagine — solo un profilo tracciato con la matita da Engels a distanza di quarant’anni. Lo distingueva una fronte ampia che fu lo spunto per il suo pseudonimo: da max-ima, molto alta, e Stirn, fronte. Il vero nome era Johann Caspar Schmidt. Poco si sa della sua vita, passata tra avversità, debiti, miseria, solitudine. Morì, a soli 49 anni, pressoché dimenticato da tutti. Nell’estate berlinese del 1856 solo il fedele amico Bruno Bauer accompagnò al cimitero la salma di quell’oscuro teorico della rivolta.
La fama giunse solo decenni dopo, quando il poeta John Henry Mackay, nel suo scritto storico Gli anarchici, uscito nel 1891, rilanciò il suo pensiero, facendone il pilastro del nuovo secolo a venire, quello che come motivo guida avrebbe avuto la libertà. Come immaginare, d’altronde, il Novecento senza il contributo decisivo di Stirner, il suo nichilismo esasperato, l’egoismo onesto e rabbioso, la ribellione estrema dell’individuo assurta a categoria filosofica?
Eppure non si possono nascondere imbarazzanti silenzi: quello di Nietzsche, che in privato ne parlava con fosca esaltazione, temendo di venire un giorno denunciato per plagio; quello di Heidegger che, pur non menzionandolo, ne riprese in qualche modo il tema dell’esistenza protesa sul fondo del nichilismo. Così scrive Stirner al termine della sua opera: «Ho fondato la mia causa su nulla».
Il silenzio, che per decenni ha avvolto la sua figura, si spiega per la fama sulfurea che lo ha accompagnato. Stirner era ritenuto un insopportabile psicopatico, un geniale spaccone, l’epilogo più brutale e corrosivo della tradizione tedesca dopo Hegel. Al punto che Kuno Fischer tentò di radiarlo dalla sua monumentale Storia della filosofia moderna, accusandolo addirittura di un vero e proprio attentato alla filosofia. Insomma, quel personaggio così unico, quel ribelle che non fu mai un capo politico, non riuscì a trovare posto nel mondo, né in vita né dopo. Stile accattivante, privo di pedanteria, pensiero ironico e profondo: L’unico e la sua proprietà è un capolavoro letterario che ha un effetto liberatorio. Stirner prende anzitutto le difese dell’individuo ineffabile, insostituibile, irripetibile, insomma «unico». È da questo «io» nella sua unicità che occorre ripartire. Per svincolarlo finalmente dai secolari lacci che lo tengono prigioniero. Sono i lacci della religione per eccellenza, il cristianesimo, ma anche quelli di tutte le religioni laiche — l’etimo di religio rinvia appunto al legare — che esercitano un potere pervasivo e violento. Questo io unico, che Stirner chiama «ego», non è il semplice esponente della specie, né può essere sacrificato sull’altare dell’universale, come pretendeva Hegel.
Viene intuito così quello che sarebbe stato il grande pericolo del Novecento: l’ideale totalizzante che avrebbe trovato la sua deriva nel totalitarismo. Anche al prezzo di essere esposto all’angoscia del vuoto, e dell’orrore che suscita, l’«io» che dà inizio a una nuova epoca deve poter fare a meno di ogni protezione, di ogni tetto e copertura che, a ben guardare, si rivelano altrettanti strumenti per asservirlo. Stirner mira al dissolvimento della società gerarchica, punta l’indice contro le istituzioni, il diritto, lo Stato. La libertà politica, cardine del liberalismo, viene pensata solo come vincolo del cittadino allo Stato. Di che libertà allora si tratta? Solo di una camuffata sudditanza dell’«io». Il cittadino è il novello schiavo che si genuflette dinanzi a questo «Dio mondano». Servire lo Stato è «l’ideale supremo» del liberalismo borghese.
«Libertà politica, che cosa bisogna intendere con ciò? Forse la libertà del singolo dallo Stato e dalle sue leggi? No, al contrario», ironizza Stirner in alcuni celebri passaggi. E prosegue: «Non significa la mia libertà, bensì la libertà di un potere che mi domina e costringe; significa che uno dei miei tiranni, come lo Stato, la religione e la coscienza, è libero. Stato, religione, coscienza, questi tiranni, mi rendono schiavo, e la loro libertà è la mia schiavitù».
Non basta, dunque, spazzare via queste vecchie carcasse; occorre affrancare l’individuo dai fantasmi interiorizzati che lo tengono in pugno. Come? Creando nel suo intimo dipendenza, sottraendogli la sua proprietà, alienandolo. Prima di essere politica, la rivolta è esistenziale. In tal senso non si esagera indicando in Stirner un precursore, a tutti gli effetti, della filosofia novecentesca che nello slancio dell’esistenza, nel suo afflato estatico, avrebbe visto la via per superare ogni volta il limite dell’«io», ma soprattutto per rimuovere l’inautenticità.
L’individuo non ha compiti, né vocazioni; non è tenuto a rispettare niente e nessuno. Piuttosto presta ascolto a sé. Ed è chiamato perciò, godendo la sua vita, a non misurarsi, né a paragonarsi ad altri. Stirner confessa con il suo consueto, aspro sarcasmo: «Mi pensavo solo paragonandomi a un altro; insomma non ero io tutto in tutto, non ero — unico. Ma ora smetto di vedermi come l’inumano, smetto di misurarmi e farmi misurare sull’uomo, smetto di riconoscere qualcosa al di sopra di me e con questo — ti saluto critico umanista! Inumano io sono solo stato, ora non lo sono più: adesso sono l’unico, anzi sono, per tuo scandalo, l’egoista». Sarebbe riduttivo, però, prendere questa posizione per un volgare egoismo. Ciò che anima Stirner è l’aspirazione a diventare se stesso, senza assumere modelli esterni, è la libertà intesa come riappropriazione di sé, autenticità.
Quando l’opera di Stirner uscì, nel 1844 (con la data del 1845), venne dapprima messa all’indice e quindi dissequestrata da un ministro dell’Interno non troppo acuto, che sentenziò: «Da quel libro non ci si può aspettare nessun vero effetto dannoso sui lettori, dato che predica cose assurde e nient’affatto credibili». Quella filosofia, insomma, non avrebbe avuto risonanza. Subito dopo fu però nuovamente vietato in Prussia; ma nel frattempo girava già ovunque.
Nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels dedicarono a Stirner un capitolo intitolato San Max, una critica «voluminosa quanto il libro stesso». Quell’«unico» non era altro che l’individuo proprietario della società borghese. Il suo principio non era forse l’egoismo? Per Marx alla fin fine Stirner non aveva compiuto che «un movimento di trottola» rispetto a Hegel. Restava pur sempre nell’ambito speculativo. Quella ribellione dell’individuo, tutto preso dalla sua autocoscienza, non poteva certo essere confusa con la rivoluzione del proletariato.
Tuttavia Marx intuì che il profeta dell’anarchismo metteva l’accento su una unione di individui liberi che, in fondo, non avrebbe dovuto essere trascurata — se non altro guardando alla futura comunità senza classi.
- Donatella Di Cesare - Pubblicato su La Lettura del 29/7/2018 -
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