mercoledì 31 ottobre 2018

Progetti per il passato

agamben diciotti

Solo ora, raccolti insieme nella loro integralità, i nove libri che formano il progetto Homo sacer acquistano il loro vero significato. Il fitto gioco dei rimandi interni, la ripresa incessante e lo svolgimento dei temi di volta in volta enunciati disegnano un’architettura imponente, articolata in quattro sezioni. Nella prima viene tracciato il programma di una messa in questione dell’intera tradizione politica dell’Occidente alla luce del concetto di nuda vita o di vita sacra (Il potere sovrano e la nuda vita, 1995). Nella seconda sezione questo programma viene svolto attraverso una serie di indagini genealogiche: (Iustitium. Stato di eccezione, 2003; Stasis. La guerra civile come paradigma politico, 2015; Horkos. Il sacramento del linguaggio, 2008; Oikonomia. Il Regno e la Gloria, 2007; Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, 2012). La terza sezione sottopone l’etica alla prova di Auschwitz (Auschwitz. L’archivio e il testimone, 1998). La quarta sezione, infine, elabora i concetti essenziali per ripensare da capo l’intera storia della filosofia: forma-di-vita, uso, inoperosità, modo, potere destituente (Altissima povertà, 2011; L’uso dei corpi, 2014).
L’archeologia del pensiero politico e filosofico occidentale sviluppata nel progetto Homo sacer non si limita, infatti, semplicemente a criticare e correggere alcuni concetti o alcune istituzioni; si tratta, piuttosto, di revocare in questione il luogo e la stessa struttura originaria della politica e dell’ontologia, per portare alla luce l’arcanum imperii che ne costituisce il fondamento e che era rimasto, in esse, insieme pienamente esposto e tenacemente nascosto.
In questa edizione definitiva sono stati restituiti i titoli del progetto originale e sono state inserite le integrazioni – come la lunga nota sul concetto di guerra – e le correzioni volute dall’autore.

(Dal risvolto di copertina di: Giorgio Agamben, "Homo sacer. Edizione integrale". Quaderni Quodlibet, pp. 1392. € 70,00)

Sommario

I. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita
II.1. Iustitium. Stato di eccezione
II.2. Stasis. La guerra civile come paradigma politico
II.3. Horkos. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento
II.4. Oikonomia. Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo
II.5. Opus Dei. Archeologia dell’ufficio
III. Auschwitz. L’archivio e il testimone
IV.1. Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita
IV.2. L’uso dei corpi
Riferimenti bibliografici
Indice dei nomi
Indice del volume

La nuda vita dai campi di sterminio alla nave Diciotti
- di Stefano Jorio -

Tra qualche giorno la casa editrice Quodlibet pubblicherà l'edizione integrale di Homo sacer, l'opera in più volumi che ha reso la biopolitica di Giorgio Agamben fra le proposte più rilevanti della filosofia contemporanea. Si tratta di una nuova occasione per riflettere sulla portata filosofico-politica di tale proposta.
Sono passati quasi venticinque anni da quando Giorgio Agamben inaugurò il percorso di pensiero dell’Homo Homo sacer, completato nel 2014 con il nono e ultimo volume. Questo percorso viene ora raccolto da Quodlibet in edizione integrale: oltre milletrecento pagine che sarebbe importante leggere o rileggere, perché in esse Agamben torna all’origine della politica occidentale – dove essa si confonde con la metafisica nel tentativo di definire l’umano – per interpretare la contemporaneità, alla luce dello stato totalitario novecentesco e del genocidio degli ebrei, come catastrofe planetaria in via di svolgimento, vuoto giuridico che diventa norma in uno stato di eccezione permanente e dominio dell’economia e del governo realizzato in un’intima solidarietà tra democrazia e totalitarismo.
Agamben prende le mosse dalla tesi di Foucault, formulata nelle ultime pagine della Volontà di sapere, secondo cui la modernità nacque in Europa verso la metà del XVIII secolo quando il potere assunse la gestione e la pianificazione della vita biologica della popolazione, determinando da un lato la fortuna della nuova scienza demografica e dall’altro la proliferazione di «tecnologie politiche che investiranno il corpo, la salute, le modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita, l’intero spazio dell’esistenza» (Foucault menzionò tra esse la scienza della polizia: oggi basti pensare oggi al poderoso apparato retorico che tramite pubblicità, talk-show, telegiornali e industria culturale plasma esigenze ed aspettative delle popolazioni investite). Con un neologismo spesso abusato ai nostri giorni, Foucault definì tutto questo dicendo che la nascita della modernità coincide con la nascita del “bio-potere”.
Foucault non arrivò mai ad applicare la sua tesi allo studio degli stati totalitari del Novecento: ma lo fa appunto Agamben, che colloca Auschwitz e il genocidio all’interno del nuovo orizzonte biopolitico della modernità. Anziché definire il campo di sterminio come il luogo in cui si verificarono gli eventi elencati e descritti dalla storiografia dei decenni successivi, Agamben si domanda cosa doveva accadere affinché il campo di sterminio diventasse possibile e legge il nazifascismo come una risposta dello Stato al nuovo compito biopolitico. In Italia il fascismo attuò per primo l’annessione della vita da parte della politica tramite lo stato corporativo (incaricato di regolare normativamente, oltre al lavoro nazionale, anche il dopolavoro e la vita spirituale); in Germania il nazionalsocialismo statalizzò e regolamentò, tramite le leggi razziali, anche quell’ambito della vita biologica che fino ad allora era rimasto privato. La regolamentazione passò per quattro stadi: la discriminazione biologica della minoranza ebrea; la privazione dello status di cittadino, sul quale le costituzioni europee innestavano (e innestano oggi) la titolarità dei “diritti umani”; la revoca della nozione di “delitto” in relazione agli ebrei e il genocidio della razza realizzato su scala industriale (in una rete di mattatoi).
La produzione dell’homo sacer (la «nuda vita»: ciò che resta quando sia la legge umana che quella divina si ritraggono dall’uomo lasciandolo fuori della loro giurisdizione) è da sempre, secondo Agamben, la prestazione fondamentale del potere sovrano. Lo è fin dall’inizio della politica, che non poteva definire se stessa se non riferendosi – escludendolo – a quel vivente misterioso, necessariamente presente e altrettanto necessariamente invisibile, che è l’essere umano inteso come puro organismo biologico. Nel diritto romano arcaico homo sacer era colui che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che nessuno poteva sacrificare agli dèi. Si potrebbe dire che non apparteneva a nessuno, perché si può sacrificare solo ciò che si possiede. In questo senso il potere nazista ha portato alle estreme conseguenze, con gli ebrei, quella liceità di uccidere e quel divieto di sacrificare. Ha derubricato la loro uccisione dalla categoria dell’omicidio e non li ha “sacrificati” in guerra come gli altri “figli della Patria” divinizzata.
È merito di Agamben avere documentato che l’individuazione e la discriminazione del corpo estraneo ebbero luogo nella Germania nazista quando i tedeschi condivisero l’idea hitleriana secondo cui il popolo ariano doveva rendersi biologicamente puro tramite una politica della separazione. In questo senso la comunanza di destino – “il popolo” – sancita dalla comune eredità cromosomica fu un enzima vero del nazionalsocialismo: al destino biologico del popolo credettero sinceramente tanto i tedeschi che gli ideologi del Partito. Il genocidio non venne “giustificato” da un discorso “di propaganda”, nessuno raccontò una menzogna (la sub-umanità degli ebrei) per prendere il potere e per conservarlo. La disumanizzazione degli ebrei venne preceduta dall’identificazione di un “noi” e di un “loro”, fu preparata e giustificata (resa giusta e plausibile) da una teoria scientifica della razza che aspirava a un contenuto di verità.
Ma la tesi biopolitica di Agamben guarda anche in avanti, verso i campi di detenzione e di tortura che a partire dagli anni Novanta si sono moltiplicati fino a diventare un tratto stabile e costitutivo della contemporaneità. «Tutto avviene,» scrive Agamben, «come se, di pari passo al processo disciplinare attraverso il quale il potere statale fa dell’uomo in quanto vivente il proprio oggetto specifico, si fosse messo in movimento un altro processo, che coincide grosso modo colla nascita della democrazia moderna, in cui l’uomo vivente si presenta non più come oggetto, ma come soggetto del potere politico.» La “nuda vita”, dunque, come luogo della libertà e al tempo stesso dell’asservimento. «Prendere coscienza di questa aporia non significa svalutare le conquiste e i travagli della democrazia, ma provarsi una volta per tutte a comprendere perché, nel momento stesso in cui sembrava aver definitivamente trionfato dei suoi avversari e raggiunto il suo apogeo, essa si è rivelata inaspettatamente incapace di salvare da una rovina senza precedenti quella zoè [la vita biologica] alla cui liberazione e alla cui felicità aveva dedicato tutti i suoi sforzi.»
I campi di sterminio furono il luogo in cui, nel nuovo orizzonte biopolitico, il potere tracciò una linea che separava l’umano dal non-umano. Gli ebrei sopravvissuti ai campi videro la nuda vita, dovettero osservare lo spettacolo della propria desoggettivazione e poi tornare soggetti. Videro coloro che nel gergo del campo di sterminio venivano definiti i “musulmani”: viventi senza più parola, volontà e spirito; i primi ad essere selezionati per le camere a gas. I “musulmani” assistettero (ammesso che fossero capaci di assistere nel senso che diamo abitualmente a questa parola) alla loro desoggettivazione completa, fino alla morte nel mattatoio; vennero umanamente annullati e poi uccisi da chi nel farlo non sentiva di commettere un omicidio, da chi li tosava per vendere i loro capelli come materiale tessile.
Non è possibile non percepire una macabra aria di famiglia leggendo il coro levatosi nel 2016 sui social media italiani per protestare contro il recupero dei settecento cadaveri nel canale di Sicilia («soldi buttati, perché non immessi nel circuito produttivo italiano»). Se Auschwitz ci riguarda ancora oggi non è perché i nazisti, come spesso si dice, siano “diventati” delle belve rivelandoci la tenebra che si nasconde nel cuore dell’uomo: ma perché questo cuore e questa tenebra sono il luogo di una decisione che viene compiuta tuttora, con conseguenze variabili, quando gruppi sociali inermi vengono esposti fuori dalla legislazione e dai “diritti umani”. Accadeva quando Homo Sacer venne concepito (al tempo degli stupri etnici in Bosnia), sta accadendo con i “migranti” e con gli stranieri in arrivo da paesi poveri: a bordo della nave Diciotti, a Chemnitz, alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, a Macerata, nei centri di detenzione libici assistiamo a una produzione di paria a livello planetario. La legge si ritrae da certi gruppi umani, li espone come nuda vita disconoscendo loro la titolarità dei “diritti”: non più nell’ottica biologico-razzista dei totalitarismi storici europei, ma nell’ottica di quel pensiero economico che – secondo un’illuminante intuizione di Walter Benjamin, sviluppata in più scritti dallo stesso Agamben – è diventato la fede del nostro tempo. Agli appelli razzisti del Terzo Reich («La rivoluzione nazional-socialista vuole fare appello alle forze che tendono all’esclusione dei fattori di degenerazione biologica e al mantenimento della salute ereditaria del popolo», scrisse nel 1942 l’Institut Allemand di Parigi in una pubblicazione intesa a divulgare i principi della politica eugenetica) fanno eco, nella nuova prospettiva economica, gli Stati Uniti che hanno chiamato America first il Federal Budget 2018 e i movimenti della destra xenofoba tedesca che dopo la caccia all’uomo per le strade di Chemnitz hanno argomentato «prendono i soldi e il lavoro che spettano a noi».
Nella Germania di Weimar, con le fasce più deboli ridotte allo stremo, la biopolitica si volse in tanatopolitica in un orizzonte dominato dalla serie biologia-popolo-destino: discriminando ed esponendo alla morte una minoranza “razziale”. In Italia e negli Stati Uniti, in Ungheria, in Austria, nella ex Germania Est non avrebbe molto senso parlare oggi di popolazioni “allo stremo” (anche se alcuni quartieri di San Diego, vicino al confine con il Messico, sono baraccopoli a cielo aperto). Però – come recentemente segnalato da Annamaria Rivera su questa stessa rivista – il contesto attuale ricorda da vicino quello descritto da Walter Laquer nel suo La Repubblica di Weimar: la paura della proletarizzazione da parte dei ceti medi, alta disoccupazione, calo dei salari e dei sussidi statali, scarse prospettive occupazionali per i laureati. A cambiare è l’operatore tanatopolitico: ciò che rovescia la gestione della vita in abbandono alla morte e che giustifica (rende giusto, plausibile) il disconoscimento dei diritti. “Umano”, da noi, è ciò che ha potere d’acquisto e partecipa al mercato: e in questo senso la pubblicità ubiqua e incessante ha lo stesso valore propagandistico dei documentari fascisti. In un orizzonte dominato dal culto del PIL sembra accadere quanto Rosi Braidotti descrisse in Soggetti nomadi già nel 1994: «tutti uniti nelle nostre rispettive differenze purché la nostra valuta sia la stessa, il nostro standard di vita sia comparabile e i nostri abiti di design, naturalmente, siano made in Italy (anche se prodotti in stabilimenti delocalizzati)».

- Stefano Jorio - Pubblicato su MicroMega - Il rasoio di Occam, il 16 ottobre 2018 -

libro

Tre domande a Giorgio Agamben sull'edizione integrale di Homo sacer

Oggi esce in libreria il volume Homo sacer. Edizione integrale, che raccoglie i nove volumi del tuo lavoro ventennale. Ci potresti dire qual è il carattere unitario di questa serie? In che senso questi libri, così diversi per argomento, formano un libro solo?

Mentre scrivevo i nove libri, sapevo che ciascuno di essi era parte di un’unica ricerca, qualcosa come una tessera nell’archeologia della politica occidentale di cui alla fine del primo volume avevo intravisto il programma, che si è andato poi precisando man mano che procedevo nell’indagine. Questo non significa che si tratti di un’opera esaustiva e compiuta una volta per tutte. Ogni opera filosofica – ma forse ogni opera – è sempre un frammento, è sempre incompleta o più che completa. In una genealogia come quella qui intrapresa, che potrebbe continuare all’infinito, la compiutezza – o l’apparenza di compiutezza – dipende da fattori architettonici e stilistici e al limite musicali. Come Benjamin ricordava, l’ultimo livello nella composizione di un’opera non è quello concettuale, è piuttosto di ordine musicale. Solo in questo senso posso considerare l’opera come compiuta.

Nella quarta di copertina si legge che in questa edizione «sono stati restituiti i titoli del progetto originale e sono state inserite le integrazioni – come la lunga nota sul concetto di guerra – e le correzioni volute dall’autore».

Come si diceva una volta, si tratta di un’edizione «definitiva, aumentata e corretta».
Le quindici pagine sulla guerra, in cui mi pare di aver in qualche modo smascherato il dispositivo schmittiano amico-nemico, sono un’integrazione importante al libro sulla guerra civile. Lo stesso vale per la pagina aggiunta alla fine de L’uso dei corpi. Ed è giusto menzionare anche il lavoro importante fatto questa volta non da me, ma dall’editore (nella persona di Diego Ianiro) sulla bibliografia, che ha unificato e verificato i quasi 1400 titoli citati nella ricerca. In questo senso, l’edizione integrale italiana è superiore a quelle inglese e francese, da poco pubblicate, e dovrebbe essere presa a modello di ogni futura riedizione anche dei singoli volumi.

Il lavoro storico e filologico, che è alla base del progetto Homo sacer, ha nella tua ricerca un senso prettamente filosofico. Ce lo puoi spiegare? Che cos’è l’archeologia?

Io credo che non abbia senso distinguere nella mia ricerca l’analisi filosofica da quella archeologica. Una ricerca filosofica che non abbia la forma di un’archeologia rischia di scadere nella chiacchiera. Se uno dei compiti del pensiero è quello di farci comprendere il presente, esso può farlo solo, come suggeriva Foucault, inseguendo le ombre che l’interrogazione del presente proietta nel passato. L’archeologia è in questo senso l’unica via di accesso al presente e io ho sempre preso sul serio la battuta di Flaiano: «Faccio progetti solo per il passato». Tutto Homo sacer non è che uno sconfinato progetto per il passato dell’Occidente: una profezia rivolta al passato, com’è stato detto di ogni vera ricerca storica.

fonte: Quodlibet

martedì 30 ottobre 2018

La città … analitica…

analitica

« Per poter scrivere un solo verso, devi aver visto molte città... », così Rilke, nel 1910, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, consigliava di fare. Ma, ultimamente, la storia urbana ha dovuto patire troppe vicissitudini per riuscire a continuare ad ispirare versi. La periferia delle città è cresciuta in maniera brutale ed incontrollata, e i centri storici, nel frattempo, subiscono la sterile cerimonia della loro stessa contemplazione.
... Un'analisi urbana dovrebbe far sì che si possa leggere, nella città - insieme alla sua continuità spaziale, e alla presenza di fatti singolari - la sua propria continuità temporale. Ciò che è importante concettualizzare, sono i "fatti urbani"; termine che deve sostituire quello dei "fenomeni urbani". Il Fatto Urbano (inteso come forma organizzata nello spazio e nel tempo), a causa e a partire dalla sua permanenza, può perfino arrivare ad essere considerato un oggetto artistico. ...Senza dimenticare l'avvertimento di Juan José Lahuerta, secondo il quale « la città (...) sa anche vendicarsi dei suoi abitanti».

 (fonte: Taccuino delle letture impostate[per organizzare il pessimismo])

lunedì 29 ottobre 2018

Oggi e ieri

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Note sul fascismo, di ieri e di oggi
- di Maurilio L. Botelho -

«Chi non vuole parlare di capitalismo deve anche tacere sul fascismo.» (Max Horkheimer)

- 1 - È passato quasi un secolo, da quando il fascismo è apparso in quanto conseguenza della crisi del liberalismo classico. Molti sostengono che l'avanzata dell'autoritarismo, in tutto il mondo, sia oggi una risposta alla crisi del neoliberismo. Questa affermazione ha bisogno di essere criticata, nel senso che il suo nucleo di esattezza dev'essere portato in superficie. A partire dalla catastrofe finanziaria del 2008, il neoliberismo come opzione politica si è visto indebolito su tutti i fronti, nonostante il fatto che i suoi corrispondenti strumenti economici si trovino nelle mani dei suoi detrattori. L'immagine che il neoliberismo ha dato di sé stesso, come restrizione dell'apparato statale, non è reale. Fin dall'inizio, l'aumento delle spese finanziarie statali, insieme ad un crescente apparato repressivo, sono state le caratteristiche di quella che si è auto-definita come ideologia dello "Stato minimo". Perciò, il declassamento ideologico del neoliberismo non è incompatibile con la sua continuità pratica, ma nasce da una necessità strutturale. Più che una variante dello spettro politico, o un'opzione nel menu delle teorie economiche, il neoliberismo è la forma politica propria dello Stato nella corrosione della crisi. Questo gli conferisce un carattere che lo pone al di sopra dei partiti - chiunque arrivi al potere, gli deve obbedienza. La valutazione di un cambio di prospettiva nel panorama politico deve tener conto di una tale dimensione: l'autoritarismo in ascesa è una conseguenza politica della crisi strutturale del capitalismo, la quale - dopo aver coinvolto la periferia del mondo e i paesi dell'ex blocco socialista - da un decennio ha raggiunto il nucleo del capitalismo. Il neofascismo contemporaneo è un brutale tentativo di dirigere l'attuale decomposizione sociale, e per far questo deve assumere un'anima neoliberista, anche se questo implica delle incongruenze politiche.

- 2 - L'ascesa del fascismo in Europa, a partire dal decennio del '20, fu un'esigenza del capitalismo nella sua maturità storica. Il fascismo nacque e si rafforzò, non solo in quanto risposta alla prima guerra mondiale, ma anche alla crisi del 1929 e all'alto grado di monopolizzazione della produzione. La direzione ed il controllo statale della direzione economica appariva come una necessità al sostegno della propria economia di mercato, la quale correva il rischio di sgretolarsi in seguito all'accumularsi delle contraddizioni, principalmente quelle dovute alla gigantesca sovrapproduzione innescata dalla produzione in serie. Il modo in cui contenere lo smantellamento fu la direzione statale dell'economia, che passava così ad «essere amministrata dallo Stato per l'iniziativa privata» [*1]. Solo l'inquadramento delle forze sociali in una "cornice totalitaria" avrebbe potuto contenere l'implosione sociale derivante dalla sovraccumulazione raggiunta dai principali settori economici, molti dei quali cartellizzati. La barbarie del collasso venne evitata grazie alla barbarie di un'economia di guerra gestita industrialmente.
Nel decennio 1930, l'incapacità del capitale di trovare un nuovo equilibrio attraverso la pulizia del terreno della propria crisi divenne evidente, perciò il «sistema capitalista venne sollevato dalla stagnazione solo attraverso la corsa agli armamenti forzata contro le potenze mondiali, da parte del fascismo tedesco, in preparazione della guerra mondiale» [*2]. Lo stesso impeto imperialista, radicalizzato, del fascismo, che chiedeva una risposta dalle altre potenze, aveva obbligato il mondi ad una quasi statalizzazione di interi settori dell'economia, creando il famoso complesso industriale-militare che sarebbe diventato una caratteristica permanente del "mondo libero", anche dopo la sconfitta del nazismo. In un certo qual modo, il resto del mondo venne esentato da una regressione fascista perché la risposta che a tale regressione era stata data, aveva indirizzato le risorse eccedenti - era stata la stessa guerra ad aver permesso la distruzione della capacità produttiva, cosa che aveva restaurato la possibilità di una nuova prosperità. Perciò, il pericolo totalitario soggiacente all'economia capitalista avanzata venne contenuto democraticamente dall'economia di guerra permanente. Il Dottor Stranamore di Peter Sellers - Stanley Kubrick è la manifestazione ironica di una tale identità di fondo fra la democrazia occidentale ed il fascismo [*3].
I problemi del capitalismo maturo divennero insolubili, le sue contraddizioni non potevano essere gestite, nemmeno dalla buona volontà dello Stato - il New Deal, con il suo fronte pubblico del lavoro, rimase un fiasco fino allo scoppiare della guerra. L'unico modo di congelare storicamente questa formazione sociale era quello di deviare una parte delle sue forze produttive verso la distruzione, o verso l'inutilizzo militare. Secondo le precise parole di Theodor Adorno, nei regimi fascisti «si era stabilizzata la forma economica obsoleta e si era moltiplicato l'orrore che gli è necessario per poter conservarsi, ora che la sua mancanza di senso si è apertamente rivelata» [*4]. Il fascismo è il solo modo in cui - perso il senso storico, scomparso il "presupposto economico" - pure così vengono conservate le «forme borghesi di esistenza», ma viene conservato anche lo Stato e la «forma della famiglia ormai da molto tempo superata» [*5].

- 3 - Quasi cento anni dopo, il neofascismo emerge nel contesto di una crisi diffusa, a partire dal fatto che il ciclo di ricostruzione e prosperità del dopoguerra si è esaurito. Sebbene in questo periodo di decomposizione mondiale ci sia una "epidemia di guerre" (Hobsbawm), non c'è niente, della grandezza del grande conflitto contro il fascismo, che potrebbe servire all'eliminazione degli eccessi dovuti alla sovraccumulazione permanente, ora approfonditasi con la produzione microelettronica. Il dilemma è ben noto: qualsiasi guerra di grande intensità, minacciando le forze distruttive disponibili oggi, rappresenterebbe la fine dell'umanità.
Diverso anche rispetto al decennio degli anni '30, oggi non c'è un modello socialista alternativo e, perciò, l'autoritarismo di oggi si presenta come una sfida più timida; si deve optare per la lenta disintegrazione dell'economia di mercato, scossa regolarmente dalle convulsioni dovute alla discontinuità del capitale fittizio, oppure accelerare lo sterminio dell'eccedenza sociale. Presentare razionalmente quest'ultima alternativa non è un compito facile, e in questo modo il neofascismo fabbrica nemici da tutte le parti, finanche allo spauracchio del "comunismo internazionale", per poter giustificare un'accelerazione diretta all'epurazione sociale. Se le teorie cospirazioniste erano già assurde cento anni fa, anche con la presenza della minaccia reale del socialismo, oggi sono come pura follia per una parte di quella che viene chiamata "opinione pubblica". Ma questo rifiuto non deriva da principi elevati divergenti: il neofascismo in ascesa ha l'inconveniente di far precipitare quello che è stato già realizzato dai meccanismi antisociali del mercato, perciò ha bisogno di affermarsi insieme a, e non contro, l'ideologia liberale. Il neofascismo è una combinazione, apparentemente insolita, di dirigismo statale repressivo e di disintegrazione dei meccanismi statali di protezione, il tutto visto come tentativo di amministrare la crisi strutturale del capitalismo.
Le due cavità che sono presenti nel cuore neoliberista si trovano anche nel petto del neofascismo. Da un lato, la preoccupazione di continuare a foraggiare i mercati finanziari con capitale fittizio, usando un volume che solo lo Stato può essere in grado di offrire, e dall'altro, spingere e portare fino alle ultime conseguenze la dissoluzione di ogni garanzia sociale, facendo sì che ogni individuo sia responsabile della propria sopravvivenza. La novità rispetto al convenzionale programma omicida dei fondamentalisti del mercato, consiste in una dichiarata militarizzazione della vita quotidiana e l'annuncio ufficiale di una politica razziale di eliminazione degli strati improduttivi della società - una tendenza in fondo già in atto nella società, ma ora trasformata apertamente in un programma politico [*6]. Non è sufficiente che l'individuo incapace di sopravvivere per sua propria iniziativa venga socialmente dislocato secondo quel che è il darwinismo oggettivato del mercato - la proposta è che venga anche isolato dal convivio sociale ed eliminato senza esitazioni dalle forze statali.
Questa riconciliazione del dirigismo statale della società alla totale obbedienza alle coercizioni del mercato - una marcata differenza rispetto alle pretese del fascismo classico, che cercava di controllare l'economia, o di interdire la «subordinazione della vita all'economia» [*7] - non manca di produrre un'infinità di incoerenze. Il neofascismo alterna ai discorsi di liberazione delle iniziative il controllo morale; fa appello all'etica del lavoro, ma disprezza qualsiasi compromesso con la protezione sociale; coniuga il patriottismo nelle espressioni politiche con l'assoggettamento ai mercati internazionali; controlla le frontiere al fine di contenere la popolazione obsoleta e vuole la fine di qualsiasi restrizione nazionale al movimento monetario; persegue violentemente la corruzione, ma tollera la dissipazione nei propri ranghi; uno Stato forte che sia in grado di offrire una soluzione a tutti i problemi sociali, ma allo stesso tempo anche una riduzione del carico fiscale e della burocrazia, Queste contraddizioni non sono sintomi solamente di una confusione programmatica o di carenza di criteri politici, ma proprio di quella che è la disfunzionalità del capitalismo avanzato, che viene sempre più divorato da una malattia autoimmune che fa del neofascismo uno dei suoi principali sintomi. La vittoria elettorale di questo programma configurerebbe un livello di devastazione sociale ancora più alto, in quanto le sue uniche linee guida chiare sono la selezione razziale attuata dallo Stato ed il comando militare della società.

- 4 - Nel fascismo classico, l'appello alla collettività della nazione o alla comunità razziale era un contrappunto all'atomizzazione provocata da una progressiva mercificazione della vita sociale. La regolazione diretta di quelle che erano gli inconvenienti conseguenza del consumo fordista rappresentava, allo stesso tempo, una rivolta tutelata ed un adeguamento sociale ad una simile realtà - qui appare di nuovo la continuità fra fascismo e democrazia, dal momento che l'industria culturale diventava matura, e il controllo sociale sul mercato di massa dispensava l'orientamento del Führer.
Al giorno d'oggi, l'atomizzazione elettronica è stata innalzata fino al limite del desiderio di annichilimento dell'altro con mezzi virtuali - lo sviluppo della tecnologia di comunicazione non ha creato i mezzi per conciliare le differenze, bensì ha alimentato la fredda reciproca indifferenza [*8]. Sotto questo aspetto, le basi di un cambiamento tecnologico stanno rafforzando le pulsioni autoritarie dei soggetti atomizzati, senza che sia disponibile un ambiente sociale regolatore per contenere una simili animosità sistematica. Pertanto, si fa un appello anacronistico alla nazione, quando ormai non esiste qualcosa che corrisponda oggettivamente ad un simile concetto. Il nazionalismo economico fascista ha avuto le sue basi nella dissoluzione del liberalismo e nel rafforzamento delle grandi strutture industriali concentrate in maniera orizzontale. Oggi, il patriottismo è una mera bravata nei confronti della diffusione trans-frontaliera delle catene di produzione, e della complessità finanziaria connessa a livello globale, nei confronti delle quali l'appello alla comunità nazionale serve solamente come frode politico-ideologica screditata dalla stessa austerità economica che l'accompagna.
Tutto questo rende attuale la tesi adottata dalla Scuola di Francoforte, successivamente limitata alle analisi del fascismo: il nucleo del fascismo risiede nell'associazione di una claque violenta intesa come élite corporativa la quale, unendo potere politico ed economico, spoglia la società dopo aver assunto il totale controllo dello Stato.
L'appello nazionale o l'enfasi razziale che viene fatta dai leader autoritari odierni riceve un forte sostegno dagli strati inferiori e dalla "classe media" bianca, soprattutto nella riproduzione quasi liturgica di un'etica del lavoro che viene rabbiosamente rivolta contro gli improduttivi della società, o contro i privilegi di determinati segmenti statali. Perciò, nel bel mezzo di quella che è un'esplosione di incoerenze oggettive, non è possibile «escludere che ci sia una certa affinità fra le mente dei loro oratori e la presunta confusione cerebrale degli ascoltatori» [*9]. Tuttavia, a causa dei legami politici ed economici di fondo, così come a causa del fondamentalismo neoliberista professati nei loro programmi, questi leader si organizzano in fazioni che cercano di saccheggiare lo Stato in crisi e socializzare i costi della manutenzione finanziaria delle corporazioni produttive e degli investitoti finanziari. La proposta, da parte di un'equipe economica di un candidato neofascista, di liquidare in un anno tutti i beni dello Stato è l'esempio evidente di una tale politica di saccheggio. Ciò non depone contro l'identificazione fra la massa degli eletti ed il loro "leader", poiché essi farebbero altrettanto man bassa della macchina statale in rovina, se ne avessero l'opportunità. Ma questo rivela ancora una differenza rispetto all'era di massificazione fordista, quando le base politiche si organizzavano in partiti di massa ed in brigate paramilitari. La militanza virtuale e le manifestazioni nei week-end per fini elettorali continuano ad essere qualcosa di diverso da una «mobilitazione permanente» per il conflitto [*10].

- 5 - Il fascismo era caratterizzato da un'ideologia di "classe media" rovinata che si era trasformata in un'organizzazione di massa, che aveva irreggimentato disoccupati ed esclusi nella medesima "comunità razziale". Anche per quel che riguarda oggi, i diffusi risentimenti delle classi medie insoddisfatte, con il loro declino economico, sono stati diretti contro coloro che dipendono dall'assistenza sociale e contro lo "Stato corrotto". Tuttavia, Una simile animosità ha finito per estendersi alle grandi corporazioni, soprattutto a partire dalla strumentalizzazione della rabbia fatta dalla magistratura e da tutto il settore giudiziario. Il completo abbandono della legalità giuridica - un processo ormai sperimentato da tempo nei settori degradati che hanno a che fare con la criminalità, con la povertà urbana e con i dissidenti politici - ora viene abbracciato sistematicamente dalla "classe media"  e dalle élite economiche, di fronte al carattere disfunzionale che è stato assunto dai conflitti politici interni allo Stato. Una parte significativa della società è incline, a livello elettorale, a soluzioni autoritarie, abbandonando il politico che professava un mero radicalismo civile di mercato.
Il declino economico degli strati sociali medi si approfondisce. L'obiettivo di questi settori non è mai stato quello di dissolvere la struttura economica stabilita, ma semplicemente quello di partecipare alla prosperità delle grandi corporazioni, che vengono invidiate per i loro legami politico-finanziari con la struttura statale. Per questo, la combinazione programmatica dell'austerità economica insieme alla salvezza della grandi corporazioni può solo sfociare in una liquidazione delle masse precariamente assistite dalla previdenza statale. Dell'odio diffuso di ieri rimane solo il bersaglio sociale, e razzialmente contrassegnato, di oggi - i «rifiuti del mercato» (Wacquant).
Contro un simile odio razziale ed una politica orientata moralmente, l'attuale movimento antifascista fa appello ad una moralità diversa , vista come se fosse il criterio principale per affrontare le questioni politiche e sociali. Secondo quella che è la formulazione di moda, «la nostra differenza è morale». Qui vediamo che non stiamo vivendo in una mera riconfigurazione ideologica, ma in una mutazione epocale che avvolge noi tutti, dal momento che una caratteristica del processo di democratizzazione era quella di mantenere separate le questioni del diritto rispetto alle questioni di moralità (qualcosa che è sempre difficile in un'economia periferica, ma che viene assunto formalmente grazie alla "Costituzione dei Cittadini"). Contrastare il razzismo ed il sessismo neofascista per mezzo di criteri morali più elevati significa imbarcarsi nell'implosione della sfera pubblica basata sui compromessi sociali del dopoguerra che ancora tengono in piedi il mondo democratico.
Diversamente da un momento in cui il razzismo si celava dietro un'azione dissimulata contro il "crimine", oggi gli argomenti morali razziali escludenti vengono dichiarati apertamente. Nel caso di dichiarazioni neofasciste contro le donne, è dimostrato che la crisi di questa società si manifesta anche come «inselvaggimento del patriarcato produttore di merci» (Roswitha Scholz). C'è qui un punto di somiglianza con l'irruzione nazifascista, poiché «la separazione fra legge e morale, un assioma del periodo del capitalismo competitivo, è stata sostituita da una convinzione morale immediatamente derivata dalla "coscienza del popolo"» [*11], vale a dire, determinata secondo criteri razziali. Di fronte ad una simile brutalità, fare uso di un argomento morale significa mettersi a gridare contro la durezza delle pietre. In una società in rovina, la moralità egualitaria vale quanto la moralità autoritaria, e questo è diventato chiaro quando la Corte Suprema ha respinto la denuncia di razzismo nei confronti dei sondaggi elettorali. Una volta che è stato rimosso il carattere illegale di un giudizio determinato dalla morale razziale, questa morale finisce per avere altrettanto peso, in una situazione eccezionale, quanto l'altra - e fra le due morali divergenti vince quella che ha maggior forza, non la più civilizzata.

- 6 - Il pericolo del collasso sociale in uno Stato che può perseguitare legalmente non si pone in una contesa elettorale, in quanto essa viene storicamente alimentata dal punitivismo orientato da criteri sociali e razziali. Qui, come nella Germania degli anni '30, diverse volte è stato annunciato uno «stato di guerra contro il mondo del crimine», cosa che rafforzato, con l'aiuto dei canali istituzionali, il messaggio neofascista di ritorsione nei confronti dei "vagabondi" e dei "delinquenti" [*12]. Sotto la pressione di una violenza crescente che mette a rischio il suo patrimonio, da un lato, e dalla disintegrazione del mercato del lavoro, dall'altro lato, c'è un sostegno progressivo sempre più crescente nei confronti di coloro che propongono apertamente l'odio sociale con connotazione razzista, poiché la «classe media deve capire che la riduzione delle garanzie sociali è una conseguenza necessaria al mantenimento della sua posizione sociale» [*13].
L'impasse che viviamo sta nel fatto che questa pulsione autoritaria è diventate un elemento intrinseco al capitalismo in crisi. Perciò, una sconfitta elettorale è solo un'attenuazione delle forze autodistruttive. Le altre opzioni elettorali "praticabili" continuano a presentare in maniera più chiara quella che è la faccia industriale-militare dell'amministrazione statalista della crisi capitalista, o le convenzionali proposte neoliberiste. Si tratta di un posticipo della "soluzione" autoritaria attraverso delle politiche che alimentano per via indiretta il neofascismo, questa versione anabolizzata della disintegrazione sociale in corso. Prenderlo come se si trattasse di un'eccentricità significa ignorare che in esso si manifestano, amalgamati in maniera tesa, lo statalismo militarizzato ed il monetarismo, gli stessi che vengono professati isolatamente dalle altre forze politiche.
In questa situazione, l'unica possibilità critica - la consapevolezza che solo una critica radicale dell'insostenibile mondo della merce, del capitale e dello Stato può superare questa aporia - viene ostacolata in nome di compromessi politici d'occasione e nel nome della scuola provvisoria del "male minore". Bisogna evitare che la forza spesa per poter riprendere temporaneamente fiato consumi tutta la capacità di opposizione sociale che ha questa società.

- Maurilio L. Botelho - Pubblicato il 2 ottobre 2018 su Blog da Consequência

NOTE:

[*1] - Alfred Sohn-Rethel. A Economia Dual da Transição. In: Processo de trabalho e estratégias de classe. Rio de Janeiro: Zahar, 1982, p. 67.
[*2] - Alfred Sohn-Rethel. The Economy and Class Structure of German Fascism. London: Free Association Books, 1987, p. 89.
[*3] - Nella prefazione all'edizione tedesca della Teoria Generale, pubblicata nel 1936, già durante l'ascesa nazista, Keynes sottolinea che l'idea centrale del suo libro, sebbene prodotta in ambito anglosassone, «sarebbe molto più facilmente adattabile alle condizioni di uno Stato totalitario»  (John Maynard Keynes. A teoria geral do emprego, do juro e da moeda. São Paulo: Nova Cultura, 1996, p. 6).
[*4] - Theodor Adorno. Minima Moralia: reflexões sobre a vida danificada. São Paulo: Ática, 1993,p. 27.
[*5] - Adorno - Minima Moralia, p.27.
[*6] - L'attuale presidente della Camera degli Stati Uniti, Paul Ryan, repubblicano e sostenitore convinto di Donald Trump, attacca frequentemente gli improduttivi in America, in particolare gli anziani, mentre taglia le tasse alle élite. Nel 2012, il candidato alla presidenza Mitt Romney ha dichiarato che il 47% degli americani non pagano tasse ma ritengono di avere diritto alla salute, al cibo e all'alloggio. È diventato comune l'uso di espressioni come "useless eaters" (consumatori inutili) per i "dipendenti del governo", derivata da unnütze esser, la formulazione nazista usata per invalidi ed ebrei.
[*7] - Secondo un presidente del comitato economico del Partito Nazionalsocialista Tedesco, Bernhard Köhler, «fin dall'inizio, il nazionalsocialismo è stata una ribellione dei sentimenti vivi del popolo contro il fatto che la vita, per l'esistenza materiale, era governata dall'economia» (citato da Franz Neumann: Behemot - Pensiero e azione nel nazionalsocialismo. México: Fondo de Cultura Económica, 1983, p. 264-265).
[*8] - «La comunicazione si occupa degli uomini isolandoli» (Theodor Adorno e Max Horkheimer. Dialettica dell'Illuminismo).
[*9] - Theodor Adorno. La técnica picológica de las alcocuciones radiofónicas de Martin Luther Thomas. In: Escritos Sociológicos II, vol. 1. Madrid: Akal, 2008, p. 39.
[*10] - L'integrazione dei militanti nelle organizzazioni politiche neofasciste è un fatto, ma questa sembra indicare una tendenza diversa rispetto al fascismo classico, volto a stabilirsi come organizzazione partitica di massa. Questa forma di organizzazione militare para-mafiosa è per sua natura finalizzata alla rapina nelle aree urbane decadenti, e non alla loro mobilitazione politica diretta. Il coinvolgimento delle forze militari in questa campagna rivela anche un'altra differenza con le origini del fascismo, che prima si organizzava para-militarmente per poi stabilirsi in seno allo Stato. Evidentemente, tutto questo programma, per le sue stesse contraddizioni, tende a fallire nel raggiungere il governo. Lo Stato neoliberista amplia l'apparato repressivo-militare nella stessa misura in cui rende precarie le sue forze: l'uso abbondante della polizia e dei militari sottopagati, in contrasto con l'alta tecnologia di sicurezza disponibile, è parte della logica dell'eliminazione delle eccedenze sociali. Potrebbe essere più plausibile attivare la guerra civile diffusa in corso piuttosto che la distopia del controllo sociale totale.
[*11] - Kirchheimer, Otto; Rusche, Georg. Punição e estrutura social. Rio de Janeiro: Freitas Bastos, 1999, p. 244.
[*12] - Negli Stati Uniti, la «guerra alla droga» è nata come risposta al movimento dei diritti civili e alle conquiste del movimento nero degli anni '60. Venne abbracciata immediatamente dalla classe media poiché la crisi economica e la disoccupazione di massa aveva innescato la concorrenza per i posti di lavoro malpagati che erano prima destinati ai neri. (Alexander, Michelle. A nova segregação: racismo e encarceramento em massa. São Paulo: Boitempo, 2018.Alexander , p. 91).
[*13]- Kirchheimer e Rusche, Punição e estrutura social, p. 247.


fonte: Blog da Consequência

domenica 28 ottobre 2018

La casa è in fiamme

BolsonaroPerché Bolsonaro? A proposito dell'estrema destra in Brasile
- di Joelton Nascimento
-

«Riusciremo a fare qualcosa oltre a confermare l'inettitudine dell'America cattolica, che avrà sempre bisogno di tiranni?»
- Caetano Veloso, Podres Poderes (1984) -

- 1 - L'attuale crisi è una crisi di quelle che sono le basi fondanti le economie capitaliste [*1]. La crisi non è cominciata nel 2007-2008, bensì è emersa allora, proprio come ci viene mostrato dal discorso, e si è poi offuscata, per poi tornare a rimanere nascosta facendo sfoggio delle sue conseguenze immediata. La crisi insiste ad apparire come se fosse solo uno scompiglio provvisorio della relazione che intercorre fra la finanza ed il settore produttivo del capitalismo, il quale possa poi essere riorganizzato per dare continuità ad un modello di crescita economica sostenibile. Intesa in questo modo, la crisi attuale del capitalismo non è né diretta né di sinistra. È solo lo sfondo dove si rendono possibili discorsi e pratiche, cui possiamo attribuire l'etichetta di sinistra o di destra, rispetto alle quali possiamo agire o reagire, facendo parte di governi in cui possiamo essere, o meno, a capo degli Stati.

- 2 - È per questo motivo che, nelle economie capitaliste, una grave crisi economica tende ad innescare una contestazione popolare del governo dello Stato, nel momento in cui scoppia la crisi, sia che il governo possa essere di destra o di sinistra. In Irlanda, il partito di centro destra Fianna Fáil è stato sconfitto dopo essere stato al potere per decenni, in Lettonia, la coalizione conservatrice che sosteneva il primo ministro Ivars Godmanis, con la crisi, è naufragata in maniera fragorosa. Ma in America Latina, d'altra parte, ad essere stati colpiti nel momento della crisi, sono stati i governi di sinistra, e proprio per questo, da allora, sono stati contestati duramente. Il peronismo Kirchenerista argentino è stato sconfitto alle elezioni dopo essere stato per dodici anni al governo, e anche il suo successore, più liberale, non è stato in grado di fare molto al di là della continuità della crisi, essendo stato anch'esso fortemente contestato. Negli ultimi giorni, saccheggi e scioperi generali, fanno parte del notiziario politico dell'America Latina, in special modo di quello argentino e venezuelano, mostrando chiaramente come l'attuale crisi capitalista ha colpito il continente in maniera tale che le tradizionali ricette di sinistra o di destra non sono in grado di fronteggiarla.

- 3 - Come giustamente dice il filosofo italiano Giorgio Agamben, «... solo quando la casa è in fiamme, diventa visibile per la prima volta quello che è il problema architettonico fondamentale» ["2]. Lo Stato capitalista, da molto tempo sottoposto a lunghe e gravi crisi non riesce più ad offrire nient'altro se non quella che è la sua funzione elementare: garantire l'ordine attraverso la violenza.

- 4 - La garanzia della legge e dell'ordine, è il grido dello Stato capitalista in crisi, anche se tale garanzia viene attuata contro la legge e in mezzo al disordine. Un simile paradosso si presenta chiaramente nella formula agambeniana della forza di legge (ovvero, nella forza di legge senza legge) [*3]. Lo Stato moderno, di fronte ad una crisi capitalista grave e profonda, tende a ritornare a quello che è il suo fondamento auto-costitutivo: la garanzia della stabilità attraverso la violenza. Che si sappia, nessun altro ha espresso meglio e più sinteticamente di Anselm Jappe questa tendenza dello Stato: «lo Stato può prendersi cura, o meno, del benessere dei suoi cittadini; può regolare la vita economica, oppure può non farlo; può stare apertamente al servizio di un piccolo gruppo, o al servizio di un solo individuo, oppure, al contrario, pretendere di servire l'interesse comune: niente di tutto ciò è essenziale. Ma uno Stato senza degli uomini armati che difendono dall'esterno, e che salvaguardano, "l'ordine" interno non è uno Stato. Su questo punto, possiamo dare ragione sia a Hobbes che a Carl Schmitt: la possibilità di amministrare la morte rimane il perno di tutta la costruzione statale» [*4].

- 5 - Ma se tutto questo è vero da tempo, in che cosa consiste la novità dell'ascesa dell'estrema destra brasiliana, ricostituitasi intorno al militare in pensione Jair Bolsonaro, attuale leader di quelle che sono le intenzioni di voto alla presidenza della repubblica? Una delle novità è costituita dalla genialata che attua al fine di garantire la legge e l'ordine: se da un lato, lo Stato brasiliano è già di suo il terzo paese più incarcerato del mondo [*5], ecco che in Brasile si rende necessario condividere la violenza sovrana con alcuni "privati". Non a caso, una delle principali caratteristiche dell'estrema destra consiste nell'abrogazione dello statuto del disarmo, e nel diminuire i criteri per l'acquisto e la circolazione delle armi da fuoco.

- 6 - A prima vista, dire che la violenza statale e la sua condivisione facciano parte dello stesso movimento, può sembrare un'incongruenza. Tuttavia, come dice Jappe, «il rafforzamento del monopolio della violenza da parte dello Stato, ed il suo trasferimento a dei privati non si trovano in contraddizione: la violenza è il nucleo dello Stato, e lo è sempre stata. In questi tempi di crisi, lo Stato si trasforma nuovamente in ciò che era storicamente, ai suoi primordi: una banda armata. In numerose regioni del mondo, le milizie si convertono in polizie "regolari", e le polizie si convertono in milizie ed in bande armate» [*6].

- 7 - Nei trent'anni in cui il deputato Jair Bolsonaro ha esercitato il suo mandato in parlamento, egli si è mantenuto sostanzialmente al servizio dello spirito di corpo di quella che in termini di brutalità è una delle polizie più eccessive del mondo. Non l'ha difesa come se si trattasse di un insieme di funzionari pubblici e di lavoratori, ma in qualità di esecutori di uno «sporco lavoro», che consiste nel ripulire costantemente il paese dalla sua ampia emarginazione. Per decenni, il discorso di Bolsonaro è stato pronunciato e tollerato da molti, e combattuto solo moralmente e giuridicamente da alcuni: si tratta del discorso della polizia che ha la necessità di poter fare il proprio lavoro, e mantenere la stabilità attraverso la violenza eccezionale, e che, fra gli altri, ha trovato un ostacolo negli attivisti dei diritti umani, nei religiosi caritatevoli e in dei militanti di sinistra "idealisti". Traccia di questi discorsi possiamo chiaramente trovarle, per esempio, nel cosiddetto Massacro di Carandiru, nel 1992, quando 111 detenuti vennero assassinati durante una rivolta carceraria. Il colonnello che comandò il massacro era Ubiratã Guimarães, e nonostante sia stato condannato in prima istanza, nel 2001, è stato eletto deputato per lo Stato di São Paulo, e poi assolto nel 2002. Se non fosse stato assassinato nel 2006, forse oggi ad essere il leader sarebbe Guimarães, e non Bolsonaro. Nel 2016, sono stati annullati tutti i processi in cui erano coinvolti gli appartenenti alle forze di polizia, e nessuno di loro è stato punito [*7]. Lo spazio di sterminio, che si era aperto a Carandiru, si è successivamente chiuso, in quanto ciò che si rafforza costantemente è la concretezza di un'economia capitalista in crisi permanente, e il fatto che la società brasiliana abbia tollerato, ed abbia offerto una critica solamente morale e/o giuridica, rispetto i discorsi e le pratiche di sterminio di vite umane ritenute indegne di vivere.

- 8 - Come ha già dimostrato negli ultimi decenni Maurilio Botelho, Rio de Janeiro è stato il laboratorio di un'economia militarizzata, dove la sicurezza patrimoniale e lo sterminio vengono stabiliti come se fossero gli zenit di una nuova era. Come concludono Botelho e Sardinha: «un recente reportage del quotidiano O Globo ha messo in evidenza l'ottimismo dell'associazione dei grossisti dello Stato di Rio, che celebrava l'importante riduzione del furto di merci. Se fosse stato intervistato qualche responsabile delle compagnie di assicurazione, anch'egli avrebbe dimostrato la sua soddisfazione per l'intervento militare, dal momento che negli ultimi anni in diversi distretti vicini a quello del Chapadão le domande di assicurare le automobili venivano sommariamente respinte. Il responsabile generale dell'intervento sosteneva che questo successo era dovuto ad un "incremento dell'attività poliziesca". Secondo tutte le indicazioni, l'indice dell'attività di polizia è proporzionale all'improduttività economica di crescenti porzioni della società» [*8].

- 9 - Quali sono queste «porzioni crescenti della società»? Rispondono gli autori stessi: « nel 2017, il 68% di tutte le vittime di omicidio nello Stato di Rio de Janeiro erano di colore scuro. Tuttavia, per dimostra quale sia il colore preferito nel mirino statale, tale percentuale, in caso di omicidi derivanti da un intervento militare, sale al 77%. Questo in uno Stato nel quale, secondo IBGE [N.d.T.: Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística], solo il 41% della popolazione è di colore scuro. La qualifica di "livello africano" dell'indice di sviluppo nelle favelas di Rio, porta alla luce non solo la mera metafora statistica, ma anche il nesso storico-strutturale della nostra socialità razzista. Nelle aree marginali della città, le persone di pelle scura delle baraccopoli sono "risorse umane superflue" (Rusche e Kirchheimer) che devono essere "bruciate"». La conclusione degli autori non potrebbe essere diversa: «il successo dell'intervento militare a Rio de Janeiro dev'essere valutato a seconda del modo in cui gli indesiderabili vengono eliminati a partire dalla loro presunta minaccia alla società di mercato. Solo così è possibile misurare il grado di violenza statale necessario a mantenere un mercato sempre più ristretto. Qualsiasi altro metro basto su dei principi elevati, è pura idealizzazione di fronte ad una società in rovina» [*9].

- 10 - L'estrema destra è l'unica ad affrontare senza idealizzazioni l'immenso lavoro sporco che l'economia capitalista in crisi terminale si trova davanti a sé: sottomettere, con le armi in pugno, la superfluità di massa delle popolazioni umane, che sono state espulse dalla società di imposizione del lavoro. La sua ascesa elettorale si deve soprattutto a questo. Allo slogan secondo il quale «chi non lavora, non deve mangiare» si somma quello per cui «con un po' di carbone, il mio primo falò» che tutt’e due insieme costituiscono le ragioni dell'adesione da parte dell'elettorato alle proposte dell'estrema destra: donne, neri, LGBT [N.d.T.: lesbiche, gay, bisessuali e transessuali], immigranti e indigeni diventano obiettivi privilegiati in una narrazione contraddittoria, in cui sono i meno in grado di lavorare e, allo stesso tempo, costituiscono una minaccia per quel che rimane delle possibilità occupazionali.

- 11 - Da parte sua, la sinistra elettorale, continua a nutrire puerili idealizzazioni, dove la principale di esse dice che l'unica cosa in grado di diminuire la quantità dei profitti dei banchieri sarebbe aumentare il guadagno ed il benessere del capitale produttivo, quello che inoltre apporterebbe «benessere per chi lavora». Nei dibattiti elettorali, si tratta, innanzitutto, di chi urla di più a proposito di «creare posti di lavoro e reddito». Non ci si rende conto che tutto questo alimenta l'idea secondo la quale che non lavora non deve nemmeno mangiare, se non grazie alla carità di qualche singolo o di qualche collettivo. È arrivato il momento in cui il discorso dello sterminio della superfluità del lavoro non può più essere contrapposto ai discorsi contro i ricchi che guadagnano senza lavorare. O distruggiamo la società basata sulla socializzazione attraverso il lavoro, tenendo conto di quali sono le difficoltà di un'uscita da quelli che sono dei modi secolari di vita, mediati dal lavoro e dal denaro; oppure in futuro assai prossimo verranno riaperti i campi di sterminio.

- Joelton Nascimento - Pubblicato il 5 ottobre 2018 su Blog da Consequência -

NOTE:

[*1] - Anselm Jappe - Le avventure della merce, Aracne, Roma, 2018
[*2] - Giorgio Agamben - L'uomo senza contenuto - Quodlibet
[*3] -  Giorgio Agamben - Stato di eccezione - Bollati Boringhieri
[*4] - Anselm Jappe - Credito a morte: la decomposizione del capitalismo e le voci critiche.
[*5] - https://www.cartacapital.com.br/sociedade/brasil-terceira-maior-populacao-carceraria-aprisiona-cada-vez-mais
[*6] - Anselm Jappe - Credito a morte: la decomposizione del capitalismo e le voci critiche.
[*7] - https://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Carandiru
[*8] - Maurilio Botelho. Guerra aos vagabundos. Disponibile su: https://blogdaboitempo.com.br/2018/03/12/guerra-aos-vagabundos-sobre-os-fundamentos-sociais-da-militarizacao-em-curso/ e Maurilio Botelho; Thiago Sardinha. O sucesso da intervenção militar. Segurança patrimonial e extermínio no Rio de Janeiro. Disponibile in: https://blogdaconsequencia.com/2018/08/24/o-sucesso-da-intervencao-militar-seguranca-patrimonial-e-exterminio-no-rio-de-janeiro/
[*9] - Maurilio Botelho; Thiago Sardinha. O sucesso da intervenção militar. Op. Cit

fonte: Blog da Consequência

La sintesi impossibile

deleuze_repetition

Gilles Deleuze è stato uno dei pensatori più importanti e influenti del XX secolo. Le sue opere, in particolare quelle sviluppate in collaborazione con lo psicoanalista Félix Guattari, s’incentrano sulla costruzione di una filosofia della differenza straordinariamente ricca di nuove suggestioni, capaci di restituire anche alla psicologia la vitalità necessaria a recuperare il senso della propria pratica.
Il libro si apre offrendo una visione complessiva del contributo filosofico di Deleuze, incluso il progetto condiviso con Guattari, all’emancipazione della psicologia dalla sfera del “familiare”, evidenziandone il potenziale rivoluzionario nell’ambito dell’etica e della politica, dell’impegno profondo a favore di una più alta dignità della condizione umana. Indaga quindi le possibilità di mettere alla prova queste idee nelle tre dimensioni fondamentali della psicologia: l’oggetto di studio, il metodo e le applicazioni cliniche.

(dal risvolto di copertina di: Maria Nichterlein e John R. Morss: Deleuze e la psicologia, Cortina Editore.)

Deleuze e la psicologia
- di Fabio Vergine -

Lo stupido è colui che fa della clausura della conoscenza la condizione normativa della propria vita, colui che ha eliminato dall’orizzonte del proprio sguardo il piacere dell’attesa, la creatività dell’istante ignoto, l’incertezza dell’esplorazione. Lo stupido è chi non esce dalla culla, chi non scioglie le cime del familismo, chi non osa considerare l’evento fulmineo che scompagina le regole, o l’inaspettato che spezza il fiato a tutte le cose troppo ordinate. Se ciò è vero, la psicologia è allora quella scienza che, a causa della propria timidezza, spregia qualsiasi possibilità di incontro con l’inatteso, non rinunciando, per ciò stesso, alla venefica tentazione di normalizzare l’impossibile.
Come gettare con profitto, dunque, i semi di una nuova psicologia, più audace e radicale? È l’interrogativo portante dell’opera di Maria Nichterlein e John R. Morss, Deleuze e la psicologia (Raffaello Cortina, Milano 2017). Per gli autori, l’abbozzo di una delle plausibili risposte risiede nell’affidamento alla filosofia, o più precisamente, al pensiero di quel filosofo contemporaneo che, malgrado abbia nutrito forti dissapori verso alcuni dei fondamenti psicologici e psicoanalitici relativi alla vita mentale della soggettività, consentirebbe alla stessa disciplina della psicologia di aprirsi alla potenza creatrice dell’evento inatteso: Gilles Deleuze.
La psicologia teme l’ignoto: è questo l’assioma scientemente iperbolico che sovente risuona nei diversi capitoli del libro. Ma v’è di più: se è vero, come sottolineano a più riprese gli autori, che la psicologia preferisce il pigro tepore della familiarità, dove ogni conseguenza logica è prevedibile – se non già prevista – in quanto normata, che cosa avrebbe allora da offrire la filosofia di Gilles Deleuze per condurre la disciplina psicologica fuori dal tinello familiare, in quel territorio aperto e senza confini nel quale è possibile scontrarsi con l’assoluta imprevedibilità di un evento dirompente? Seguendo per certi versi la fratellanza tematica che lega nella distanza le riflessioni di Deleuze e Guattari intorno alla proposta della schizoanalisi e quelle di Gregory Bateson in merito al tentativo di definire la natura sistemica dell’umano, il quadro che gli autori ci presentano è tale per cui sarebbe necessario, per la psicologia, spingersi coraggiosamente a una rivoluzionaria trasfigurazione della propria unità analitica di riferimento. Altrimenti detto, quella proposta da Nichterlein e Morss è principalmente una sollecitazione metodologica: votarsi a un empirismo rigoroso per vincere il rischio della timidezza.

Empirismo radicale: unitamente ad alcuni dei concetti fondamentali del pensiero di Deleuze, è proprio questa la formula attraverso la quale la psicologia, come sapientemente sottolineano Pietro Barbetta ed Enrico Valtellina nella loro introduzione al volume, può lottare per recuperare la ricchezza creativa dell’evento in ogni sua dimensione (ivi, p. XVI). In questo senso, ciò che Deleuze ha visto nel Maggio ’68 incarna a tutti gli effetti quella potenza sconvolgente di un reale puro o, per usare le puntuali parole di Nichterlein e Morss, quella potenza inaspettata dell’evento, che aprirebbero la strada a uno spazio di possibilità del tutto impreviste (ivi, p. 12). Ecco, dunque, che il contributo autenticamente politico alla formulazione di una “scienza deleuziana” della psicologia è ravvisabile nella vitalità impetuosa in cui l’evento ha luogo, esemplificato nel Maggio francese: per Deleuze l’evento è, come ricordano puntualmente gli autori, una possibilità concreta di cambiamento e di rinnovamento, una forza che incide l’ordine normativo e stabilito delle cose, la produzione immanente di un reale che si configuri come apertura di uno spazio virtuale in cui ogni possibile possa profilarsi. In tale prospettiva si tratta, allora, di recuperare quella forma radicalmente trascendentale di empirismo che Deleuze ha di fatto eretto a metodologia del proprio lavoro teoretico, rivalutando l’importanza di un contatto immediato con il mondo. Non esiste nulla al di fuori del tutto costituito dall’esperienza. L’esperienza è quel suo fuori assoluto, è quel tutto che non ha esteriorità alcuna, e che si sostiene da sé. Principio o limite trascendentale di sé stessa, come Deleuze già scriveva in Empirismo e soggettività, l’esperienza non presuppone alcunché.
L’empirismo trascendentale di Deleuze, fondato in quanto metodologia d’indagine – e al tempo stesso di costruzione – del reale medesimo, è ciò che consente di rovesciare e mettere in crisi l’edificio della metafisica occidentale e dei suoi più inveterati dualismi, a partire dal dualismo cartesiano, fino a quello di sapore fenomenologico che oppone il soggetto e l’oggetto. Quella di Deleuze è una filosofia profondamente anti-dialettica e non dualistica: uno dei concetti su cui Nichterlein e Morss fanno leva per sottolineare quest’aspetto della riflessione del pensatore francese è quello di concatenamento. Sottolineando a più riprese l’importanza del pensiero sistemico di Gregory Bateson per una più precisa definizione di quello che Deleuze e Guattari in Mille plateaux intendono con la nozione di agencement, infatti, gli autori fanno riferimento all’idea di concatenamento come a una creazione concettuale che eluda ogni forma di dualismo. Lungi dall’assimilarsi a individualità personali, il concatenamento rimanda all’idea di un sistema complesso, o più precisamente, a un tutto funzionante (ivi, p. 53).

Ma non è tutto: disconoscendo la matrice individualistica della teorizzazione psicoanalitica di Freud, l’idea deleuziana di concatenamento supera l’insufficienza della linearità e si colloca su un piano multidimensionale, o per meglio dire, rizomatico, nella misura in cui il rizoma, in Mille plateaux, viene descritto come una struttura articolata che non ha inizio né fine e che si sviluppa nomadicamente, in un infinito intermezzo; seguendo la risolutezza della proposta avanzata da Nichterlein e Morss, allora, si potrebbe forse aggiungere che il contributo sistemico di Deleuze (in particolar modo di quel Deleuze che ha saputo leggere e apprezzare i lavori di Bateson) alla psicologia risieda proprio nell’idea deleuziana di agencement, ossia di quella struttura complessa in cui l’unità della relazione non coincide con la somma delle parti coinvolte nella relazione stessa e ove, in fin dei conti, non v’è sintesi possibile tra l’Uno e il Molteplice. I concatenamenti non sono gli individui, ma attraversano gli individui e i corpi stessi, trasfigurando l’idea convenzionalmente intesa di soggettività e neutralizzando i dualismi per mezzo dei quali la tradizione metafisica occidentale si è sempre riferita alla soggettività umana; con questo concetto problematico, dunque, Deleuze sfida la psicologia alla modificazione della propria unità di analisi: concatenamenti e non individui, ecceità e non persone.
In fin dei conti, si può dire che tutta l’importanza e la paradossalità dell’impresa deleuziana si sintetizzi nel tentativo di ricondurre la filosofia alla sua matrice eminentemente speculativa, a un pensiero puro che possa pensare la totalità dell’esperienza nella sua assenza di presupposti trascendentali, o più precisamente, che sappia pensare l’assoluto del pensiero stesso, a prescindere da ogni riferimento alla soggettività umana; pensiero puro, assoluto, senza medium, inumano. In linea con le intenzioni globali delle riflessioni di Deleuze, l’empirismo trascendentale si pone, per certi versi, l’obiettivo di procedere oltre il privilegio della vita umana (ivi, p. 173), per piegare il pensiero nella direzione di un reale non antropologico, assolutamente immanente, un reale solcato da zone di indiscernibilità tra quanto è umano e quanto invece non lo è affatto.

Filosofia dell’immanenza assoluta: l’ontologia di Deleuze è un’ontologia che assegna all’essere una sola e unica voce. Univocità del reale: che l’essere si dica in un solo e medesimo senso per tutti i suoi enti o manifestazioni significa sostenere, con un atto speculativo confacente a quello che abbiamo visto configurarsi nei termini di un empirismo metodologicamente rigoroso, che l’essere univoco coincida con quel piano di immanenza organizzato in molteplicità o differenze individuanti. Per dirla con le parole di François Zourabichvili – fine studioso dell’opera e del pensiero deleuziani –, a fronte di enti molteplici e differenti, o membra disjuncta, l’univocità è la sintesi immediata – non derivata da alcun procedimento dialettico – del molteplice.
In linea con l’ontologia immanentista di Spinoza – che, come ricordano Nichterlein e Morss è forse uno dei filosofi che, insieme a Nietzsche e Bergson, ha fornito a Deleuze le coordinate chiave del suo lavoro teoretico – l’immanenza assoluta è un concetto profondamente anti-dualistico: la dottrina dell’immanenza procede di pari passo con la proposta di una cosiddetta “ontologia piana” (ivi, p. 7), un’ontologia, cioè, che spieghi il reale rovesciando la metafisica platonica.
Deus sive natura: così come in Spinoza l’univocità dell’essere si afferma in quanto sostanza unica, universale e infinita di tutto ciò che è, in Deleuze l’immanenza è quel piano davvero assoluto cui nulla si può contrapporre, neppure la trascendenza. A dispetto delle innegabili difficoltà che chiunque abbia tentato di scontrarvisi ha incontrato, le parole di Deleuze nel suo breve scritto L’immanence: une vie sono perentorie: la vita della pura immanenza, quella vita che vive prima di ogni processo di individuazione personale, è “una" vita le cui connotazioni risplendono tutte nella specificità di quell’articolo indeterminativo. Vita neutra, al di là del bene e del male; vita innocente, ma nella misura in cui quell’innocenza coincide proprio con un’immanenza radicale, priva di opposti, un’immanenza dell’immanenza, un’immanenza di una vita singolare, di una pura ecceità senza nome eppur inconfondibile nella sua singolarità. Se l’immanenza, dunque, è quel tutto fuori dal quale non esiste niente, e se essa coincide, altresì, con il tutto di un’esperienza non ulteriormente trascendibile, come è possibile giudicare quel tutto? Solcando i tracciati segnati dalle riflessioni nietzscheane, la filosofia di Deleuze afferma entusiasticamente l’innocenza del divenire e di tutto ciò che è, senza giudicare.
Il processo del pensiero afferma la vita. È questa, in fin dei conti, la formula per mezzo della quale Maria Nichterlein e John R. Morss sintetizzano l’intimità teoretica tra Nietzsche e Deleuze, proprio perché il pensiero è ciò che consente di porre soluzioni ai problemi della vita “sotto forma di possibilità nuove e inaspettate” (ivi, p. 157). Nelle intenzioni profonde degli autori di questo libro si tratta, in altre parole, di cogliere l’incontro con l’evento inatteso come occasione di affermazione. Per l’umanità a venire d’ispirazione nietzscheana, l’affermazione della vita di fronte all’inaspettato implica la creazione di nuovi valori che alleggeriscano la gravità di tutto ciò che vive. Giocare, ridere, danzare, come Dioniso.

Come vincere, allora, la bêtise della psicologia, la sua stupidità, la sua timidezza? Come affidarsi alla potenza scardinante dell’evento inatteso? Si tratta, in fondo, di sondare inedite e imprevedibili possibilità di vita votandosi al potere della deterritorializzazione, ossia a quell’attività che consenta di inaugurare e intraprendere linee di fuga nel caos molteplice dell’immanenza, che permetta di sfuggire alla rigida codificazione delle istituzioni familiari, statali, burocratiche. Come sottolineano con precisione Nichterlein e Morss, le attività di deterritorializzazione sono tutte quelle attività che rendono possibile l’emersione di ciò che Deleuze e Guattari definiscono nei termini di uno spazio liscio, un territorio senza confini, un piano immanente, abitato da pure ecceità nomadi, solcato esclusivamente da linee di fuga, da viaggi intensivi, da movimenti assoluti. In fin dei conti, l’obiettivo di Nichterlein e Morss è proprio questo: consentire alla clinica di offrirsi come ambito nel quale coltivare le opportunità di dischiudere spazi lisci, di promuovere atti di deterritorializzazione, di tracciare linee di fuga. Fuggire agli apparati di cattura istituzionali, respirare aria pulita. Ma per farlo è necessario che il soggetto rinunci alla propria identità e si voti all’energia impersonale dell’evento; è necessario, nondimeno, che il soggetto si faccia evento egli stesso.
Ecco l’autenticità del contributo della filosofia di Deleuze alla ridefinizione di una teoria psicologica e di una pratica clinica che sappiano valorizzare creativamente l’incontro con l’impetuosità di quanto v’è di inaspettato in ogni evento: come nella riflessione psicoanalitica di Jacques Lacan, ad esempio, il reale dell’inconscio emerge nell’incontro fatale con l’Altro, così in una terapia sistemica che sappia lasciarsi corroborare dalla filosofia deleuziana, il soggetto deve darsi in quanto struttura collettiva, in quanto soggetto nomade, portatore di molteplici possibilità virtuali, costantemente attraversato da linee di fuga che egli stesso inaugura senza posa. Il soggetto non può più essere inteso in senso individuale o personalistico, ma in quanto pura singolarità anonima e nomade. È forse proprio questo il senso di una trasfigurazione dell’unità psicologica di analisi prospettato da Maria Nichterlein e John R. Morss: divenire ecceità impersonali, pure individuazioni senza soggetto. E disegnando spazi lisci, vivere nella pura immanenza di una vita.

- Fabio Vergine - Pubblicato su DoppioZero del 1°/2/2018 -

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L’individuo, niente altro che una invenzione
- di Federico Leoni -

La psicologia è una scienza regale, scrivono Maria Nichterlein e John R. Morss in Deleuze e la psicologia (Cortina, pp. 228, euro 22.00) seguendo il linguaggio del filosofo francese al quale dedicano il loro saggio; ma la definizione non è in alcun modo un complimento. Scienza regale, scienza di Stato – dicono i nostri autori – significa al servizio dell’universale, capace di fare tutt’uno con un insieme di strategie orientate a realizzare, in ogni dominio della realtà o dell’esistenza, quell’ideale regolativo che l’epoca e le sue grandi istituzioni hanno innalzato a propria bandiera. Nel nostro caso, l’ideale dell’efficienza, della flessibilità, della felicità, della produttività, e soprattutto del gioioso incessante consumo. Chi non sia adeguato a tanto ha bisogno di aiuto, ed ecco che la psicologia interviene, fa luce su quella inadeguatezza. Verso una potenza illocalizzabile
Dal punto di vista di Deleuze, il solco nel quale si muove la psicologia, il suo architrave concettuale, può essere indicato con una parola quanto mai familiare, rassicurante: la parola è individuo. Ma per Deleuze l’individuo è un’invenzione, una costruzione. E così la regalità della psicologia. L’individuo è ciò che a un certo punto, in una certa congiuntura storica, la psicologia ha deciso di mettere a fuoco nella grande stoffa della nostra esperienza, ritagliandolo nel tessuto mutevole delle nostre abitudini e dei nostri modi di stare al mondo, per impiantarvi il proprio laboratorio.
Non è un caso se la psicologia moderna nasce portando quell’invenzione schiettamente metafisica che è l’io, il soggetto, nel chiuso degli ospedali, delle caserme, delle scuole, e nel vivo delle esigenze organizzative di quei luoghi. L’intera sfera dell’esperienza umana – affetti, pensieri, desideri – diventa un insieme di facoltà soggettive, di risorse identificabili, quantificabili, incanalabili. Il passaggio chiave sta proprio in questa graduale quanto implacabile privatizzazione dell’esperienza. Per rendere amministrabile l’esperienza umana, era necessario ridurla preliminarmente a sistema chiuso, isolarla in uno spazio ben delimitato, assegnarla a un singolo proprietario. Il concetto di individuo serve a questo, è la singola casella di quell’ampia quadrettatura che la psicologia fa calare sulla stoffa dell’esperienza, traducendola all’istante in un gettito di prestazioni individuali, e proprio perciò minutamente governabili.
Non stupisce che tutta la seconda metà del libro di Nichterlein e Morss si configuri come una sorta di contro-movimento. Se la psicologia regale fa del nostro lavoro, dei nostri affetti, dei nostri svaghi e delle nostre inquietudini, un fatto privato e una risorsa custodita nel forziere del soggetto, si tratterà di riportare tutto questo nel mondo, di farne riemergere l’elemento impersonale: di ritradurlo nei termini di una potenza illocalizzabile. Desoggettivare la disciplina della psicologia, desoggettivare la concettualità che la attraversa, desoggettivare l’esperienza stessa, è questo il compito che Maria Nichterlein e John R. Morss vedono all’orizzonte di una nuova psicologia. Perciò chiamano la psicologia non più regale ma minore, ancora sulla scia di Deleuze.
Gli esiti alterni della seconda metà del libro documentano come non sia facile tradurre in contenuto questa giusta promessa, dopo secoli di privatizzazione dell’esperienza. Tutta una serie di concetti di Déleuze vengono messi in campo: intensità, concatenamento, piano di immanenza. Ma il problema è che tanti dei dispositivi della formazione, tante delle forme di psicoterapia oggi diffuse, degli apparati di controllo nei quali riversiamo in ogni istante il flusso delle nostre prestazioni psicofisiche, già da tempo hanno smesso di trattarci come individui, facendo di noi dei semplici crocevia, punti di transitoria sovrapposizione di flussi senza nome, coagulo momentaneo di sciami di eventi senza soggetto. Un giorno il secolo sarà deleuziano, aveva detto Michel Foucault: non sapeva quanto la nostra epoca gli avrebbe dato ragione.
Una scommessa per il futuro
Se così è, la grande questione all’orizzonte non è se andare verso l’impersonale, oppure no, se scommettere sulla desoggettivazione, oppure no, se optare per i grandi e ciechi concatenamenti che facevano sognare Deleuze, oppure no. Ma come andare verso l’impersonale, come scommettere sulla desoggettivazione, come abitare quei concatenamenti in cui ci stiamo già da tempo risolvendo. Il libro di Morss e Nichterlein ha il merito di farci avvertire il rumore di questa grande battaglia silenziosa, che essi mettono a fuoco sul terreno di una singola disciplina, la psicologia, solo perché la psicologia è il sapere a cui il nostro tempo delega quel problema chiave, quel luogo delle decisioni ultime che è il problema dell’esperienza. La posta in gioco di quella battaglia silenziosa è lo statuto della nostra esperienza, la profondissima riformulazione che essa sta attraversando sotto i nostri occhi distratti.

- Federico Leoni - Pubblicato su Alias del 4/3/2018 -

sabato 27 ottobre 2018

Alla frontiera del capitalismo

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Bolsonarismo e "Capitalismo di Frontiera"
- di Daniel Cunha -

« Il senso dell'evoluzione brasiliana ... viene ancora stabilito per mezzo di quel suo carattere iniziale di colonizzazione» (Caio Prado Jr.)

L'ascesa di Jair Bolsonaro e la sua agenda politica che mescola ultra-liberismo insieme a razzismo, misoginia, omofobia, xenofobia e militarismo (i include anche l'apologia della dittatura e della tortura) ha provocato allo stesso tempo sia inquietudine politica che impotenza teorica. Da un lato, viene fatta la necessaria denuncia, insieme alle prove di mobilitazione antifascista e all'altrettanto necessaria campagna di mobilitazione guidata dalle donne; dall'altro, emergono le relazioni con il fascismo storico e con le altre figure politiche contemporanee, come Trump negli Stati Uniti, Orban in Ungheria e Erdogan in Turchia. Ma tuttavia questi avvicinamenti rimangono poco tematizzati. La "coscienza democratica" chiarisce a sé stessa che "lui" è inaccettabile, ma questa stessa coscienza rimane a livello diffuso e senza che venga svolta un'ulteriore elaborazione concettuale. Per poter andare al di là delle relazioni superficiali bisogna che fenomeni come il bolsonarismo vengano collocati in una prospettiva storico-mondiale, localizzandoli nella traiettoria della modernità capitalista e nella sua posizione periferica brasiliana.
Qui, faccio uso di un concetto socio-storico che chiamerò "capitalismo di frontiera", ispirato al concetto di "frontiera delle merci" di Jason W. Moore [*1]. Le Frontiere delle Merci sono il risultato dell'incorporazione di aree e settori che erano precedentemente "esterni" all'economia globale capitalista. Una tale incorporazione viene generalmente motivata dalla presenza di risorse (miniere, terreni naturalmente fertili, ecc.) e, di solito, a causa del fatto di trovarsi sul confino, è carente di forza lavoro, la quale dev'essere dislocata in quel luogo. Da qui, la sua relazione strutturale con il lavoro schiavistico, o analogo alla schiavitù. E' questo il caso brasiliano; infatti, questa configurazione è costitutiva del Brasile in quanto società moderna del suo "senso della colonizzazione", come lo ha ben descritto Caio Prado Jr.: la piantagione di canna da zucchero in quanto capitolo dell'espansione del capitale commerciale europeo, con la produzione basata sull'appropriazione della fertilità naturale del suolo (massapé) e destinata al mercato mondiale; la produzione basata sul lavoro degli schiavi, che ha come prerequisito la precedente espulsione (o lo sterminio) dei precedenti abitanti di quell'area di frontiere (indigeni, flora, fauna) [*2]. Nasciamo già con un progetto commerciale schiavista/sterminatore. Lo schema si è ripetuto con i cicli dell'oro e del caffè. Qui abbiamo già visto che il razzismo e lo sterminio sono strutturali e fondanti della nostra configurazione di capitalismo di frontiera. L'indipendenza che ha consegnato il comando all'erede del colonizzatore, l'Abolizione successiva del continente, le repubbliche tipo "caffellatte" e le "amnistie" per i dittatori ed i torturatori non hanno affatto concorso al fine di cambiare radicalmente queste fondamenta.
A partire dall'industrializzazione iniziata in Europa, una volta che il sistema globale capitalista comincia a funzionare sulle proprie basi (produzione industriale basata sul plusvalore relativo),  la frontiera svolge quello che è il suo ruolo sistemico rafforzato. La tendenza sistemica ad aumentare la composizione organica del capitale (sostituzione dei lavoratori con il macchinario) implica la tendenza alla caduta del saggio di profitto, come è stato dimostrato da Marx. Il capitale impiega varie strategie sistemiche per contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto; la più immediata è quella che aumenta il tasso di sfruttamento del lavoro. La stessa espansione sistemica promossa dall'aumento della produttività assorbe nuove masse di forza lavoro. Ma un meccanismo poco citato è quello della svalutazione del capitale circolante (materie prime). Qui, la frontiera ha un ruolo cruciale: il capitale circolante a buon mercato viene prodotto per mezzo dell'appropriazione della natura "vergine", usando preferibilmente il lavoro degli schiavi o lavoro analogo alla schiavitù. I terreni naturalmente fertili che non richiedo fertilizzazione artificiale, le nuove miniere con i loro minerali ad elevata purezza che riducono al minimo la necessità di lavorazione. Pertanto, la frontiera è mobile, è una zona di appropriazione in costante espansione, ed esercita quindi un ruolo di "ammortizzazione" della tendenza della caduta del saggio di profitto [*3].
Se andiamo avanti ed arriviamo al XXI secolo, vediamo che viviamo sotto quello che Moishe Postone ha chiamato "anacronismo del valore" [*4]. Come è stato anticipato da Marx nei Grundrisse, la composizione organica del capitale raggiunge un livello tale che il valore, o il tempo di lavoro socialmente necessario, diventa una base che si rivela insufficiente per riuscire a misurare la ricchezza materiale [*5]. Questo è il limite assoluto del modo di produzione capitalista, che si sviluppa come processo di crisi i cui effetti vanno dalla disoccupazione strutturale alla "favelizzazione" globale, dalla finanziarizzazione all'inselvaggimento del patriarcato, dal rafforzarsi del razzismo strutturale all'aggravamento della crisi ecologica [*6]. Robert Kurz ha individuato questo "punto di svolta" nella "rivoluzione microelettronica" a partire dagli anni '70, quando le razionalizzazione dei sistemi produttivi (automazione computerizzata, ecc.) cominciano ad eliminare più lavoro vivo di quanto ne venga generato dall'espansione del sistema [*7]. Questo "punto di svolta" è stato caratterizzato da una costellazione di eventi, come il collasso di Bretton Woods, la caduta del muro di Berlino e dei regimi dell'Est, la crisi del debito nei paesi del Terzo Mondo. Avviene, se Kurz ha ragione, che a questo punto la "modernizzazione" brasiliana (e quella dei paesi del "Terzo Mondo" in generale) era ancora incompleta. Si tratta del "collasso della modernizzazione", la fine di quelli che erano i progetti della "modernizzazione ritardataria", generalmente guidati da delle dittature che accompagnano con mano di ferro lo sviluppo delle forze produttive. Da allora, abbiamo una società "post-catastrofica" in una economia globale capitalista che che cominciava a girare a vuoto [*8]. "Post-catastrofica" e modernizzata solo in parte, va sottolineato che non ha una formazione completa di classe, di istituzioni e di democrazia di massa come quella dei paesi centrali; qui, né il "proletariato", né tantomeno il "cittadino" sono stati pienamente accumulati. Razzismo, violenza strutturale sterminatrice, "mandonismo" [N.d.T.: brasilerismo per "prepotenza"] e capriccio anti-repubblicano [che vanno al di là delle loro più ovvie forme militariste, come ad esempio nel sistema giudiziario e nel perseguimento penale), rimangono non in quanto meri "preconcetti"  o "privilegi" idiosincratici, ma come elementi strutturanti di una società schiavistica di frontiera solo parzialmente superati. In questo contesto di crisi, avviene quello che è l'inselvaggimento della necessità del capitale circolante a buon mercato al fine di modulare la composizione organica di capitale. Più che mai, l'avanzamento alle frontiere delle merci è vitale per il proseguimento dell'accumulazione. Il "collasso della modernizzazione", combinato con questa necessità sistemica, si traduce in questo ruolo svolto dal Brasile rispetto alla divisione internazionale del lavoro: quello di un'immensa frontiera delle merci sempre più de-industrializzata. Si tratta di una posizione periferica e subalterna, ma cruciale. La frontiera della soia è legata alla produzione di cibo per la forza lavoro cinese e, pertanto, alla continuità del basso costo di tale forza lavoro; la produzione cinese finalizzata all'esportazione, a sua volta, si coniuga con l'indebitamento statunitense, in un "circuito del debito" nel quale la Cina compra i titolo del debito USA, i quali finanziano l'esportazione delle proprie merci. Il minerale di ferro è fondamentale per l'espansione urbana cinese, sebbene nel concreto finisca in città-fantasma (e distrugga Mariana e Rio Doce a causa delle fluttuazioni dei prezzi dovute al taglio dei costi). Questo circuito Cina-Stati Uniti-Brasile che collega frontiere di merce brasiliane, manodopera cinese a basso costo ed indebitamento americano è stato centrale per la continuità della "normalità capitalista" negli ultimi 20 anni, ma in ultima analisi si basa sulla bolla di capitale fittizio (montagne di debiti e di cartaccia) [*9]. E' stato in questo scenario di boom delle merci che i governi del Partito dei Lavoratori hanno potuto attuare politiche sociali di redistribuzione senza alcun cambiamento strutturale nella società brasiliana, sulla linea del flusso di capitali cinesi, alleandosi al business del settore agrario, al settore finanziario e persino alla tribuna evangelica. Un sistema di "gestione della crisi" che promuoveva la "introduzione al consumo" e che poteva solo essere precario e provvisorio, come è poi diventato chiaro in seguito [*10].
Lo scoppio della bolla immobiliare avvenuto nel 2018, tuttavia, ha finito per rovinare loro la festa. L'indebitamento cinese potrebbe ancora riuscire a prolungare il boom delle materie prime per qualche tempo, ma inevitabilmente è arrivato il declino. Questo, in Brasile, si è tradotto nell'instabilità politica, dove la classe media, esclusa dall'accordo legittimante del governo dei Partito dei Lavoratori, è scesa in piazza chiedendo l'impeachment, messa su da dei media oligopolistici e da un potere giudiziario senza alcun controllo popolare e ideologizzato [*11]. Poco prima, la disastrosa reazione tecnocratica dell'allora sindaco di San Paolo, ed attuale candidato alla presidenza, Fernando Haddad, rispetto alle proteste del giugno 2013, dapprima accompagnata da richieste progressiste, ha finito per gettare le manifestazioni fra le braccia del conservatorismo [*12]. La legittimità del governo di Dilma Rousseff, fra coloro che avrebbero potuto difenderla, è stata mortalmente ferita a causa della sua disastrosa opzione per un aggiustamento fiscale neoliberista promosso dal "Chicago Boy" Joaquim Levy. Il golpe (formalmente, impeachment) ha coinciso con il minimo dei prezzi delle materie prime. Il golpe ha significato un approfondimento ed un'accelerazione del processo di rapina, ora non più limitato da nessun accordo conciliatore. In breve, Michel Temer ha trattato per ridurre il prezzo della manodopera, vendere e tagliare i servizi pubblici.
Questo contesto di crisi economica e di legittimità del Partito dei Lavoratori (identificato come sinistra in generale), amplificata a partire dagli "scandali della corruzione" spinti dalla "delazione premiata" e dal "dominio di fatto", dal sabotaggio da parte del PSDB [Partito della Socialdemocrazia Brasiliano], dal bombardamento mediatico , dall'agitazione dei giovani "think tanks" e degli ideologhi paranoici (MBL, Olavo de Carvalho, Reinaldo Azevedo) era il brodo di cultura in cui cresceva il bolsonarismo [*13].
Bolsonaro mobilita quelli che sono i cliché tipici dei populisti di estrema destra in tempi di crisi economica: razzismo, militarismo, misoginia, xenofobia, omofobia, anti-comunismo, anti-intellettualismo ("scuola dei senza partito") sono tutti modelli di serie dei leader fascisti. Se l'antisemitismo appare essere residuale, le teorie del complotto vengono presentate come se fossero mirabolanti piani di "dominio comunista", come nel caso del delirio a proposito del dominio del Partito dei Lavoratori. Più insolito appare l'ultra-liberismo, rappresentato dal suo assessore economico Paulo Guedes, coniugato con l'autoritarismo militarista del suo candidato alla vice presidenza, il generale Mourão. Ma qui non c'è niente di inconsistente: si tratta della sistemazione ideale per il capitalismo di crisi in un paese periferico che è relegato alla condizione di frontiera delle merci del mercato mondiale, poiché si accumula nelle favelas una massa immensa ed esplosiva di superflui, che ha bisogno di essere contenuta - da qui il senso della "guerra ai vagabondi" della militarizzazione e della sicurezza pubblica [*14]. Non meraviglia che frazioni della borghesia appoggino la candidatura di Bolsonaro, importandogliene ben poco delle apparenze civilizzatrici; essi sono i successori storici dei moderni proprietari si schiavi che hanno forgiato l'ideologia liberal-schiavista [*15] . Ma quella che qui appare è anche un'importante differenza riguardo al fascismo storico: mentre quest'ultimo aveva un ruolo di modernizzazione come «sistema di mobilitazione totale del lavoro industriale», fenomeni come quello del bolsonarismo rappresentano innanzitutto una mobilitazione totale ai fini della rapina delle frontiere delle merci, ed il contenimento militarizzato dei non-redditizi. Non c'è alcuna pretesa di irreggimentazione di massa del lavoro [*16]. In un simile contesto di «aspettative decrescenti», emergono meccanismi tradizionali di disumanizzazione dell'«altro», del non-redditizio, di quelli delle favelas, di chi è escluso dai sistemi di protezione sociale: razzismo, elitarismo e circuiti di affetti reazionari [*17]. A tutto questo, si unisce una specifica componente ideologica, evidenziata da alcuni studiosi: l'emergere di un'ideologia suprematista anti-indigena e anti-quilombo [*18]. «Quilombo, indios, gay, lesbiche, tutto ciò che non va bene», ha detto Luiz Carlos Heinze [N.d.T.: del Partito Progressista] nel corso di un incontro pubblico con gli agricoltori, e Bolsonaro assicura che «il Quilombo non serve nemmeno alla procreazione» e che non prenderà più possesso di alcun terreno, mentre il suo vice Mourão si rammarica per l'«indolenza» e la «delinquenza» del «negro» e dell'«indigeno» [*19]. Avviene che molte terre degli indigeni e dei quilombo limitano e si trovano sulla strada dell'espansione della frontiera della soia e dell'estrazione mineraria [*20]. Assai più che intralciare il cammino dei fazendeiro e delle miniere private, si trovano sulla strada di un importante meccanismo di ammortizzazione dell'aumento della composizione organica del capitale, e quindi della continuità dell'accumulazione capitalista globale. Lungi dall'essere un mero «preconcetto» soggettivo contro gli indigeni, si tratta di una coagulazione ideologica degli interessi immediati dei suoi agenti, nella configurazione attuale del capitalismo di crisi, e in una radicata eredità storica di sterminio. Qui l'apologia bolsonarista delle armi da fuoco, si riferisce non solo al militarismo della dittatura, ma anche al «capitalismo di frontiera» degli scout che nel Mato Grosso assassinano gli indios. Nel 2017, sono state assassinate 207 persone nel contesto di conflitti per la terra, o ambientali [*21]. Insieme a quello svolto nella favela, è questo il ruolo della milizia nel «capitalismo di frontiera». Anche sotto questo aspetto, il bolsonarismo si differenzia dalla versione brasiliana del movimento fascista storico (integralismo), che nel suo progetto di «nazione» immaginaria cercava di «includere» i neri e gli indigeni (debitamente «evangelizzati»), usando anche il saluto ufficiale, in lingua tupi, «Anauê» [*22].
Il bolsonarismo ha degli elementi in comune con il fascismo storico, ma non coincide con esso. Il passaggio da «il lavoro rende liberi» (slogan nazista) a «l'unico bandito buono è il bandito morto» ed a «questo rappresenta tutto quello che fa schifo» è lo specchio ideologico di quello che rappresenta il passaggio dall'ascesa al declino dell'economia globale capitalista. La sua forza come ideologia sembra risiedere nel fatto che coniughi le necessità del capitalismo di crisi contemporaneo - sia per quel che si riferisce all'accumulazione in sé, sia quello che fa riferimento ai processi ideologici - con gli elementi profondi e costitutivi della socialità e della costituzione del soggetto nel «capitalismo di frontiera» brasiliano; elementi che non sono mai stati del tutto superati nella nostra modernizzazione tronca. Perciò, il bolsonarismo rompe con la «gestione della crisi» petista [N.d.T.: del Partito dei Lavoratori], assumendo così una certa aria «contestatrice», ma che sostanzialmente propone nient'altro che rapina e repressione. In questa configurazione storica, il bolsonarismo, o qualche suo succedaneo, perfino perdendo le elezioni, tenderà a rafforzarsi, qualora la sinistra insista a percorrere lo storico vicolo senza uscita della «gestione della crisi».

- Daniel Cunha - Pubblicato il 4 ottobre 2018 su Blog da Consequência -

NOTE:.

[*1] - Moore (2000). Il concetto di «frontiera delle merci» deriva dalla teoria della riproduzione allargata del capitale, elaborata da Marx nel II Volume de Il Capitale, e discussa da Rosa Luxemburg.
[*2] - Prado Jr. (1942-2015).
[*3] - Moore (2015).
[*4] - Postone (2017).
[*5] - Nel famoso «frammento sulle macchine».
[*6] - Sull'inselvaggimento del patriarcato, elemento essenziale del bolsonarismo, si veda Scholz (2017). Scholz ha svolto un ampio lavoro sul tema del capitalismo e del patriarcato.
[*7] - Kurz (1986/2018).
[*8] - Kurz (1992).
[*9] - Sul circuito del debito Stati Uniti - Cina, si veda Kurz (2007/2017).
[*10] - Sul Partito dei Lavoratori, visto come «gestore della crisi», si veda Menegat e Sinal de Menos (2018).
[*11] - Sulla crisi del «patto sociale» brasiliano si veda Barreira e Botelho) (2015).
[*12] - Sull'ascesa del conservatorismo, già visibile a partire dal 2013, si veda Duarte (2013), Marques (2013), e Behrens e Sinal de Menos (2013).
[*13] - Sorprendentemente, il sabotaggio del PSDB (Partito della Social Democrazia Brasiliana) è stato ammesso da Tasso Geiressati in un'intervista al quotidiano O Estado de São Paulo, disponibile su https://politica.estadao.com.br/noticias/eleicoes,nosso-grande-erro-foi-ter-entrado-no-governo-temer,70002500097
[*14] - Cfr. Botelho (2018)
[*15] - Sui liberali schiavisti si veda Bosi (1988) e Schwarz (2000/1977).
[*16] - Sul ruolo modernizzatore del nazi-fascismo si veda Kurz.
[*17] - Sull'«era delle aspettative decrescenti» si veda Arantes (2014). Sui «modi di vita» e sulla «circolazione degli affetti» nel processo di crisi attuale, si veda Safatle (2018).
[*18] - Si veda la pagina «De olho nos ruralistas», nella quale si svolge un sondaggio sul discorso anti-indigeni e anti-quilombos su:  https://www.facebook.com/deolhonosruralistas/
[*19] - Secondo un reportage del quotidiano  Estado de São Paulo: https://politica.estadao.com.br/noticias/eleicoes,mourao-liga-indio-a-indolencia-e-negro-a-malandragem,70002434689 .
[*20] - Si veda la mappa delle aree minerarie che si sovrappongono alle terre indigene su https://www.nexojornal.com.br/grafico/2017/04/19/Quais-%C3%A1reas-ind%C3%ADgenas-as-mineradoras-querem-explorar .
[*21] - Si veda il reportage della BBC: https://www.bbc.com/portuguese/brasil-44933382 .
[*22] - Cfr. Silva (2005).

BIBLIOGRAFIA:

Arantes, Paulo (2014). O novo tempo do mundo e outros estudos sobre a era da emergência. São Paulo: Boitempo.

Barreira, Marcos e Botelho, Maurílio (2015). A implosão do “Pacto Social” brasileiro. Disponível em http://www.krisis.org/2016/a-imploso-do-pacto-social-brasileiro/

Behrens, Roger e Sinal de Menos (2013). “Os sentidos da revolta.” Sinal de Menos, edição especial “Os sentidos da revolta”: 7-14. Disponível em http://www.sinaldemenos.org

Bosi, Alfredo (1988). “A escravidão entre dois liberalismos.” Estudos Avançados 2(3): 4-39.

Botelho, Maurílio (2018). “Guerra aos vagabundos: sobre os fundamentos sociais da militarização em curso”. Blog da Boitempo. Disponível em: https://blogdaboitempo.com.br/2018/03/12/guerra-aos-vagabundos-sobre-os-fundamentos-sociais-da-militarizacao-em-curso/

Duarte, Cláudio R. (2013). “O gigante que acordou – ou o que resta da ditadura? Protofascismo, a doença senil do conservadorismo.” Sinal de Menos, edição especial “Os sentidos da revolta”: 34-54. Disponível em http://www.sinaldemenos.org

Kurz, Robert (1992). O colapso da modernização: da derrocada do socialismo de caserna à crise da economia mundial. Trad. K. E. Barbosa. Rio de Janeiro: Paz e Terra.

Kurz (2017/2007). “Poder mundial e dinheiro mundial.” In: Poder mundial e dinheiro mundial: crônicas do capitalismo em declínio, p. 21-38. Trad. B. Antunes, L. Nahodil e A. V. Gomez. Rio de Janeiro: Consequência.

Kurz, Robert (2018/1986). A crise do valor de troca. Trad. A. V. Gomez e M. Barreira. Rio de Janeiro: Consequência.

Kurz, Robert (s. d.) Die Demokratie frisst ihre Kinder: Bemerkungen zum neuen rechts Radikalismus. Disponível em: https://exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=29&posnr=49&backtext1=text1.php

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fonte: Blog da Consequência