Osservazioni sul congresso tedesco «Gegenform: un'alleanza contro la formazione autoritaria»
- di Sandrine Aumercier - 9/5/2025
Dopo aver assistito al congresso che si è tenuto a Berlino dal 1° al 3 maggio [*1], organizzato da un'alleanza di gruppi che si dichiarano di sinistra radicale e antifascista, intendo darne qui un resoconto, seppure in maniera frammentaria e sotto forma di osservazioni generali. L'iniziativa è partita da un gruppo "anti-Deutsch", o meglio, designato come tale dai suoi avversari ideologici, dato che non è detto che gli ex anti-Deutsch si riconoscano ancora in tale denominazione. Una persona che non è tedesca, ha delle difficoltà a orientarsi in questo labirinto ideologico! Il movimento anti-nazionale "antideutsch", venne a costituirsi in Germania, al tempo della riunificazione tedesca, al fine di opporsi a una Germania forte. Questo movimento, rispetto a quelle che allora erano le nuove guerre per l'ordine mondiale che seguirono alla fine della Guerra Fredda, assunse posizioni filo-occidentali e filo-atlantiste. In tal modo, rompeva pertanto con le posizioni antimperialiste, antisioniste e pacifiste della sinistra tradizionale, creando una spaccatura tra due sinistre tedesche diventate irriconciliabili. Ben presto, il tema centrale è diventato quello della relazione con Israele. Da allora il movimento anti-Deutsch si è evoluto in una miriade di piccoli gruppi, alcuni dei quali si sono spostati a destra. La nuova alleanza, "Gegenform", conferma la sua iscrizione alla sinistra radicale, e apre pertanto il congresso con un podio sulla critica del lavoro. Notoriamente legato alla rivista "Jungle World", ha invitato autori per rappresentare la corrente della Critica del Valore della rivista Krisis, così come anche Tomasz Konicz, un collaboratore regolare della rivista "Exit!". Ma al momento dell'apertura del podio inaugurale, non c'era ancora nulla in grado di far capire di quale critica del lavoro si trattasse, dal momento che la cosa si è ridotta a delle osservazioni sociologiche e a delle critiche convenzionali rivolte all'entusiasmo produttivista della classe politica. Un neofita – e la sala gremita ne conteneva –, ascoltando le conversazioni, non avrebbe potuto pervenire all'idea secondo cui, all'interno della forma sociale capitalistica, il lavoro astratto è un creatore di valore, e che la graduale sostituzione della forza lavoro umana, con l'automazione, costituisce una contraddizione fondamentale che è all'origine di tutte le crisi, e che ora siamo sulla strada che porta a una crisi di valorizzazione definitiva. Persino Ernst Lohoff, del gruppo Krisis, che era presente sul podio, non ha osato introdurre una critica categoriale del lavoro. L'accenno fatto da Tomasz Konicz, in un altro momento del congresso, alla crisi fondamentale della valorizzazione, è stato accolto con un'ironia sfacciata a suon di commenti come: «stiamo ancora aspettando la crisi finale annunciata trent'anni fa dalle Cassandre della Wertkritik».
Il tema principale del congresso, è stata la critica dell'antisemitismo e dell'islamismo; che alcuni dei relatori rifiutano espressamente di distinguere dall'Islam, il quale invece viene considerato intrinsecamente irriformabile [*2]. Molti dei partecipanti indossavano un segno di riconoscimento filo-israeliano o "ebraico": una stella di David, un tatuaggio o una maglietta con l'effige israeliana, e persino una kipa. Del resto, in sala non c'era alcun simbolo religioso musulmano, o filo-palestinese. Non sto deplorando la presenza o l'assenza di tali segni identificativi: noto solo una disparità. L'alleanza che ha portato al congresso è nata da una lunga serie di contro-dimostrazioni che si sono svolte a Berlino contro la “Marcia di Al Quds” e quella contro la “Giornata della Nakba”, e fa anche seguito a una manifestazione dell'ottobre 2024 "contro l'Internazionale antisemita". Chiaramente, questo congresso non si oppone solo al discorso antisemita propalestinese, ma anche a qualsiasi discorso propalestinese. Propalestinese, viene infatti inteso come sinonimo di antisemita. Il congresso nasce all'insegna del dopo 7 ottobre e della critica all'antisemitismo che da allora si è diffuso sia nella sinistra tedesca che in quella internazionale; partendo però dal presupposto di fare tabula rasa del problema palestinese. Questo perché, purtroppo, dietro la lodevole intenzione di denunciare le manifestazioni di antisemitismo che strumentalizzano la causa palestinese, si nasconde un'altra convinzione, secondo la quale non esiste una causa palestinese. E sebbene questa convinzione venga raramente affermata apertamente – poiché potrebbe mettere nei guai i ragazzi che si gonfiano il petto con il loro radicalismo di sinistra – essa può tuttavia essere dedotta sia a partire dal fatto che ne venga omesso il suo trattamento, sia - quando questo trattamento esiste - dal ridurre qualsiasi rivendicazione palestinese a un'invenzione antisemita del mondo arabo. Quest'ultimo argomento si basa su due elementi storici: 1) sulla costruzione di un atavismo arabo antisemita che può essere spiegato con la vecchia dhimma, o 2) sulla costruzione di una nuova giudeofobia araba, che sarebbe iniziata con la collaborazione nazista del Gran Mufti di Gerusalemme, e che dura fino ad oggi. Del resto, non è difficile dimostrare quanta e quale sia la presenza dell'antisemitismo arabo-musulmano, sebbene esso non abbia quel carattere essenziale e costante che gli viene attribuito. Ma come si può rifiutare la considerazione del problema palestinese? Ci venga detto in che modo gli arabi, liberati dal giogo ottomano e in lotta contro gli inglesi, avrebbero potuto accogliere a braccia aperte, in Palestina, una nuova maggioranza ebraica (cosa che era alla base del progetto sionista). Con quale grandezza d'animo, con quale generosità, che non ha esempi altrove, avrebbero dovuto acconsentire alla leadership sionista di essere disposta a fare di questo territorio e delle persone che lo abitavano ciò che faceva loro comodo? La negazione di una coscienza nazionale palestinese - di cui spesso si ricorda la costruzione recente, come se questo bastasse a renderla nulla - fa sì che questo nodo storico non venga mai affrontato. Questo fatto non assolve però l'irredentismo, e le strumentalizzazioni inter-arabe, della causa palestinese, la quale è diventata ostaggio permanente di tutte le potenze della regione, compresa Israele. Il minimo che possiamo fare, sarebbe pretendere di mettere le cose in chiaro rispetto a questo conflitto che dura da ormai troppo tempo; vale a dire abbandonare una guerra fatta di narrazioni vittimistiche, a cui i protagonisti non cessano mai di opporsi, per negare al proprio avversario la sua mera esistenza, o la sua coscienza nazionale. I palestinesi sono chiaramente i grandi perdenti in quella che è una storia in cui essi vengono costantemente strumentalizzati, alternativamente, da Israele e dai paesi arabi. Che la sinistra occidentale si impadronisca, a sua volta, di tali narrazioni, e le sovradeterminazioni per farne il proprio burro ideologico, è fin troppo scandaloso. Nelle sue intenzioni, pertanto, il congresso era diretto contro i propri nemici più intimi; vale a dire, l'altra parte della sinistra tedesca: «Chiunque abbia abbandonato ogni pretesa di una critica sociale razionale a favore del godimento antisemita del delirio, rimane un nemico, nel senso che non è più un destinatario bensì un mero oggetto della critica» (si veda il testo di presentazione del congresso.) Il fronte opposto è costituito da “antisemiti”, e con il nemico non si parla, gli spari. Ma chi se ne frega: il complimento viene rispedito al mittente da una stampa di sinistra tedesca antimperialista, che definisce gli organizzatori del congresso come razzisti e guerrafondai. Questo pingpong, per una sinistra bloccata nel proprio malessere identitario anziché impegnarsi nell'analisi dei propri fallimenti, è ancora più eccitante, oltre a essere il laborioso trattamento di quello che è un oggetto contraddittorio in sé. In tal modo, la sinistra diventa complice delle ideologie che alimentano il conflitto in Medio Oriente, invece di superare il particolare, e identificare quali sono i diversi "punti di vista" che lo affrontano. La cosa peggiore è che queste reciproche accuse – di razzismo da un lato, e di antisemitismo dall'altro – sono purtroppo ben fondate. Se da un lato gli “antifascisti” e gli “antimperialisti” invocano una critica radicale, dall'altro si fissano tutti sul loro oggetto elettivo, definito in maniera negativa dalla sinistra opposta, senza fare alcun riferimento al vero oggetto della loro attenzione: i diversi gruppi umani che sono tenuti in ostaggio dalle loro divisioni ideologiche. I fanatici dell'antisemitismo, eludono o propagano tendenze razziste e islamofobe, mentre i fanatici dell'antirazzismo, a loro volta, eludono o propagano tendenze antisemite. I compiti sono stati ben suddivisi. In tal modo, l'inflazione dell'invettiva copre pertanto da ogni lato quello che per ciascuno è il proprio punto cieco, rendendo la scissione sempre più profonda e sempre più inadatta e inadeguata. L'oggetto ultimo di tutte queste follie identificative rimane l'ebreo, che viene dagli uni riqualificato come imperialista sionista responsabile di tutti i mali della regione, mentre per gli altri, al contrario, si tratta delle eterne vittime del nazionalsocialismo, di cui i Fratelli Musulmani e Hamas costituirebbero una filiazione, contro la quale è ovviamente necessaria una guerra totale. Infine, va detto che gli "ebrei" (o "Israele", per procura) non hanno finito di essere il principale attrattore della coscienza di sinistra, sia che essi ne siano i suoi alibi, gli attori malvagi o le vittime assolute. Il polarizzarsi del congresso sul sostegno a Israele, trascura le critiche al neofascismo e al populismo della crisi, ivi comprese quelle dei partiti liberali, così come trascura la rimilitarizzazione della Germania e la corsa agli armamenti europea. Jan Gerber ha spiegato – nell'unica conferenza specificamente dedicata ai nuovi populismi – che si tratta soprattutto di risposte popolari al deterioramento delle condizioni di vita e alla paura di un declassamento. Sarebbe quindi abusivo paragonarli ai fascismi storici. Questa distinzione è certamente rilevante, ma nell'opera di Gerber ci si attiene a un approccio comparativo e psicologico, basato sulla ricezione popolare delle trasformazioni sociologiche dell'era post-fordista così come essa viene colta dai partiti populisti. Gerber non colloca i nuovi populismi di destra nel contesto globale della decomposizione capitalista, e la cosa giustifica il distinguerli dai fascismi storici risalenti all'era delle «modernizzazioni di recupero» (Robert Kurz). Così, a causa di questa debolezza teorica, la dichiarazione finisce per "servire" all'agenda del congresso antifa, il quale, avendo già distribuito agli islamisti il titolo di fascismo e di filiazione nazista, scagiona così di conseguenza i nuovi partiti di estrema destra. L'odio per i migranti, viene essenzialmente considerato, da Gerber come un elemento di codifica per la paura del declassamento economico. Si dice che il ruolo svolto dall'islamofobia nell'odio verso i migranti, sia una proiezione di sinistra, e che, rispetto al razzismo virulento degli anni '80 [*3], il razzismo abbia perso terreno nei programmi di estrema destra di oggi. E' vero che il trattamento dell'islamofobia e della xenofobia potrebbe mettere in ombra l'onnipresente trattamento dell'antisemitismo, che è la parola d'ordine del congresso. Potrebbe però anche costringere gli antifascisti tedeschi ad analizzare la propria islamofobia. Questa dimensione viene rimossa e ignorata, trattandola come se fosse un non-problema. Per di più, questo discorso non sembra interessato alle conseguenze dello spostarsi verso l'estrema destra di tutto lo spettro politico. Recentemente, la Legge fondamentale tedesca è stata modificata per escludere le spese per la difesa e per la sicurezza dalla regola del debito, il quale non deve essere superiore all'uno per cento del prodotto interno lordo. È stata anche prevista l'istituzione di un fondo speciale di 500 miliardi di euro «per ulteriori investimenti in infrastrutture» (militari), una piccola parte dei quali verrà destinata al raggiungimento della neutralità climatica [*4]; il che significa ricoprire il mondo di infrastrutture elettriche che riportano indietro i limiti dell'estrazione mineraria e della predazione capitalistica. Al congresso non si è parlato di questa corsa a perdifiato, né della falsa contrapposizione tra una realpolitik guerrafondaia e de-regolamentatrice, da una parte, e un nazionalismo populista e protezionista dall’altro, che si dividono il campo politico come se fossero due facce di un medesimo processo di decomposizione. Il nuovo cancelliere, conservatore, che è stato appena eletto dal Bundestag dopo alcuni colpi di scena, ha inoltre annunciato anche l'inasprimento delle misure contro l'immigrazione, togliendo il tappeto da sotto i piedi al partito di estrema destra tedesco (AfD). La caccia ai migranti non è appannaggio dell'estrema destra. Mentre tutti sono indignati per le ultime buffonate di Trump, il quale, malgrado le sue dichiarazioni fragorose e la messa in scena, non ha rimandato indietro più migranti di quanti ne ha rispedito indietro Joe Biden; anzi, in media, piuttosto meno [*5]. L'unico contributo dato dal congresso alla questione migratoria, aggiunto al programma iniziale, è stata una conferenza tenuta da un membro del comitato editoriale della rivista Pólemos, che ha ripetuto gli argomenti che erano stati presentati in un numero del 2016, dedicato a tale tema, con il titolo "critica della politica dei rifugiati" [*6]. La presentazione non è stata priva di confusione, dal momento che si riferiva tanto alla "politica dei rifugiati" quanto alla politica migratoria efficace dei governi che si sono succeduti, oltre che alle richieste astratte della sinistra che vanno dall'accoglienza dei migranti al movimento no-border. Il documento spiegava che la sinistra, ammantata di indignazione, respinge la violenza di Stato insita nella politica, il funzionamento dello Stato come custode della “idea collettiva capitalista” nonché le ragioni delle migrazioni, che spesso sono dovute alle dittature. Mentre la destra vorrebbe solo rimandare gli islamici da dove sono venuti, facendo così il gioco dei jihadisti, la sinistra desidera estendere il welfare sostenendo l'antirazzismo a scapito dell'antisemitismo. Partendo da un'analisi pertinente della contraddizione tra sofferenza individuale e totalità capitalistica, che è alla base della precarietà essenziale del "diritto d'asilo", la discussione è stata trascinata nel collo di bottiglia del tema principale del congresso: l'antisemitismo e l'islamismo. Nulla si dirà sulle recenti aberrazioni introdotte nel diritto d'asilo, dove il sostegno a Israele da parte della ragion di Stato tedesca diventa il nuovo mantello dell'«imperialismo di esclusione» (Robert Kurz). Infatti, a partire dall'ultima riforma della legge tedesca sulla cittadinanza, i candidati alla cittadinanza compilano un modulo in cui, tra le altre cose, compaiono domande eliminatorie sull'ebraismo, su Israele e sull'antisemitismo, avendo fatto di Israele una sorta di punto focale della"identità nazionale tedesca". Allo stesso modo, dal 7 ottobre, l'Ufficio federale tedesco per l'immigrazione e i rifugiati non decide più sulle domande di asilo dei rifugiati della Striscia di Gaza, facendo per essi riferimento a un articolo sul diritto d'asilo secondo il quale la decisione di concedere l'asilo può essere rinviata in caso di una situazione temporaneamente incerta [*7]. Tutto questo non è un argomento per l'alleanza "Gegenform". Infine, va da sé che l'estrema destra israeliana e le sue politiche siano state il tabù assoluto per tutto il congresso, dal momento che Israele si sta solo "difendendo" dall'attacco del 7 ottobre. E questo, secondo la sua stessa essenza, dal momento che secondo questa versione Israele esiste solo per proteggere gli ebrei dalla permanente barbarie antisemita globale, incarnata dai nemici di sinistra filo-palestinesi (tutti antisemiti) e dagli islamisti. Un ottimo modo per questa sinistra tedesca, e soprattutto per i più giovani, di proteggersi dal proprio passato avallando la difesa incondizionata delle eterne vittime, che sono necessariamente gli ebrei minacciati dall'Iran e dagli islamisti. Sono abbastanza certa che pochi israeliani e pochi ebrei – sia che sostengano la politica di occupazione israeliana o la creazione di uno stato palestinese – si riconoscano in questa proiezione paternalistica dei loro zelanti difensori. Questo congresso corrisponde perciò alla versione tedesca – più robusta di quella francese, è vero, la storia obbliga – di quella che Ivan Segré, per analizzare il caso francese, ha potuto definire come una «reazione filosemitica» [*8].
Questo forse spiega perché, nello stand dei libri, si potevano trovare autori come Mathias Küntzel o come Georges Bensoussan, le cui idee islamofobe e il sostegno al teorico della cospirazione di estrema destra, Bat Ye'Or, non sono un segreto [*9]. Non è da meno Stephan Grigat, il cui libro porta la prefazione di Bensoussan, secondo cui la geopolitica del Medio Oriente può essere riassunta come una minaccia esistenziale, posta a Israele dall'Iran e dal suo asse del male. Un Iran i cui luoghi strategici devono pertanto essere bombardati prima che esso si doti della bomba atomica, mentre Israele non ha altra scelta se non quella di cacciare fino all'ultimo le "Hamas-Einsatzgruppen" [*10]. (Un'espressione, dello stesso tipo di tante altre tutte riconducibili a una sola scuola di pensiero, quella di "Adolph Ahmadinejad" di Matthias Küntzel [*11].) La geopolitica del Medio Oriente viene decifrata attraverso il prisma dello standard nazista, e dell'Olocausto strumentalizzato, anziché attraverso un'analisi delle forze e delle ideologie presenti nel quadro dell'attuale capitalismo di crisi. L'antisemitismo, e il negazionismo dell'Iran e dei suoi alleati, diventano il provvidenziale pretesto per un'immediata identificazione tra il regime nazista e il regime iraniano, o Hamas, cancellando ogni sfumatura storica. Non è chiaro come sia possibile prendere sul serio dei "ricercatori" che si esprimono in questi termini. La riduzione ad hitlerum è squalificante, indipendentemente da quale sia il campo ideologico da cui proviene; e non solo quando si paragona l'esercito israeliano alle SS. Nella visione di Stephan Grigat e della sua cricca, non è la bomba in sé a porre un problema (nel senso in cui l'ha tematizzata Günther Anders), ma il fatto che l'Iran riesca a ottenerla. Che la bomba atomica, in qualsiasi momento e da qualsiasi parte, possa cadere nelle "mani sbagliate" (basti pensare alle ripetute minacce di Putin), o possa sfuggire alle circostanze incontrollabili esistenti all'interno del normale funzionamento del "soggetto automatico", è un fatto che viene totalmente oscurato. Grigat ricorda giustamente che il 7 ottobre aveva lo scopo di silurare la normalizzazione di Israele, iniziata con gli Accordi di Abramo. Ma dimentica di dire che l'azione di Hamas e dei suoi alleati è così pertanto diretta tanto contro Israele, quanto contro i suoi stessi nemici arabi e tutti i loro sostenitori occidentali; cosa che relativizza l'interpretazione del 7 ottobre in quanto "pogrom". Grigat incolpa il rafforzamento dell'asse Iran-Hamas-Hesbollah-Houthi e quello dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, soprattutto perché l'Iran ne fa parte. Allo stesso modo, un'altra oratrice, Ulrike Becker, analizza le reti di influenza del regime iraniano in Germania, ma lo fa omettendo che i gruppi di interesse costituiscono l'essenza stessa della lotta dell'interesse capitalista per il funzionamento degli affari correnti. Vale la pena parlare delle reti di influenza del regime iraniano, ma non sono né più né meno allarmanti del groviglio globale di reti di influenza di ogni tipo e genere, comprese quelle dell'estrema destra e dei miliardari della tecnologia, per non parlare della guerra informatica. La lotta per l'influenza, è l'arma ideologica per eccellenza del mondo politico moderno. Che l'Iran stia muovendo le sue pedine è senza dubbio moralmente deplorevole, ma rimane un "gioco leale" fatto secondo le regole contemporanee del gioco. Non si può chiedere di considerare la "totalità" – come continuavano a fare gli oratori del congresso – e porre gli interessi particolari dell'Iran, selettivamente, in cima agli attuali rischi geopolitici. La visione di uno scontro di civiltà, la cui punta avanzata è Israele e Iran, è stata espressa durante il podio intitolato "Racket dell'Ordine Mondiale. Crollo del mercato mondiale? ». Sembra che dalla bocca di Grigat sia caduta questa piccola perla secondo la quale «anche l'Iran non è uno Stato come gli altri». Ciò che si doveva capire era la designazione di una figura simmetrica del male, quella del regime dei mullah, contro l'innocente e universale baluardo costituito da Israele contro l'antisemitismo. Questo perché, nella vulgata anti-tedesca, «lo Stato che non è uno Stato come gli altri» è ovviamente Israele. Di conseguenza, il grande nemico di Israele non può essere «uno Stato come gli altri», in modo che così la grande epopea del Bene e del Male raccontata da Grigat prenda il posto di un'analisi geopolitica. Due Stati «come nessun altro» portano la bandiera della guerra globale dei valori occidentali, contro i valori dell'oscurantismo islamista, sotto la quale bandiera gli antifa sono invitati a radunarsi. Sulla questione, Grigat ha avuto la sua ultima parola: «Nel momento in cui si saranno toccati i limiti dell'Illuminismo, allora ci sarà la guerra». [*12] È interessante osservare come la guerra venga legittimata in quanto proseguimento dell'Illuminismo con altri mezzi. Così facendo, gli amici di Israele non si preoccupano di spingere Israele allo scontro totale. Va detto che Thomas Ebermann ha espresso il suo amaro rammarico durante il podio finale, non senza interrogare direttamente Stephan Grigat sulle sue posizioni da falco. «Sono qui solo perché condivido con tutti voi la lotta contro l'antisemitismo», ha dovuto giustificarsi Ebermann. Ma in quella che è oramai una sinistra già fratturata, l'antisemitismo rimane l'ultimo cemento della fazione antifa. Ma se l'Iran, innegabilmente, non smette di fare discorsi di eliminazione, e di provocare Israele, va anche detto che tutti sanno che non ha alcun interesse a dichiarargli guerra aperta. Il possesso di armi nucleari non cambierebbe nulla, perché l'Iran sa che qualsiasi uso di armi nucleari contro Israele significherebbe la sua stessa fine. Allora perché mantenere lo spettro di un regime iraniano che prepara segretamente lo sterminio di Israele, se non per avallare il discorso dell'estrema destra israeliana, e lo scenario di uno scontro totale di cui l'Iran sarebbe l'istigatore (e non piuttosto la crisi finale del capitalismo)? Uno scontro su un fronte sul quale Israele è costruito come il luogo di una guerra mondiale degli "ebrei" contro l'"antisemitismo", mentre il mondo occidentale è oramai ai ferri corti circa la definizione dei significanti che lo perseguitano. Questo scenario apocalittico andrebbe piuttosto collocato nell'analisi della crisi galoppante. Su questo punto, i governi conservatori differiscono ben poco dai cosiddetti governi di sinistra. Tutti loro stanno ora gettando i loro ultimi soldi nella militarizzazione e nella sicurezza di luoghi e risorse strategiche. Non possiamo quindi escludere un vero scontro, e forse, nel contesto dell'imbarbarimento delle relazioni mondiali, una nuova guerra mondiale (come suppone Tomasz Konicz). Ma in questo conteso, focalizzare l'attenzione sul Medio Oriente equivale a che Israele o l'Iran – a seconda delle rispettive ideologie – portino il fardello della colpa di questo mondo che è in crisi. Di fatto, la retorica bellica, gli investimenti militari, il rafforzamento dei confini e la corsa alle risorse stanno aumentando ai quattro angoli del pianeta. E da ogni lato le ideologie estremiste e neofasciste stanno prevalendo.
In questo caos globale, pertanto Israele non sarebbe «uno Stato come gli altri», ma l'ultimo baluardo di difesa contro l'«antisemitismo strutturale». Cosa stanno cercando di fare gli antifa con una costruzione epica così ridicola? Certo, Israele proviene da una storia atipica, la quale sconvolge ogni classificazione usuale. Il sionismo ha preso in parola gli ideali nazionalisti, statalisti e identitari nati dal crollo degli imperi, e ha creato una versione ideal-tipica unica di quelle che sono tutte le moderne contraddizioni dello Stato-nazione. È facile rimproverarglielo sotto questa forma, per poi ignorarli altrove usando forme più confuse. Nella coscienza collettiva, anche Israele è irrevocabilmente associato all'Olocausto, e ciò sebbene il progetto sionista lo preceda di molto. Non è chiaro in che modo queste specificità storiche gli conferiscano un'eccezionalità morale per quanto riguarda le sue reali determinanti, che poi sono quelle di tutti gli stati capitalistici. L'Olocausto non può essere usato come un esonero permanente di responsabilità, e non mancano gli osservatori israeliani a mostrarci che bisogna rifiutare e denunciare questa strumentalizzazione politica. La grande assenza dall'intero congresso è stata, ahimè, la solidarietà con la sinistra israeliana, impossibile all'interno di queste coordinate ideologiche. Liberarsi dall'antisemitismo, significa avvicinarsi a Israele come a una realtà statale vivente, molteplice e contraddittoria, responsabile delle proprie imprese, e che non può essere esposta all'ingiunzione permanente di giustificarne l'esistenza. Ma Israele non ha bisogno di godere di un supplemento incondizionato di anima (così rapidamente rovesciatosi nel suo opposto) che gli sarebbe stato conferito dall'antisemitismo e dalle atrocità del XX secolo[*13]. Infine, va da sé che Israele e l'Iran - ma anche la Striscia di Gaza e la Cisgiordania - non sono riducibili ai rispettivi governi, ed è un bene, perché a partire da questo possiamo solo sperare nella caduta dei loro governi estremisti, nell'interesse immediato delle varie popolazioni oppresse. Possiamo pertanto essere d'accordo con il giudizio anticipato dato da Emanuel Kapfinger sul congresso: «L'antifascismo del congresso è diretto prima di tutto contro l'antisemitismo, tutto il resto ha solo un ruolo incidentale». Tuttavia, lo stesso autore ha anche aggiunto: «Lo Stato [tedesco] sta usando la nozione di antisemitismo dal 7 ottobre 2023 per dividere la sinistra, e per testare la propria svolta autoritaria rispetto alla frangia razzializzata della società, per farne in qualche modo il suo banco di prova […] Questo può arrivare a essere drastico: i partecipanti alle manifestazioni di solidarietà con la Palestina sono stati privati del loro diritto di asilo: i cittadini dell'UE sono stati espulsi. Nelle condizioni attuali, una critica dell'antisemitismo non può essere effettuata senza una critica della banalizzazione ufficiale della nozione di antisemitismo da parte dello Stato. […] Il congresso, pertanto, fornisce così un sostegno di sinistra alla politica statale contro l'antisemitismo, senza tematizzare il suo razzismo strutturale.» La conclusione di Kapfinger è sorprendente: «La tragedia della situazione attuale consiste nel fatto che questa lotta di sinistra contro l'antisemitismo, e contro la tolleranza dell'antisemitismo nel movimento di solidarietà con la Palestina, si stanno stabilizzando a vicenda, nei loro rispettivi deliri, grazie alla loro reciproca e rumorosa competizione.» [*14] Resta da dire che per me lo storico movimento anti-Deutsch rimane un fenomeno estraneo, che non mi "riguarda". Rappresenta soprattutto una spiegazione di una certa sinistra tedesca rivolta a sé stessa. Questa "idiosincrasia tedesca" contiene solamente la pretesa pseudo-universalista di sottolineare l'imperativo categorico adorniano, il quale comanda che si faccia tutto il possibile per garantire che Auschwitz non si ripeta. Questa fissazione finisce per non pensare alla novità di alcune certe forme di violenza; siano esse antisemite o dirette contro altri gruppi sociali. La paura che la storia si ripeta dimentica che la storia non si ripete: «Il ventre da cui è uscita la bestia immonda, è ancora fecondo» (Bertolt Brecht). Il marcatore negativo “tedesco” rimane il punto cieco del pensiero anti-Deutsch. Oggi, nel silenzio colpevole, esso si manifesta come il ritorno del represso, o anche come il positivo benvenuto che viene dato alla rimilitarizzazione della Germania da parte del congresso antifa.
La specificità tedesca consiste nel fatto che questa dicotomia - che altrove si distribuisce tra sinistra e destra - qui rimane ancorata alla sinistra, o addirittura alla sinistra radicale. O, almeno, è così che si definisce. Per altre formazioni di sinistra in altri paesi, non può essere considerata una soluzione soddisfacente quella di intraprendere la lotta contro l'antisemitismo, seguendo questo percorso tedesco. E ciò perché non c'è da ammettere alcuna gerarchia tra la lotta contro l'antisemitismo e la lotta contro il razzismo, né un assorbimento dell'una nell'altra. Le conseguenze devastanti della storia coloniale, per i loro discendenti, formano con le sue determinanti anche un razzismo strutturale. Ma ogni competizione tra vittime, compresa la formazione di “campi di sostegno”, conferma la trasformazione della competitività patriarcale in concorrenza tra perdenti. Questa mutazione si sta accelerando sotto il peso della crescente creazione di emarginati e capri espiatori, e attraverso la diffusione sociale di nuove forme di anomia e violenza. Christine Kirchhoff, una psicoanalista, in un seminario durante il congresso, ha sollevato la questione del perché la sinistra filo-palestinese abbia così bisogno di una superficie di proiezione qual è la Palestina. Suggeriva una malinconia nata dal fallimento di tutte le lotte di sinistra del XX secolo. Il lutto per questi fallimenti, e il lutto per gli ideali e per la perdita del grande soggetto che ha guidato queste lotte, non sarebbe stato elaborato. Pertanto, ora, i palestinesi sarebbero loro questo nuovo grande soggetto sostitutivo, nato sulle rovine di altre lotte per la liberazione e per l'emancipazione. Ma a essere straordinario è che gli antifa rimangano pertanto esclusi da questa eccellente questione. Non dovrebbero quindi analizzare la perdita e il dolore testimoniato dalla loro ossessione pro-Israele? In effetti, essi condividono il medesimo obiettivo dei loro avversari ideologici: Israele in quanto mezzo per la proiezione di un complesso vittimistico che, nel corso del tempo, subisce innumerevoli riconfigurazioni, e questo man mano che le ideologie più diverse se ne appropriano e lo modificano, entrandoci in contatto. L'Olocausto getta sul mondo moderno un'ombra insormontabile, costringendo ciascuno a prendere posizione nei suoi confronti. Gli “ebrei” - o i loro sostenitori “sionisti” o “israeliani” - sono l'oggetto perduto di questa catastrofe e del suo significante pervertito. Si prenda in considerazione la tesi abietta di Giorgio Agamben, che ci spiega che l'unico vero testimone del campo è colui che non è tornato, cioè il “musulmano”. [*15].
La realtà dell'Olocausto non ci consente più di scagionare nessuna posizione. È diventato un oggetto di coscienza universale. Si irradia negativamente nel cuore della civiltà capitalista, e non lascia nessuno intatto. Si dirà che non dobbiamo confondere carnefice e vittima. Ovviamente. Ma l'eterna vittima non esiste più di quanto esista l'eterno carnefice. Le posizioni ideologiche e i loro rappresentanti psichici cambiano continuamente. Assai più che di un lutto per il fallimento delle lotte per l'emancipazione del XX secolo, si tratta certamente di quel lutto impossibile per la più grande catastrofe del XX secolo, che ora si esprime nelle divisioni identitarie della sinistra tedesca, e altrove. Il significante "ebreo" rimane ostaggio di questo lutto impossibile. Ossessiona le razionalizzazioni delle quali il soggetto dell'Illuminismo ancora oggi si ammanta, aggrappandosi al proprio pezzettino di morale, di fronte alla disattenzione per un mondo valutato alla luce del massimo orrore, quello di Auschwitz; e lo fa sia per trasformarlo in un "imperativo categorico" fissato nel tempo, sia per banalizzarlo nella convinzione di poterlo rilevare proiettandolo in ogni sua attuale atrocità. Ma questa strumentalizzazione scappa in tutte le direzioni, e non risparmia nessuno. L'oscenità non ha più limite, allorché si fa passare il 7 ottobre per una continuazione dell'Olocausto, o quando si celebra il massacro di civili vedendolo come un atto di "resistenza" contro un regime israeliano che sarebbe il nuovo nazista. Il disagio viene infine confermato nel momento in cui uno dei partecipanti al workshop di Christine Kirchhoff chiede alla psicoanalista solidale palestinese, visibilmente imbarazzata, come interpretare l'«odio di sé» mostrato dagli ebrei di sinistra che criticano Israele. Il fatto che si possa essere così talmente convinti della propria buona fede anti-antisemita, e nutrire una simile visione del mondo antisemita, dà il tono a tutto questo congresso. Il filo-semitismo si rivela come la giusta estensione dell'antisemitismo, il quale ignora gli ebrei reali e le loro contraddizioni, a favore di un ebreo immaginario che avrebbe bisogno di protezione incondizionata, in una certa percezione tedesca congelata in un momento della sua storia. Se il vero ebreo non accetta di assumere la posizione in cui lo pone il suo compagno non ebreo, ecco che la cosa viene marchiata come «odio di sé». Ma questa procedura di separazione degli ebrei buoni da quelli cattivi può assumere qualsiasi forma. Si pensi alla tesi di Enzo Traverso, che contrappone l'ebreo che partorisce il progresso e la modernità rivoluzionaria all'ebreo conservatore, che invece trasformerebbe la modernità in reazione: Trotsky contro Kissinger. In questa rappresentazione, ecco che l'ebreo non solo detiene il potere esorbitante di porre fine alla modernità, dopo aver avuto il potere esorbitante di metterla in moto, ma egli è anche un traditore dei veri valori dell'ebraismo, i quali sono, secondo Traverso, solo quelli che egli attribuisce alla diaspora: «mobilità, urbanità, testualità, extraterritorialità» [*16]. Che possa essere necessario vomitare tutta questa poltiglia di ciò che finisce per essere solo un sofisticato antisemitismo, appare perfino ovvio. Da questo, non ne consegue che lo Stato di Israele debba essere costruito come se esso fosse un "rifugio" rispetto a un antisemitismo immaginato a ogni angolo di strada. ma piuttosto sono proprio questi atteggiamenti contrari a testimoniare una fissazione morbosa sui vari significanti "ebraici" che hanno finito per colonizzare tutto il pensiero morale scaricandolo sulle spalle degli ebrei reali [*17]. Tutte queste forme incondizionate di solidarietà - con Israele, da un lato, e con la Palestina, dall'altro - perpetuano la moderna logica antisemita di fare eccezione per l'ebreo (o per “Israele” per procura). Per farlo, bisogna dichiarare "Israele" responsabile di tutti i mali della regione oppure, al contrario, difenderlo dalla minima critica, come si fa con un irresponsabile totale, senza analizzare l'impulso aggressivo che sta alla base, sia di questa posizione di protezione, sia di questa posizione di accusa. Naturalmente, si può obiettare che il fattore ebraico è stato reso inaccessibile a una simile normalizzazione. Esso si trova a essere sovradeterminato in tutto e per tutto. Dal momento che - come abbiamo detto - come possiamo "elaborare il lutto" per la Shoah? Eppure, in ogni caso, è questo ciò che sarebbe necessario per riuscire a creare le condizioni per un vero dibattito. Sennò significa che tutti possono arrabbiarsi spendendo poco - qui contro i neofascisti al potere, là contro gli islamisti - senza pronunciarsi sulle condizioni del loro emergere, e sulla solidarietà oggettiva a questi fenomeni. Le nuove affinità filo-israeliane dell'estrema destra globale, notoriamente antisemita, completano la traiettoria di questa confusione ideologica. Nella competizione capitalistica esacerbata dalla crisi, l'ultima parola va alla logica dello scontro totale. La cosa si riflette nei pietosi campismi di una sinistra incapace di pensare alla totalità, anche quando passa il tempo a invocarla, come è accaduto durante questo congresso. La forma più efficace di negazione è diventata quella dell'eccessiva affermazione di un discorso autosufficiente, il quale non si sente nemmeno più obbligato a confrontarsi con le obiezioni o con l'oggetto di riferimento, come ho notato dal disprezzo che la mia espressione di stupore ha suscitato in alcune persone. È sorprendente che i rappresentanti della critica del valore tedesca partecipino a un evento del genere per ampliare il proprio pubblico. Così facendo, svendono la trattazione teorica delle contraddizioni del sistema capitalistico, che è la vera forza teorica della critica del valore.
- Sandrine Aumercier, 8 maggio 2025 - Pubblicato su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -
NOTE:
[1] https://gegenform.tem.li/selbstverstaendnis/>
[2] Ad esempio Felix Riedel, "Mehr Islam ist auch keine Lösung", Jungle World, 29/06/2017.
[3] Ascolta il podcast "Das Zeitalter des Populismus" del 16/09/2024 con Jan Gerber ospite su Distanza-Aufklärung & Kritik.
[4]Haushaltsausschuss beschließt Änderungen des Grundgesetzes: https://www.bundestag.de/dokumente/textarchiv/2025/kw11-pa-haushalt-sonntag-1056790>
[5] Ted Hesson, "Trump deporta le persone a un ritmo più lento rispetto all'ultimo anno in carica di Biden", Reuters, 22/03/2025.
[6] Pólemos, Kritik der Flüchtlingspolitik, n°7, 2016. Vedi l'editoriale: https://kritischetheorie.wordpress.com/2016/03/10/kritik-der-fluechtlingspolitik/
[7] https://dserver.bundestag.de/btd/20/151/2015139.pdf>
[8] Ivan Segré, La réaction philoémite, Paris, Éditions Lignes, 2009.
[9] Sono rappresentati, con il loro consenso, sul sito web della cospirazione dhimmi-watch.
[11] http://www.matthiaskuentzel.de/contents/adolf-ahmadinejad-vor-den-un>
[12] "Wenn die Grenzen der Aufklärung erreicht sind, dann muss es Krieg geben können." (Stephan Grigat, Podium "Racketisierung der Weltordnung. Zerfall des Weltmarkts? ", sabato 3 maggio, Antifa out of line, Kongress gegen die autoritäre Formierung, Berlino.
[13] Si vedano anche i numerosi lavori di Moshe Zuckermann su questa doppia impasse.
[14] Emanuel Kapfinger, "Kritik des Antifa-Kongresses in Berlin", Emanzipation. Zeitschrift für ökosozialistische Strategie, 22/04/2025.
[15] Giorgio Agamben, Ce qui reste d'Auschwitz, Parigi, Payot, 1999.
[16] Enzo Traverso, La fine della modernità ebraica, Parigi, La Découverte, 2016, p. 8, p. 17, p. 20.
[17] Anche il libro di Bruno Chaouat, La teoria è buona per gli ebrei, Liverpool, Liverpool University Press, 2020, è interessante da leggere.
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