Esiste davvero l'inferno? Può sembrare una domanda fuori tempo massimo: eppure, per quasi due millenni questo interrogativo ha determinato la vita e le paure di intere generazioni. Fuoco e fiamme propone un viaggio, accurato e inedito, alla scoperta di un luogo a lungo ritenuto una realtà fisica e tangibile. Nella storia del cristianesimo, infatti, la sua esistenza come sito realmente individuabile è stata utilizzata per influire sui comportamenti collettivi e, per ciò stesso, fu strenuamente difesa dalle autorità religiose. Sotto terra, nelle profondità dei vulcani, sul sole o ai confini dell'universo: molti sono stati gli angoli del cosmo in cui lo si è posizionato, e in tutti i casi la trattazione si è indirizzata verso un inferno vero e mai metaforico. Perché il regno del male fu concepito in un certo modo? Cosa implicava, nella vita di ogni giorno, insistere sulla sua fisicità, e non relegarlo in una dimensione trascendente e immateriale? Infine, come ha fatto l'inferno a superare i cambiamenti filosofici, teologici e culturali delle varie epoche, restando parte integrante della dottrina cristiana? Fuoco e fiamme cerca di trovare risposta a tali quesiti, partendo dall'età moderna per arrivare ai dibattiti che, ancora oggi, agitano la società. Con questo libro Matteo Al Kalak ripercorre la concezione dell’inferno come luogo fisico, nella sua dimensione spaziale, seguendo una narrazione che dura da millenni e si è fissata nelle strutture mentali ed emotive degli uomini. La prospettiva adottata è quella della storia culturale, che cerca di comporre fra loro ambiti e linguaggi diversi per restituire un quadro complesso, vario e articolato. Tale approccio, certamente fecondo, impone scelte di cui è necessario dare conto per orientarsi in una materia scivolosa. Il principale nodo da sciogliere è stato l’atteggiamento da assumere di fronte a un elemento che, nella tradizione presa a riferimento (il cristianesimo), è strutturalmente intrecciato al discorso sul regno oscuro: il male e la sua personificazione. È possibile distinguere l’analisi del luogo della dannazione dall’entità (individuale o fattuale) che la provoca? Nelle pagine del libro si è tentato di tenere separati, per quanto possibile, questi due elementi, isolando la trattazione sull’inferno dalla “biografia” del suo signore (secondo vari racconti, un angelo ribellatosi al suo creatore). Sia perché all’essere che incarna il male sono stati dedicati infiniti studi; sia perché distinguere peccato e punizione, crimine e condanna, consente di mettere l’accento su aspetti differenti che, nel tempo, ebbero vite autonome seppure legate.
(dal risvolto di copertina di: Matteo Al Kalak, "Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell’inferno". Einaudi, Pagg. 270, € 25)
Il regno delle tenebre abita nell’aldiquà
- Nell’antica Mesopotamia il soggiorno nell’aldilà era ritenuto ciclico, mentre la fede cristiana lo ha reso definitivo. Qualcuno pensa che l’inferno sia vuoto, di certo esiste sulla Terra -
- di Marco Rizzi -
Per Dino Buzzati l’inferno esiste e vi si accede da una delle gallerie della metropolitana di Milano, almeno stando al suo racconto "Viaggio agli inferni del secolo" pubblicato pochi anni dopo l’inaugurazione della linea 1, che forse non per caso è nota come «la rossa», anche se nella descrizione buzzatiana di fuoco e di diavoli col forcone non c’è neppure l’ombra. Al contrario, il primo girone infernale in cui si imbatte il narratore — nelle sue vesti di giornalista inviato a verificare la notizia — è costituito da un immenso ingorgo stradale, che si propaga a un’intera città, fatto di automobili bloccate, impossibilitate ad andare avanti o indietro. Al loro interno uomini, per lo più soli, che non possono nemmeno scendere, talmente fitto è l’ingorgo: pallidi, svuotati, vinti, senza più alcuna speranza. Il lungo reportage si conclude con l’inquietante interrogativo che si pone l’autore, tornato al mondo dei vivi (si fa per dire): «Considerando ciò che ho potuto udire e vedere, mi domando anzi se per caso l’inferno non sia tutto di qui, e io mi ci trovi ancora, e che non sia solamente punizione, che non sia castigo, ma semplicemente il nostro misterioso destino». La penna di Buzzati dà forma narrativa a una riflessione che ha percorso gran parte del XX secolo e che, passata la superficiale ondata di ottimismo generatosi alla sua conclusione e all’apertura del nuovo millennio, è tornata di prepotente attualità: l’inferno è intrinseco alla condizione umana e non si trova in un aldilà, ma neppure in un altrove, è semplicemente la nostra esistenza, individuale e collettiva.
Certo, il XX secolo, con le sue due guerre mondiali, i genocidi di massa, le armi atomiche, l’Aids, aveva tutte le caratteristiche per essere definito «il secolo degli inferni» a parere di George Minois (Piccola storia dell’inferno, il Mulino, 1995; l’originale francese è del 1994); ma, se possibile, il XXI ha apportato ulteriori argomenti, tra esplosione demografica, migrazioni forzate, degrado ambientale, surriscaldamento globale, epidemie. «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme», annota Italo Calvino nelle Città invisibili, facendo eco alla frase di Sartre: «L’inferno sono gli altri» (A porte chiuse). Eppure non è sempre stato così, anzi. Sin dalle prime rappresentazioni letterarie risalenti al secondo millennio prima di Cristo e originatesi nell’area mesopotamica, l’inferno si definisce in contrasto al mondo presente, come un «altro mondo» a cui si accede varcando la soglia rappresentata dalla morte. Un mondo caratterizzato dall’oscurità, dall’indeterminatezza, da una condizione che, se non si può definire di dannazione come siamo abituati a considerarla, non è certo felice, bensì umbratile e insoddisfacente: la pienezza della vita resta una possibilità limitata all’aldiquà. In questi testi, le descrizioni dell’aldilà si soffermano a lungo sul giudizio che attende le anime dei morti, i cui criteri non fanno che riprodurre i codici sociali del mondo dei vivi: il defunto ha rispettato l’autorità? Ha commesso furti o frodi? Ha violato i doveri del culto degli dèi? E così via, per determinare le pene, descritte con dovizia di particolari, a scontarsi nei luoghi infernali. Molto più indefinite appaiono le caratteristiche del destino che attende quanti dovessero superare positivamente l’esame, anche se le concezioni cicliche del tempo proprie di queste culture implicano che pene e ricompense non abbiano carattere eterno, ma si risolvano in un ritorno alla vita segnato dall’inizio di un nuovo ciclo: tanto cosmico, quanto individuale. Temi e idee che si ritrovano anche nel celebre Libro dei morti dell’antico Egitto, la cui genesi risale all’incirca alla metà del secondo millennio avanti Cristo: anche in questo caso, le sofferenze infernali sono riportate con dettagli che si ritroveranno poi nelle rappresentazioni cristiane.
Con la grande stagione della riflessione filosofica greca, inaugurata da Platone, l’accento si sposta sulla prospettiva che attende quanti, invece, hanno condotto una vita buona e virtuosa, sia sul piano individuale, sia in relazione ai comportamenti sociali, una volta che la morte abbia liberato la loro anima dal corpo che la tratteneva come in una prigione. Nel più esteso dei suoi dialoghi, La Repubblica, Platone narra il mito di Er, valoroso soldato ucciso in battaglia, ma rimandato in vita dai giudici ultraterreni per informare e ammonire gli uomini circa il destino che li attendeva nell’aldilà. Secondo il giudizio ricevuto le anime vengono inviate in un luogo inferiore — i malvagi — o in uno superiore — i giusti — per un periodo di tempo più o meno lungo, proporzionato alle colpe commesse o al bene conseguito. Al termine di questo periodo, le anime si riuniscono in un grande prato, per raccontare le delizie provate da quanti erano stati nei luoghi superi o delle sofferenze patite da coloro che erano precipitati negli inferi, per poi fare ritorno alla vita terrena reincarnandosi in esseri umani o, per chi non avesse ancora espiato a sufficienza, in animali, non prima però di aver bevuto dalle acque del fiume Lete che fa dimenticare loro tutto quanto sin lì sperimentato. Da Platone in poi si struttura così anche un’idea positiva dell’aldilà, come luogo di felicità e premio per i giusti — è il caso del libro biblico della Sapienza — o per quanti abbiano contribuito alla grandezza dello Stato, come nel Sogno di Scipione di Cicerone. Il cristianesimo si innesta e al tempo stesso supera queste concezioni. Come da ultimo ha mostrato Barth Ehrman (Inferno e paradiso. Storia dell’aldilà, Carocci, 2020), la fede nella resurrezione di Gesù ha portato i primi cristiani a rovesciare il rapporto sin lì esistente tra aldilà e aldiquà, tra vita e morte. La definitiva sconfitta di quest’ultima ad opera del Risorto rende privo di senso qualsiasi va e vieni tra vita terrena e ultraterrena, per connotare invece il destino dei credenti quale felicità che non ha fine. Il paradiso, il ritorno alla condizione di beatitudine pensata da Dio per l’uomo nel giardino della creazione, in altri termini la vita eterna, è il focus su cui si concentra la prima predicazione cristiana. Non a caso, Paolo definisce Cristo «nuovo Adamo».
Solo in un secondo momento il cristianesimo riprende e trasforma le concezioni del giudizio e dell’inferno preesistenti, dando origine alla visione escatologica che a lungo ha egemonizzato la cultura occidentale: paradiso e inferno come luoghi «geografici» in cui si consuma il destino eterno di ciascuno, precisamente localizzati nei cieli e sottoterra, l’uno spazio di dolore fisico per la varietà dei patimenti inflitti ai dannati; di godimento spirituale e immateriale per i beati, l’altro. La rivoluzione scientifica prima e l’Illuminismo poi hanno messo in crisi questa rappresentazione, costringendo le Chiese cristiane, almeno quelle storiche, a svuotarne progressivamente il significato. Come osserva Matteo Al Kalak nel suo Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell’inferno (Einaudi), già nella prima metà del Novecento ha preso forma l’insofferenza teologica verso una geografia materiale dell’aldilà. Uno dei maggiori teologi cattolici del Novecento, il francese Yves Congar, respingeva risolutamente i toni orrorifici della tradizione — fiamme, torture, demoni e forconi — a vantaggio di una concezione più spirituale (l’inferno come «assenza di Dio») già propria di alcuni filoni del primo cristianesimo. Dal canto suo, Hans Urs von Balthasar si è spinto a ipotizzare che l’inferno esista (essendo stato dogmatizzato, la sua esistenza non può essere revocata in dubbio dal punto di vista dottrinale), ma sia destinato a rimanere vuoto, la misericordia di Dio essendo tale da redimere ogni uomo. Se così fosse, l’unico inferno abitato resterebbe solo quello che si costruisce e si sperimenta ogni giorno qui sulla Terra.
- Marco Rizzi - Pubblicato su La Lettura del 23/6/2024 -
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