mercoledì 3 ottobre 2018

Lenin e Lenin. 1, 2, e 3!

curzio lenin

Ricordi un po’ instabili
Gorkij su Lenin un ritratto accomodato
di Luciano Canfora

«È convinto di avere ragione e non può tollerare che qualcuno gli rovini il lavoro. La sua sete di potere scaturisce dalla immane convinzione che i suoi princìpi siano giusti e forse dalla incapacità — assai utile per un politico — di mettersi dal punto di vista dell’avversario». Queste parole tratte dal profilo di Lenin di Lunaciarskij (Pietrograd, 1919) non figurano più nell’edizione moscovita del 1923 (ripubblicata nel 1924), presa a base, mezzo secolo fa, dall’edizione inglese — e subito dopo italiana (1967) — dei Profili di rivoluzionari dello stesso Anatolij Lunaciarskij («il più intellettuale dei bolscevichi, il più bolscevico degli intellettuali», come venne definito). Riscritture di questo genere sono un fenomeno da studiare con la lente della filologia e la consapevolezza storica dei fatti. Un caso di straordinario interesse lo ha dissotterrato con perizia e brillantezza, uno dei nostri più apprezzati russologi, Marco Caratozzolo. Si tratta del profilo di Lenin (Maksim Gorkij, Lenin, un uomo, Sellerio, pagine 176, e 13), scritto di getto da Maksim Gorkij poco dopo la morte di Lenin e poi ripensato, limato, accomodato nella successiva — più nota — edizione (1931): quella approdata nel XXII volume dell’edizione russa, e, di lì, nel XV volume in traduzione italiana delle Opere di Gorkij (Editori Riuniti, 1963).
La stesura originaria era apparsa nel 1924; con modifiche lo scritto fu riedito a Berlino nel 1927. L’edizione del 1931 è quella «sovietica». Per capire la qualità delle modifiche apportate ci si può riferire al breve paragrafo su Trotsky. È un elogio breve e vivace: (Lenin) diede un pugno sul tavolo e disse: «Ecco, che mi mostrino un altro uomo capace in un anno di mettere su un esercito esemplare, e poi anche di conquistarsi il rispetto degli esperti militari. Quest’uomo noi ce l’abbiamo! E faremo miracoli!». Nel 1931 il paragrafo viene modificato nella sostanza e diventa: «(Lenin disse) Non è uno di noi! È con noi, ma non è uno di noi. È ambizioso. C’è in lui qualcosa di negativo, gli viene da Lassalle» (pp. 152-153 dell’apparato della traduzione selleriana).
L’accusa «non è dei nostri» ha un sapore rituale, non fu infrequente nell’atmosfera kominternista. Nelle note di diario di Dimitrov si legge di un dialogo tra Dolores Ibarruri e José Diaz (entrambi esuli dopo la vittoria franchista) presente Dimitrov, il 19 luglio 1941 a proposito di Togliatti (Ercoli): «Diaz da noi. Esprime sfiducia politica in Ercoli. Anche Dolores dichiara di non avere piena fiducia in Ercoli. Sente in lui qualcosa di estraneo, di non nostro, anche se non può dare a questo un fondamento concreto» (Diario, a cura di Silvio Pons).
I cambiamenti apportati da Gorkij investono ovviamente soprattutto giudizi e notizie su Lenin. Un altro paragrafo che ha subito un capovolgimento totale è il 7: «Non può esserci un vožd (capo) che, a un livello o a un altro, non sia un tiranno. Probabilmente all’epoca di Lenin sono state uccise più persone che all’epoca di Wat Tyler, di Thomas Müntzer, di Garibaldi». Tutta questa parte nell’edizione del 1931 scompare.
L’aspetto che più colpisce, in questa storia, è che questi cambiamenti li hanno apportati gli autori stessi. Trattandosi di «ricordi» — in questo caso risalenti al 1919-20 — e di valutazioni conseguenti, è impressionante come essi vengano consapevolmente modificati dieci anni dopo. La memoria è, com’è noto, creativa, ma quella che deve (o vuole) tener conto delle opportunità politiche è anche insidiosa. E induce a porsi la domanda: cos’è un testimone oculare?

- Luciano CanforaPubblicato sul Corriere del 1° ottobre 2018 -

curzio

«Spero di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell'opinione pubblica europea» confida Malaparte all'amico Halévy nel settembre del 1931. Il suo intento era, in realtà, ancora più audace: mostrare Lenin come appare agli occhi dei «Russi intelligenti». O, se vogliamo, analizzare un fenomeno entro la sua stessa logica, come già aveva fatto nell'Intelligenza di Lenin per spiegare il bolscevismo. E il nuovo libro, uscito a Parigi nel 1932, avrà l'effetto di una scossa elettrica. Perché in questo romanzo-ritratto Lenin non è affatto il Gengis Khan proletario sbucato dal fondo dell'Asia per conquistare l'Europa, raffigurazione ideale per chi voglia ricacciarlo al di là dei confini dello «spirito borghese»: semmai, un piccolo borghese egli stesso. Di più: freddo e riflessivo, sedentario e burocratico, animato da un'immaginazione meticolosa e da una «crudeltà platonica», ostile a ogni romanticismo terrorista e incapace di agire all'infuori della teoria, a suo agio più nelle discussioni politiche e nelle faide personali che non nel confronto con la realtà, Lenin non è che un europeo medio, un buonuomo violento e timido, un «funzionario puntuale e zelante del disordine», un fanatico e un opportunista, per il quale la rivoluzione è una questione interna di partito, il risultato di ossessivi calcoli. Non a caso quando, giunto al potere, non potrà più attendere gli eventi e osservarli da lontano, e – proprio lui, dotato di un vivo «senso dell'irrealtà» – dovrà fare i conti con la realtà, si risolverà a inventarla, a crearla, imponendola «a se stesso, ai suoi collaboratori, al popolo di Russia, alla rivoluzione proletaria, all'avvenire dell’Europa».

(dal risvolto di copertina di: Curzio Malaparte: Il buonuomo Lenin, Adelphi.)

Un rivoluzionario borghesuccio e ossessionato dal controllo, perfetto per i social
- Il “buonuomo Lenin” di Malaparte, sorprese molto attuali -
di Anna Zafesova

L’incrociatore Aurora ha sparato, sul Palazzo d’Inverno sventola la bandiera rossa e nell’aula dell’Istituto per le fanciulle nobili Smolny un uomo piccolo e agitato dice Es schwindelt, mi gira la testa, mentre si toglie la parrucca rivelando la calvizie, e rivelando anche la sua identità. A Pietrogrado è la sera del 25 ottobre 1917, nel resto del mondo è già il 7 novembre, e l’orologio della storia ha appena segnato l’ora zero di una nuova era. A far spostare le lancette è stato proprio quest’uomo, dalla parlata rapida e dal riso stridente. Ha 47 anni, non ha mai lavorato, non ha mai avuto una vera casa, non è mai andato in guerra, ha solo scritto: saggi, ordini, trattati, lettere, articoli, programmi, recensioni, polemiche e pizzini. Ha progettato una rivoluzione senza mai fare del male a nessuno, anzi, senza fare nulla. Ha vissuto in camere in affitto, è andato in bicicletta, ha giocato a carte con la suocera e preso il tè con la moglie e gli amici: il mondo reale gli è sconosciuto, come il paese che si appresta a ribaltare da cima a fondo, non ha la più pallida idea di come si governa, si amministra, si produce, e anche la sua rivoluzione è stata in gran parte fatta da altri. Ma sarà lui a iscrivere il suo nome, anzi il suo pseudonimo, nella storia, cinque lettere che tuttora restano incise in marmo sul suo mausoleo in piazza Rossa: Lenin. Più di 100 anni dopo quello che i manuali di storia russi oggi chiamano “colpo di stato bolscevico” potrebbe essere curioso rileggere con uno sguardo nuovo l’inizio di una rivoluzione, in sordina, a sorpresa, animata da personaggi improbabili, tra l’indifferenza e il disprezzo di chi in quel momento era impegnato a muovere le leve della storia altrove. “Il buonuomo Lenin” di Curzio Malaparte, appena uscito da Adelphi, può essere un curioso manuale sulle rivoluzioni fatte da una banda di scalmanati. Basato sui reportage scritti dall’Unione Sovietica dall’allora direttore della Stampa, lo scritto di Malaparte – uscito in francese nel 1932 come “Le bonhomme Lénine”, in italiano con il titolo “Lenin buonanima” nel 1962, e ripubblicato ora, nella meticolosa ricostruzione del testo a opera di Maria Rosa Bricchi – è una sorta di biografia romanzata, scritta per di più in un’epoca in cui tante testimonianze e documenti non erano ancora stati svelati, e alcuni dei peggiori crimini del comunismo non erano ancora stati commessi. Malaparte utilizza il suo personaggio per lanciare una polemica tutta contemporanea, in un’epoca in cui non c’era ancora l’abitudine ai capi e duci carismatici – a dire il vero, oltre a Lenin, ce n’era in circolazione soltanto un altro, e infatti lo scrittore si mise a lavorare sul capo bolscevico in una pausa dei preparativi per la biografia di Mussolini – e ricama sopra la trama biografica un ricco ritratto letterario. Non è certo da consigliare come ricerca storica: il Lenin di Mapalaparte si gratta il naso, suda, sbuffa, compie tutta una serie di gesti che nemmeno il più attento e plausibile dei testimoni avrebbe potuto riferire allo scrittore, insomma, è attendibile quanto un’intervista del Papa a Scalfari. Ma il mestiere al direttore della Stampa non manca, quello che non necessariamente è vero è ben trovato, e l’analisi di un leader antisistema scritta da un appassionato seguace di un altro movimento antisistema diventa, 100 anni dopo, una lettura curiosamente attuale. Molte intuizioni di Malaparte sul personaggio di Lenin verranno confermate da testimonianze e documenti emersi negli anni successivi, soprattutto quella del titolo: Vladimir Ilic Ulianov non era un eroe, una forza della natura, un Genghis Khan sanguinario emerso dalle steppe orientali. Era un “ragioniere della violenza, un organizzatore del disordine”, un burocrate della rivoluzione. Se la sua vita fosse andata altrimenti, sarebbe diventato un funzionario delle scuole, come suo padre.

Un avvocato banale come la sua bicicletta
Un avvocato fallito di Simbirsk, ossessionato dall’organizzazione, un ossessivo compulsivo, si direbbe in linguaggio moderno. Mentre i compagni di partito costruivano barricate, marcivano nelle galere dello zar e organizzavano attentati dinamitardi, lui riempiva pagine interminabili di regolamenti e dottrine, incasellando su carta le regole della rivoluzione, e combattendo con l’inchiostro tutte le deviazioni dall’unico pensiero giusto, il suo. La sua rivoluzione si compie nei congressi di partito, nei giornali, nelle liti per corrispondenza tra gruppettari marxisti sparsi tra Zurigo, Londra, Parigi e Pietroburgo (oggi si sarebbe trovato a suo agio sui social), in un mondo quasi virtuale di personaggi che con la realtà hanno un rapporto nel migliore dei casi faticoso. Nulla dell’eroe romantico, del ribelle e del tribuno: il Lenin di Malaparte non è il Limonov di Carrère, è più un Casaleggio (con un pizzico di Di Maio). E’ il piccolo borghese per eccellenza, secondo Malaparte, anonimo, timido, privo di voli dello spirito e del sentimento, fanatico e spietato perché astratto: “La parola ‘distruggere’, non ha, per lui, se non un significato che si potrebbe chiamare amministrativo, burocratico. Egli non si arresta sulle parole che pronuncia, o che scrive. Egli non ha, per questo, abbastanza immaginazione”. E’ l’uomo nell’astuccio di Cechov, non un demiurgo: preciso come un orologio, banale come la sua bicicletta. Chi gli ha dipinto intorno una aureola di divinità selvaggia uscita dalle tenebre orientali, non deve dormire tranquillo: non è possibile rimuoverlo con sollievo oltre i confini del mondo occidentale, convinti che nel nostro mondo ordinato e libero un Lenin non potrebbe mai accadere, è un animale del buon salotto borghese europeo, è il nostro vicino di scrivania, il “buon uomo” che ci saluta quando ci incontra dal panettiere.

Ritratto dissacrante, non proprio storico
Un ritratto dissacrante che ha tratti comuni anche con un successore di Lenin, un altro piccolo borghese di Pietroburgo, anche lui di nome Vladimir, che gli osservatori occidentali raffigurano come diabolico stratega e spietato zar dai tratti orientali, senza riconoscere in lui quello che fu, prima di salire al potere, come Lenin, a 47 anni: un piccolo burocrate ansioso di entrare nel bel salotto dei potenti europei. Malaparte non nasconde di preferire di gran lunga Trozky, carismatico, coraggioso, ironico e violento, e dipinge un Lenin timido, irrisoluto, che trascorre nascosto e mascherato i giorni precedenti alla rivoluzione, lasciando agire gli altri. Da bravo fascista, Malaparte sogna gli eroi, “borghese” per lui ha un’accezione negativa. Il borghese è l’anti-aristocratico, il plebeo morale, e Malaparte non ne coglie il tratto fondante, quello che ha trasformato in “borghese” la democrazia: la moderazione, l’avversità all’estremismo, l’odio per tutto quello che può sovvertire la sua vita benestante. Lenin è il contrario del borghese, è un uomo che del borghese ha l’eloquio, l’educazione, i vestiti e i rapporti familiari, ma nella società borghese non riesce a inserirsi, al punto da ritenere che l’unico rimedio a questo disagio sia la distruzione fisica della borghesia. Molti suoi compagni rivoluzionari – Trozky, Stalin, Kamenev – rappresentavano ceti emergenti, che per famiglia o appartenenza etnica non riuscivano ad ottenere nella Russia zarista quello cui avrebbero potuto aspirare. Lenin no, era uno studente modello, un nobile, figlio di una famiglia benestante di servitori dello stato. Eppure, con un fanatismo degno più del militante di una setta religiosa, rivolge tutta la sua determinazione a dimostrare che in Russia – contrariamente all’evidenza marxista – dovrà accadere una rivoluzione proletaria, e che per compierla non serve una evoluzione economica e sociale, basta un partito organizzato nel modo giusto. Per i vent’anni successivi si dedicherà a crearlo, facendo fuori i padri fondatori, prendendo il controllo degli indirizzari e delle reti di collaboratori, espellendo senza pietà gli incerti, creando intorno a sé uno zoccolo duro di impresentabili spesso oltre il limite dell’imbarazzante, ma che avevano un’unica virtù: obbedire senza discutere.
“Il primo problema di una rivoluzione è il potere”. Cosa fare di questo esercito di automi una volta raggiunto il potere – più per merito o demerito altrui, perché il sistema era crollato, perché prima erano arrivati altri rottamatori, più intelligenti e accorti, ma meno determinati – Lenin non ci aveva mai pensato, e le vertigini che lo assalirono la sera del 25 ottobre 1917 erano più che giustificate. Lo sciopero dei funzionari del governo è il primo ostacolo che incontra, con la scoperta che lo stato è una macchina complessa ma necessaria e funzionale. Il Lenin fanatico cede il posto al Lenin pragmatico, che prima prende decisioni necessarie, e poi versa fiumi d’inchiostro a giustificare e fornire una base teorica alla giravolta a 180 gradi che ha appena messo in atto. Dal piegare la realtà si passa al farsene piegare, e dal sostenere che l’intellighenzia “non è il cervello della nazione, ma la sua merda” al dire che “un ingegnere borghese vale dieci comunisti”. La pace con i tedeschi e il neocapitalismo della Nep sono due controrivoluzioni, seppure argomentate con la solita profusione di parole, e Malaparte disprezza questo Lenin meschino che si “piega al buon senso”, e arriva addirittura ad ammettere i suoi errori. Visto oggi, avrebbe potuto essere quasi un lieto fine. Il vero Genghis Khan attendeva nell’ombra di Lenin, per deporlo poi nel mausoleo, con la sua borghesissima cravatta nera a pois bianchi, e farne il dio della sua religione sanguinaria.

- Anna Zafesova - Pubblicato sul Foglio del 6/5/2018 -

Il Lenin di Malaparte, rivoluzionario con la parrucca e senza baffi
- Novecento italiano. Non eroe alla Trockij, ma grigio «bonhomme». Torna da Adelphi la biografia romanzata del leader bolscevico, ridotto da Malaparte a piccolo-borghese -
di Raoul Bruni

Chi si è occupato finora di Malaparte ha quasi sempre cercato di etichettarlo politicamente: a seconda della fase storica di riferimento, lo si è potuto definire proto-fascista, fascista, anti-fascista, liberale, filo-comunista. Se da un lato questa alternanza di definizioni ha alimentato il mito camaleontico del personaggio Malaparte, d’altra parte ha finito per metterne un po’ in ombra l’opera. Visto anche il recente revival editoriale, sembra sia venuto il momento giusto per cambiare prospettiva, leggendo non più (o non solo) Malaparte nel quadro della politica del secolo scorso ma, viceversa, la politica del Novecento nell’opera di Malaparte.
Con questa modalità di sguardo si potrà forse comprendere meglio il valore intrinseco di Malaparte, anche come scrittore politico. Le opere centrali, da questo punto di vista, sono Intelligenza di Lenin, Tecnica del colpo di Stato e Il buonuomo Lenin, appena ripubblicato da Adelphi per l’attenta cura di Mariarosa Bricchi («La collana dei casi», pp. 311, € 20,00). Il libro – che insieme agli altri due compone una sorta di trilogia sulla rivoluzione russa – uscì per la prima volta a Parigi, per Grasset, nel 1932, con il titolo Le bonhomme Lénine, mentre la prima edizione italiana, a causa di varie vicissitudini, fu stampata da Vallecchi soltanto nel 1962 (cinque anni dopo la morte dell’autore). Il titolo dell’edizione Vallecchi, Lenin buonanima, fu suggerito dallo stesso Malaparte; tuttavia il significato dell’espressione buonanima («persona defunta») si distacca sensibilmente da quello della parola francese bonhomme, che significa appunto uomo buono o uomo semplice. Nella nota al testo, in cui spiega le ragioni del nuovo titolo, Mariarosa Bricchi ipotizza che Malaparte abbia preferito tradurre bonhomme con il termine più neutro buonanima per evitare di essere considerato troppo filo-russo, in un momento storico (lo scrittore propose questo titolo nel 1939) in cui i rapporti politici tra Italia e Russia erano estremamente tesi (potrebbe essere una modifica «tattica», come quando Malaparte mutò il titolo del suo esordio Viva Caporetto! in La rivolta dei santi maledetti). Ma al di là di questa ipotesi, rimane il fatto che l’espressione buonanima è in stridente contrasto con l’accezione che in tutto il libro ha la parola bonhomme come epiteto-chiave di Lenin.
Malaparte scrive questa biografia del leader bolscevico per ribaltare i luoghi comuni e spiazzare il lettore: come annuncia programmaticamente in una lettera del 4 settembre 1931 all’amico Daniel Halévy, egli si propone «di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell’opinione pubblica europea». Malaparte prende contemporaneamente le distanze sia dai biografi russi, che avevano trasformato la vita di Lenin in una agiografia politica, sia dalla maggior parte dei cronisti occidentali, che lo avevano raccontato come un mostruoso Gengis Khan della rivoluzione proletaria. Per Malaparte Lenin è molto più europeo che asiatico: assomiglia di più a Robespierre che a Gengis Khan, e se è «un mostro», lo è «nella maniera nella quale potrebbe esserlo o potrebbe diventarlo, favorito dalle occasioni, qualunque europeo medio dei giorni nostri» (come non pensare alla tesi della banalità del male di Hannah Arendt?). Secondo Malaparte, Lenin non fu un uomo d’azione come Trockij (che nella Tecnica del colpo di Stato era presentato come il vero protagonista della rivoluzione d’ottobre), ma un bonhomme, cioè un uomo ordinario, un piccolo borghese. Stando a Malaparte, l’unico evento veramente degno di nota della gioventù di Lenin non riguardò direttamente lui, ma il fratello Aleksandr, condannato all’impiccagione per aver attentato alla vita dello zar. Fino allo scoppio della rivoluzione, Lenin condusse una esistenza di grigia monotonia, sia in patria sia all’estero; nessuna bohème, neanche negli anni giovanili, ma un tranquillo e rassicurante ménage familiare con la vigile moglie Nadežda Konstantinovna e l’amata suocera. Quando non era a casa, Lenin trascorreva la maggior parte del suo tempo in biblioteca a compulsare o a redigere aride statistiche sul capitalismo; a quanto sostiene Malaparte, la sua ribellione si espresse tutt’al più in qualche articolo polemico, senza esorbitare dalla pagina scritta. D’altronde Malaparte stronca impietosamente anche il Lenin filosofo e scrittore: soltanto il celebre Che fare? si salva dalla «mediocrità décevante di tutta la sua opera». Tutto in Lenin è mentale, astratto, teorico: anche l’«odio contro la Santa Russia, contro la società borghese, contro i nemici del popolo, non è feroce. La parola “distruggere” non ha per lui ciò che si potrebbe chiamare un cattivo significato. L’odio non è in lui un sentimento: non è nemmeno un calcolo. È un’idea. Il suo odio è teorico, astratto, direi anche disinteressato».
Insomma, Malaparte elimina totalmente l’aura romantica che circondava la figura di Lenin, esattamente come, nella Tecnica del colpo di Stato, aveva ridotto i giorni solenni della rivoluzione d’ottobre a un mero golpe, nel senso più tecnico della parola. Così Malaparte torna sull’argomento nel Buonuomo Lenin: «Trotzky non si è preoccupato di rovesciare il Governo: si è impadronito dello Stato. In quella situazione paradossale è il segreto della tecnica insurrezionale di Trotzky. Le operazioni si sono svolte con una rapidità e una regolarità sorprendenti. Nessun avvenimento sanguinoso marca la prima giornata dell’insurrezione: alcuni colpi di fucile soltanto, nel sobborgo di Poutilow». Parecchi anni più tardi, in Fuga da Bisanzio, Iosif Brodskij (chissà se aveva letto Malaparte?) parlerà della rivoluzione bolscevica in termini sorprendentemente simili: «Quella che nei libri di storia è presentata come la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre non fu in realtà che un semplice golpe, e incruento per giunta. Al segnale un colpo a salve sparato dal cannone di prua dell’incrociatore Aurora un plotone delle neonate Guardie Rosse entrò nel Palazzo d’Inverno e arrestò un pugno di ministri del governo provvisorio che stavano lì a perder tempo, a cercare vanamente di provvedere alla Russia dopo l’abdicazione dello Zar».
In ogni caso per Malaparte la vera anima della rivoluzione rimane Trockij, mentre Lenin «al momento decisivo dell’insurrezione, si metterà una parrucca, si taglierà i baffi e la barba, si travestirà da operaio, arriverà perfino a compromettere l’esito del colpo di Stato, preferendo nascondersi e tenersi in disparte piuttosto che arrischiarsi sul terreno dell’azione e della violenza». Per Malaparte in questo aneddoto c’è tutto Lenin, tutta la sua indole piccolo-borgese da «rivoluzionario in parrucca».
Il buonuomo Lenin è sicuramente una biografia a tesi, che, come accade sempre in Malaparte, mescola fiction e non-fiction a scapito dell’attendibilità storica e piega il resoconto dei fatti all’effetto da raggiungere. Eppure (e lo stesso discorso vale anche per Kaputt e La pelle) Malaparte coglie spesso verità profonde, e ciò che racconta, se non è vero, appare quasi sempre verisimile. In questo caso si rimane colpiti dal fatto che lo scrittore abbia intuito molti decenni prima del crollo dell’Unione Sovietica i primi sintomi dell’involuzione autoritaria e burocratica del bolscevismo. Che sembra annunciarsi nell’implacabile ideologia piccolo-borghese di Lenin: nel suo «fanatismo di burocrate, che non ha alcun rapporto con la realtà, i fatti, le circostanze, le occasioni, gli uomini, che agisce unicamente sulle idee, nel dominio delle idee».

- Raoul Bruni - Pubblicato su Alias del 10.6.2018 -

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