Jérôme Baschet - Il malessere della decolonialità - Revue Terrestre - 1 maggio 2025
- A proposito del libro collettivo "Critica della ragione decoloniale. Sur une contre-révolution intellectuelle", pubblicato da L'Échappée nel 2024 -
Questo libro costituisce la traduzione parziale di un volume collettivo, coordinato da Pierre Gaussens e Gaya Marakan e pubblicato nel 2020 dall'Universidad Nacional Autónoma de México, con un titolo che mostra il suo riferirsi a Franz Fanon: "Piel blanca, Máscaras negras. Crítica de la razón decolonial." Di quel volume, sono state conservate "l'introduzione" dei due coordinatori e "quattro contributi" (su dodici), a cui si è aggiunto un testo proveniente da un'altra opera collettiva, pubblicata in Argentina nel 2021. Per quanto riguarda la prefazione di Mikaël Faujour, essa offre una presentazione critica della ricezione del pensiero decoloniale in Francia. La ragion d'essere del libro, è la preoccupazione degli autori per la crescente influenza, nel mondo accademico e nel campo intellettuale, del pensiero decoloniale, o più precisamente di una sua forma particolare, della quale essi giudicano duramente i pregiudizi, e che non esitano a qualificare come una "impostura intellettuale". Accusando gli autori decoloniali di usare diversi stratagemmi per porre così le loro tesi al di sopra di ogni messa in discussione, gli autori ritengono sia necessario accendere un fuoco di contrattacco o, per lo meno, aprire un dibattito ragionato su una forma di pensiero in piena espansione. Questo è ciò che giustifica l'interesse per questo libro, e la partecipazione a tale dibattito. Va notato, fin dall'inizio, che questo volume non tenta di fornire una panoramica generale del pensiero decoloniale [*1]. Un tale punto è già stato oggetto di critiche che sottolineano sia il carattere limitato dell'impresa, che l'esiguo numero di autori presi in considerazione [*2]. Gli autori del volume lo spiegano nell'introduzione: non sono affatto inconsapevoli della diversità delle correnti decoloniali, ma hanno scelto di concentrare le loro analisi sul gruppo "Modernità/Colonialità", fondato alla fine degli anni '90 dal sociologo peruviano Aníbal Quijano, dal filosofo argentino-messicano Enrique Dussel e dal semiologo argentino residente negli Stati Uniti Walter Mignolo. e a cui si associarono anche Ramón Grosfoguel, Edgardo Lander, Nelson Maldonado-Torres, Catherine Walsh e Santiago Castro-Gómez. Questa opzione è giustificata dal fatto che il gruppo – e in particolare le sue figure più importanti – ha acquisito una notevole influenza nel mondo accademico e intellettuale, sia in America Latina che in Nord America e anche oltre.Tra l'altro, tale gruppo ha finito per costituire la matrice iniziale del pensiero decoloniale, ampiamente riprodotta da molti altri autori, soprattutto delle generazioni più giovani. Sembra pertanto legittimo nutrire un particolare interesse per questo gruppo: ad esempio, Daniel Inclán critica la filosofia della storia che sta alla base delle sue tesi; Rodrigo Castro Orellana analizza i concetti di "differenza coloniale" e di "pensiero di confine" in Mignolo; Brian Jacob Bonilla Avendaño identifica i pregiudizi relativi alla denuncia dell'eurocentrismo da parte di Grosfoguel; Martin Cortés protesta contro quell'ontologia dell'origine e della purezza che prevale in questi stessi autori; e infine, Andrea Barriga affronta il concetto centrale di "colonialità", che è una delle principali eredità di Quijano [*3]. Giustificata e pertinente, questa scelta segna tuttavia un limite del libro: la "critica della ragione decoloniale" si realizza solo nella misura in cui essa si limita al gruppo Modernità/Colonialità, e a coloro che ne riprendono le tesi fondamentali. Di conseguenza, per quanto fondata possa essere la sua critica, il libro non può pretendere di segnare il destino del pensiero decoloniale nel suo insieme. A tal proposito, si possono citare due casi interessanti. Difendendo un'epistemologia del Sud, incline alla decolonizzazione epistemica, Boaventura de Sousa Santos viene citato dagli autori del volume e giudiziosamente rimosso dalle loro critiche [*4]. D'altra parte, è deplorevole che l'antropologo colombiano Arturo Escobar non venga preso in considerazione, anche se era vicino al gruppo Modernité/Colonialité: rimane tuttavia una delle figure più interessanti delle correnti decoloniali, e il suo lavoro, basato su vere e proprie indagini sul campo, sfugge in gran parte alle critiche formulate in questo libro [*5]. Inoltre, è importante situare il punto di vista dei suoi autori, il quale, ovviamente, non ha nulla a che fare con una critica conservatrice che celebra la grandezza della civiltà occidentale, o che insegue le fantasie del wokismo. Tutti rivendicano una prospettiva di emancipazione, combinando la critica del colonialismo e l'ancoraggio alle correnti non dogmatiche del marxismo. Così, Cortés si basa sul "comunismo Inca" di José Carlos Mariategui, e sul tardo Marx delle lettere a V. Zasulich, mentre Inclán si appella a Walter Benjamin. Soprattutto, va detto che Fanon è la figura tutelare del volume, ed essa collega il marxismo e l'anticolonialismo. L'introduzione chiama a raccolta il suo pensiero contro gli autori decoloniali – che pure lo rivendicano, ma ai quali si può rimproverare di aver tradito le sue lezioni principali. Ricorda la sua capacità di riconoscere nelle sue dimensioni più profonde l'esperienza del colonizzato, ma senza mai rinunciare a una coscienza universalista. Viene anche sottolineata la sua insistenza nel rifiutare ogni confinamento in un'identità nera e, più in generale, nelle categorie imposte dal dominante: «dal momento in cui il accetta la scollatura imposta dall'europeo, non ha più tregua»; perché «l'uomo bianco si trova a essere racchiuso nel proprio candore, e il nero nel suo essere nero»; ed è per questo che è necessario «liberare l'uomo di colore da sé stesso», e proclamare che il «nero non è, e nemmeno l'uomo bianco è». Così, Fanon porta alla luce l'oppressione coloniale e la combatte, proclamando, per quanto possibile lontano da qualsiasi essenzializzazione delle identità oppresse: «Sono un uomo ed è tutto il passato del mondo che devo riprendermi. Non sono solo responsabile della rivolta di Santo Domingo. Ogni volta che un uomo ha fatto trionfare la dignità dello spirito, ogni volta che un uomo ha detto no a un tentativo di asservire il suo prossimo, io ho sentito solidarietà con il suo gesto» [*6]. Tutto ciò che si può rimproverare agli autori decoloniali, come vedremo in seguito, è proprio ciò a cui, con queste ammirevoli osservazioni, Fanon sfugge. Nel tentativo di approfondire il dibattito sollecitato dagli autori del libro, esporremo, raggruppandoli in quattro assi principali, le critiche che essi rivolgono ai pensatori decoloniali, che sono essenzialmente rilevanti e importanti. Li estenderemo su alcuni punti e li sottoporremo a loro volta a critiche, proponendo di individuare alcuni pregiudizi legati al punto di vista da cui si formula la critica. Infine, per superare i limiti delle due posizioni in gioco, proporremo di operare un cambiamento che ci permetta di ripensare la posta in gioco della decolonialità attraverso il prisma di un'esperienza concreta di lotta, l'esperienza zapatista, intesa come fonte di ispirazione rilevante per collegare le lotte dei subalterni del Sud con le prospettive anticapitaliste globali [*7]. Va inoltre notato che, mentre la discussione rimarrà in gran parte incentrata sulle tesi del gruppo "Modernità/Colonialità", la questione va oltre gli spazi in cui esercita un'influenza diretta. In realtà, si tratta di un'occasione per impegnarsi in un dibattito più ampio sul pensiero decoloniale, anche in Europa, a partire dall'individuazione di uno dei suoi nuclei problematici, anche se si riconosce che non tutte le correnti del pensiero decoloniale ne riproducono necessariamente le fattezze.
Geopolitica della conoscenza decoloniale
Non ci soffermeremo molto sul primo asse della critica portata avanti dagli autori del libro. Nell'introduzione, in particolare, essi denunciano un'enfasi teorica, volutamente carica di gergo, associata all'assenza di qualsiasi ricerca empirica, alla mancanza di conoscenza dei mondi indigeni e delle loro lingue, e per di più senza alcun legame con le lotte indigene del continente (pp. 39-40 e 55-57). Essi insistono sulla posizione contraddittoria di una teoria che pretende di enunciare il punto di vista dei subalterni di un Sud colonizzato, ma che si sta sviluppando nei centri universitari nordamericani. Su questo punto, la critica lanciata da Silvia Rivera Cusicanqui, e ripetuta nel volume, non manca di forza. Il sociologo boliviano e aymara, il cui importante lavoro è purtroppo poco conosciuto in Francia, ha introdotto gli studi subalterni dall'India all'America Latina e dal 1983 in poi ha promosso il "Taller de Historial Oral Andina", un esperimento innovativo di co-costruzione della conoscenza con le comunità indigene [*8]. Per lei, gli autori decoloniali hanno «creato un gergo, un apparato concettuale e forme di riferimento e contro-riferimento che hanno allontanato la ricerca accademica dall'impegno e dal dialogo con le forze sociali insorti. Il Mignolo e compagnia hanno costruito un piccolo impero nell'impero» (p. 43-44). Li accusa anche di estrattivismo intellettuale e, più specificamente, di aver ripreso le proprie idee distorcendole all'interno di «un discorso profondamente depoliticizzato sull'alterità» che neutralizza le pratiche di decolonizzazione (p. 95-96) [*9]. L'approccio di Rivera Cusicanqui, che in gran parte si sovrappone a quello proposto dagli autori di questo libro, è stato costruito al contrario a partire dalla rivendicazione di una duplice appartenenza «aymara ed europea» (p. 94) e da una lunga esperienza di pratiche di decolonizzazione intrecciate con le lotte indigene andine.
Semplicismo storico e "1492-centrismo"
I contributori del libro accusano i pensatori decoloniali di attenersi principalmente a dei "dati storici scheletrici". Al di là dei molti errori di fatto, il cui elenco sarebbe noioso [*10], il cuore del semplicismo storico del gruppo "Modernità/Colonialità" potrebbe essere utilmente designato per mezzo del neologismo che si riferisce alla "centralità del 1492". Naturalmente, questo non significa in alcun modo negare l'importanza fondamentale di tale data, la quale indica l'inizio di un ciclo storico segnato da un'espansione europea senza precedenti, che comporta la colonizzazione di quasi un intero continente, la brutale distruzione di intere civiltà e il crollo delle popolazioni amerinde, decimate del 90%. È, d'altra parte, problematico considerare, come fanno gli autori decoloniali, che tutto è nato - e tutto in una volta - nel 1492 (anche se non intendiamo questa data... letteralmente, ma piuttosto come un segnale dell'inizio della colonizzazione americana). Per Quijano, «nel 1492, con la nascita dell'America e dell'Europa, del capitalismo e della modernità, iniziò un processo di ri-concentrazione brutale e violenta del mondo» (p. 190). Sarebbe nato tutto: non solo l'idea dell'Europa e dell'America [*11], ma anche niente di meno che il capitalismo e la modernità. Il 1492 acquista così una centralità per l'intera storia dell'umanità. Ancora Quijano: «America Latina (...) è il soggetto fondamentale della storia degli ultimi cinquecento anni. Con la costituzione di quella che chiamiamo America, si costituisce anche il capitalismo mondiale e inizia il periodo della modernità»; «Allo stesso tempo e nello stesso movimento, il potere capitalista emergente diventa globale... e anche il colonialismo e la modernità si sono affermati come assi centrali del suo nuovo modello di dominio» (p. 212). Facendo della conquista americana il perno di tutta la storia moderna,ecco che questo 1492-centrismo diventa anche un presunto americano-centrismo, a partire dal fatto che l'America Latina viene impostata come un «soggetto fondamentale della storia». Abbastanza comprensibili da un punto di vista latinoamericano, simili affermazioni però tendono a oscurare il ruolo storico di altri continenti non europei, e a minimizzare l'oppressione coloniale subita dai loro popoli [*12]. Inoltre, questo è storicamente inverosimile: tra il XVI e il XVIII secolo, né l'America, e tantomeno l'Europa, possono essere considerate come il centro del mondo, ciò perché l'India e la Cina rimasero potenze considerevoli che l'Europa non era ancora in grado di sfidare. Fu solo nella seconda metà del XVIII secolo che si verificò una svolta decisiva con l'inizio della conquista dell'India da parte della Gran Bretagna e con l'inizio della "grande divergenza" tra Cina ed Europa; è solo a partire dal XIX secolo che si può parlare di un mondo interamente eurocentrico, nel quale l'Europa esercita un'egemonia completa [*13]. Nel ricordare questi fatti, non si sta in alcun modo cercando di minimizzare l'importanza storica della morsa europea sul continente americano (il suo ruolo deve essere analizzato con precisione, anche tenendo conto dei suoi effetti ritardati); ma non dobbiamo tuttavia dargli un campo d'azione che allora non può avere. Allo schematismo storico decoloniale, bisogna pertanto opporre che la dominazione planetaria europea si è formata in modo progressivo e attraverso due momenti essenziali ben distinti: la colonizzazione del continente americano da parte delle potenze iberiche, prima; e poi il controllo esercitato sulle grandi potenze asiatiche e sull'Africa da parte delle potenze del nord Europa. Ancora più difficile, è sostenere che il capitalismo e la modernità siano nati tutti in una volta nel 1492. Barriga sottolinea in tal modo l'incoerenza di Quijano, il quale ha proclamato nel 1942 la nascita della modernità, ma che poi deve - quando vuole definire l'episteme moderna - andare a riportarsi al Seicento e alla figura di Cartesio, ritenutone il fondatore (p. 212). Più in generale, fare del 1492 l'inizio della modernità significa ripetere l'assurdità delle periodizzazioni scolastiche, le quali ci hanno abituato a credere che il Medioevo avrebbe poi ceduto il passo alla gloria dei cosiddetti Tempi Moderni. Qualunque cosa si pensi di una tale rottura, è imperativo riconoscere che la modernità - se vogliamo dare a questo termine quanto meno un significato concettuale che sia un po' coerente - si è formata solo tra la metà del XVII secolo - con l'ascesa delle scienze moderne, con l'individualismo e con la grande divisione tra uomo e natura - e tra la seconda metà del XVIII secolo; con l'Illuminismo e con l'emergere del moderno regime di storicità basato sull'idea di Progresso.[*14] Per quanto riguarda l'idea che il capitalismo sarebbe iniziato nel 1492, questa è una questione troppo vasta per venire discussa qui [*15]. Ma in questo però possiamo seguire Barriga, il quale nota come gli autori decoloniali non mostrino il minimo interesse alle dinamiche storiche che possono essere esistite in Europa prima del 1492, né nei confronti di altri fenomeni successivi che vengono classicamente associati all'emergere del capitalismo, come l'accumulazione primitiva o le recinzioni. Affinché la sua costruzione teorica possa produrre l'effetto desiderato, il capitalismo dovrebbe nascere nella sua interezza solo grazie al solo effetto della conquista dell'America. E se Mignolo si vantava di star disfacendo il mito del glorioso Rinascimento svelandone "il suo lato oscuro" (la colonizzazione dell'America), in tal modo non stava facendo altro che riprodurre il povero schema educativo in virtù del quale il Rinascimento avrebbe improvvisamente dato vita a un mondo completamente nuovo, moderno, che non avrebbe più avuto nulla a che fare con il passato medievale. Ancora più cruciale è l'idea secondo cui la colonialità [*16] acquisisca immediatamente quelle che sono tutte le sue caratteristiche fondamentali. Ecco che così la nozione di razza, concepita come categoria fondamentale della colonialità, deve essere nata proprio nel 1492. Questo è ciò che sostiene Quijano, e Barriga gli rimprovera, in modo convincente (pp. 190-197), di stare pertanto affermando, sia che non c'era nulla prima («l'idea di razza non esisteva nella storia del mondo prima dell'America») sia che essa appaia all'improvviso («l'idea di razza è, senza dubbio, lo strumento più efficace di dominio sociale inventato negli ultimi cinquecento anni. Prodotto all'inizio della formazione dell'America e del capitalismo, nel passaggio dal XV al XVI secolo, si è imposto ai popoli del pianeta nei secoli successivi come parte integrante del dominio coloniale dell'Europa»). Tuttavia, Barriga sottolinea il fatto che la nozione di razza sia assente negli autori spagnoli del XVI secolo, come Sahagún o Las Casas, ed essa appaia come tale solo nel XVIII o, meglio ancora, nel XIX secolo, mentre invece se ci riferiamo a una concezione non biologica della razza, dobbiamo invece risalire allora all'antichità romana. Più in generale, quella che le opere storiche ci invitano a comprendere [*17] è una lunga storia del lento emergere della nozione di razza e delle discriminazioni a essa associate. Dobbiamo perciò abbandonare il binomio America/1492 - che è stato visto e usato come se fosse il colpo di bacchetta magica della storia - per far posto invece a un processo complesso e contraddittorio; tanto più che l'inferiorizzazione degli altri popoli non è affatto una particolarità europea, essendo, nella storia dell'umanità, l'etnocentrismo un tratto ampiamente condiviso . E a conti fatti, tutto sommato, la critica al semplicismo storico degli autori decoloniali sembra essere ben fondata. Cercando di far emergere delle Grandi Entità dicotomicamente opposte nello spazio-tempo unificato della modernità, finiscono per essere incapaci di pensare a dei veri processi storici, intesi nelle loro contraddizioni e nelle loro dimensioni multifattoriali. Tuttavia, sembra possibile salvare la nozione di colonialità – un modo opportuno, questo, per poter cogliere le asimmetrie associate al fatto coloniale, visto in tutte le sue dimensioni – a condizione però che si restituisca la sua storia, e si colga la diversità delle sue forme. Così, nella prospettiva che difendo, non esiste solo una colonialità, ma ce ne sono almeno due, le quali corrispondono ciascuna a configurazioni successive della colonizzazione europea, e sono governate da dei principi radicalmente diversi: la prima delle due, dal XVI secolo in poi, non è né moderna né capitalistica, ma piuttosto feudale-ecclesiale, e il suo principio iniziale di espansività è costituito dall'universalismo cristiano; solo la seconda, dalla fine del XVIII secolo, è stata propriamente capitalista, guidata com'era dalla logica dell'espansione del valore e dai principi del progresso e della modernità [*18]. E anche se non aderiamo a questa tesi, sarebbe quantomeno nel nostro interesse cogliere la colonialità come se fosse un fenomeno storico in profonda trasformazione, strettamente legato alla storia del capitalismo stesso.
Essenzializzazione dell'Occidente
Ignorando una vera analisi storica, gli autori decoloniali si accontentano di mettere in scena come dei blocchi omogenei e fissi. Ecco perché una delle principali critiche nei loro confronti si riferisce alla loro essenzializzazione dell'Occidente, vale a dire, la sua riduzione a un'unica essenza immutabile. Naturalmente, essi, i decoloniani, non ignorano che ci sono diverse correnti all'interno del pensiero europeo. Ma, come osserva Cortés, queste differenze contano poco e sono state sussunte sotto l'unità fondamentale dell'eurocentrismo. E Mignolo afferma: «Eurocentrismo e occidentalismo sono la stessa cosa: entrambi si riferiscono a una centralizzazione e a un'egemonia dei principi di conoscenza e di interpretazione che si possono osservare in tutte le loro varianti, anche quando vi sono differenze tra loro, come (...) tra cristiani, liberali e marxisti» (p. 145) [*19]. Allo stesso modo, anche Castro fa spazio al tentativo di Grosfoguel di evitare il riduzionismo dicotomico ricorrendo alla nozione di "etero-archia" di Kyriatos Kontopoulos, usata per articolare le divisioni etnico-razziali con altre gerarchie all'interno del moderno sistema-mondo; ma conclude che Grosfoguel ritorna sempre all'idea di «un modello coloniale di potere», il quale è lo stesso da cinque secoli, e si basa su una razionalità unica e inequivocabile (pp. 101-102). Di conseguenza, per questi autori, non ci può essere un pensiero veramente critico ed emancipatorio all'interno della modernità occidentale, dal momento che la colonialità verrebbe sistematicamente «passata sotto silenzio» (Mignolo, p. 225). Anche in questo caso, Cortés sostiene il carattere semplificatore di una prospettiva simile, la quale ha come contropartita l'idealizzazione dei mondi indigeni, le cui forme interne di dominio, a cominciare da quelle degli imperi Inca e Mexica, vengono ignorate. Ma Mignolo vede la liberazione possibile solo «al di fuori della modernità», nelle lotte dei popoli indigeni e a condizione che il rifiuto di ogni influenza moderna permetta loro di recuperare la presunta purezza della propria identità (pp. 148-149). In queste condizioni, la denuncia sistematica dell'eurocentrismo permette agli autori decoloniali di liquidare tutto il marxismo a basso costo: qui, non è necessaria alcuna discussione, poiché l'accusa di eurocentrismo equivale a una condanna irrevocabile. Questo è un punto cruciale, che spiega in gran parte l'approccio degli autori del libro e, forse, anche le loro reazioni, a volte troppo epidermiche: fluttua come se si percepisse l'odore di una lotta per la vita o la morte, tra decoloniali e marxisti, con quest'ultimi che protestano contro un'operazione di liquidazione pura e semplice. Ma il nocciolo della critica all'essenzializzazione dell'Occidente sembra essere proprio questo. Come sottolinea giudiziosamente Inclán, la riduzione dell'Europa a un intero blocco situato dalla parte della dominazione coloniale, ci impedisce di prendere in considerazione i rapporti di dominio al suo interno – dimenticando così che ci sono «dominati, tra i dominanti» e «dominanti tra i subalterni» (Gaussens-Makaran, p. 34). Ansioso di «pensare alla dialettica dell'Europa nei processi di colonizzazione», Inclán individua, dietro la colonialità, una matrice che descrive come la «valorizzazione del valore», che «per realizzarsi, deve prima colonizzare l'Europa», per poi «creare le condizioni per l'espansione del capitalismo» verso l'America (p. 61). Anche se non siamo d'accordo con i dettagli della sua proposta, emerge che una lettura storica che sia in qualche modo solida, deve analizzare le interazioni tra le forme di dominio interne all'Europa e le forme di dominio che essa impone ai popoli colonizzati. Pertanto, il punto di vista dei subalterni non porta a esibire solo la linea di scissione opposta all'Occidente e ai suoi Altri, ma porta a una ricerca di tutto ciò che accomuna i dominati del sistema sociale europeo e i colonizzati posti sotto il giogo dell'Europa; e questo, senza in alcun modo nascondere la specifica subalternità che travolge quest'ultima.
Assegnazioni semplicistiche e asserzioni riduzioniste
La semplificazione storica, così come l'essenzializzazione dicotomica, portano entrambe a una situazione in cui i luoghi di enunciazione possibili sono solo due: da un lato, quello della modernità europea e, dall'altro, gli spazi situati ai suoi confini, dove la voce del subalterno può essere ascoltata (quello che Mignolo chiama "pensiero di confine"). Mentre il carattere manicheo di una simile configurazione è ovvio, la natura della scissione coinvolta rimane incerta. Gaussens e Makaran attaccano l'idea di una «determinazione delle condizioni geografiche di produzione» riguardanti le opere dell'ingegno, e la «presunta correlazione tra la loro collocazione geo-storica, e la loro collocazione epistemologica», alla quale oppongono il fatto che «le coordinate spaziali di un'opera sono un semplice epifenomeno, dal momento che non hanno alcuna influenza sul significato geopolitico del testo» (p. 31). Tuttavia, l'argomento sembra troppo semplicistico perché l'Europa (o l'Occidente), per gli autori decoloniali, non è solo un luogo geografico ma piuttosto uno spazio epistemico, identificabile con la modernità; e pertanto è l'appartenenza, o meno, a esso a costituire la determinazione fondamentale del luogo di enunciazione di ogni forma di pensiero. Tuttavia, il rozzo riduzionismo di questa affermazione, sebbene venga riformulato in questo modo, è talmente evidente che due antropologi colombiani, Eduardo Restrepo e Axel Rojas, hanno dovuto impegnarsi a esonerare gli autori decoloniali da una tale concezione: secondo loro, Grosfoguel non presuppone un nesso meccanico tra il luogo del pensiero e la prospettiva adottata; in particolare poiché non basta essere collocati nel "locus" degli oppressi per poter avere accesso a un'episteme veramente subordinata (p. 86). Gli scritti di Mignolo, tuttavia, al riguardo sono intessuti di ambiguità. In risposta alle critiche di Ricardo Salvatore sull'esistenza di un "privilegio epistemico" dei colonizzati, egli sembra riconoscere una possibilità universale di «diventare subalterni», basata sulla capacità degli individui di identificarsi e impegnarsi per mezzo della «differenza coloniale». Tuttavia, a partire dalla categoria debole del "pensiero di confine", egli finisce per reintrodurre una forma di determinismo parziale del "luogo" del pensiero. Ad esempio, Bartolomé de Las Casas [*20] può spiegare l'esperienza del soggetto coloniale; però si tratta di un «pensiero di frontiera, debole», specifico solo di coloro che «senza essere diseredati, ne adottano la prospettiva» (p. 87). Mentre autori come Guamán Poma de Ayala o Fanon possono invece accedere a un «forte pensiero di confine» dal momento che essi appartengono a una cultura amerindia, o portano nella loro carne l'esperienza dei dannati della terra; mentre invece gli autori europei che non hanno sofferto personalmente la colonizzazione, sarebbero pertanto condannati a un "deficit epistemico" insormontabile. Non si tratta certo di sottovalutare l'impatto di questo differenziale relativo all'esperienza; bensì di rammaricarsi che la divisione a priori tra pensieri di confine forti e deboli, porti ad oscurare, ad esempio, la capacità trasgressiva di Las Casas, il quale si stacca dall'etnocentrismo fino al punto di considerare i popoli amerindi come civilizzati, in particolare in termini di organizzazione politica o di costumi, alla stessa stregua degli antichi romani o degli spagnoli del suo tempo, affermando che le conquiste fatte da questi ultimi erano illegittime, e che i loro regni dovevano essere restituiti agli indigeni [*21]. Sebbene sia attraverso la sofferenza vissuta, che Mignolo giustifica la scissione tra pensieri di confine forti e deboli, egli si riferisce a un divario etno-razziale che gli individui non possono cambiare. Castro conclude che «Mignolo incorpora al centro della sua proposta di pensiero dissidente la classificazione etno-razziale, che egli ha tuttavia denunciato come caratteristica della modernità» (pp. 88-90). Per sua stessa ambiguità, la sua posizione apre la strada a uno degli effetti più problematici dell'influenza decoloniale: stabilire un legame inequivocabile di identificazione tra gli enunciati e un luogo di enunciazione definito unicamente a partire dalla differenza coloniale, e quindi tendenzialmente ridotto a identità etno-razziale: cosa che, in casi estremi, può portare a squalificare una proposizione solo sulla base del colore della pelle della persona che la pronuncia.
Critiche ai critici
Pur condividendo in larga misura le principali critiche rivolte ai membri del gruppo Modernità/Colonialità, mi sembra che i presupposti, a partire dai quali gli autori del libro le espongono, possano anche essere criticati [*22]. Mentre i decoloniali tendono a ridurre meccanicamente il pensiero alle determinazioni del suo luogo di enunciazione, gli autori del libro si espongono talvolta all'errore opposto pretendendo di ridurli a nulla. Così, quando Castro vorrebbe che il campo intellettuale fosse «uno spazio democratico ed egualitario, dove ogni discorso andrebbe appreso indipendentemente dal luogo di enunciazione, o dalla razza della persona che lo pronuncia» (p. 90), egli mostra un certo positivismo, ignaro della necessaria analisi delle condizioni di produzione degli enunciati, compresi quelli scientifici [*23]. E mentre Mignolo e i suoi colleghi tendono a cercare una purezza indigena che si trova completamente al di fuori dei parametri della modernità, gli autori del libro assumono invece una prospettiva strettamente opposta, suggerendo che le ontologie amerinde non potrebbero sopravvivere all'imposizione coloniale e alle ibridazioni culturali che ne sono derivate (p. 106). Inclán, afferma addirittura che «non c'è (...) quell'America profonda, la cui sostanza potesse essere trovata. I paleo-amerindi non sono all'origine delle identità indigene risultanti dalla colonizzazione», e questo perché «hanno subito una mutazione così radicale che ora è molto difficile (...) afferrare ciò che ne rimane» (p. 67). È ovvio che le forme di vita e le ontologie amerinde sono state radicalmente sconvolte dalla colonizzazione, e non sono state preservate nella loro purezza o essenza (che sono inesistenti). Ma affermare che di queste culture non rimane nulla, e che gli attuali popoli indigeni non possono essere considerati come «gli eredi diretti delle culture materiali precedenti alla conquista e alla colonizzazione» significa ignorare le legittime rivendicazioni di questi popoli, così come le conquiste della disciplina antropologica (a cominciare dal magnifico "Mexique profond" di Bonfil Batalla [*24]). Va notato, per inciso, che qui l'argomento si basa in modo parziale su un riferimento agli zapatisti, perché Inclán agisce come se la storicità assunta dalla "Prima Dichiarazione della Selva Lacandona", il 1° gennaio 1994 («siamo il prodotto di 500 anni di lotta» [*25]) implichi il rifiuto di qualsiasi legame con il periodo precedente la conquista. Ciò è contraddetto da un'analisi più ampia delle concezioni zapatiste [*26]. Negare qualsiasi iscrizione in una lunga storia che sia in parte indigena, è altrettanto problematico quanto affermare la persistenza di un'essenza pre-ispanica: equivale a riprodurre la logica binaria del tutto o niente, la stessa che viene rimproverata agli autori coloniali. Inoltre, mentre gli autori del libro hanno ragione a criticare il fatto di erigere la ferita coloniale come se essa fosse l'unica linea di divisione fondamentale all'interno del mondo moderno, alcuni di loro tendono talvolta a minimizzarne l'importanza. Castro ha certamente ragione a ricordare che il colonialismo – e, si potrebbe aggiungere, la schiavitù – non è solo europeo e moderno, ma affermare che «per millenni l'uomo è stato un animale colonizzatore» (p. 104) è solo una pericolosa generalizzazione che equivale ad affogare i pesci - di un fenomeno così singolare com'è stata la conquista duratura di quasi un intero continente - nello stagno di una concettualizzazione troppo vaga del colonialismo. Infine, se i decoloniali sono inclini a colpire tutto ciò che appartiene all'Occidente per mezzo di un segno negativo proibitivo, gli autori del libro non sempre sfuggono alla tendenza simmetrica a celebrare, in alcuni casi in modo decisamente acritico, gli apporti della modernità. Così, Barriga si lancia in un verso che loda «i successi [della scienza] al servizio dell'umanità», come i vaccini o come l'orbita dei satelliti di comunicazione, e mostra una neutralità decisamente positivista, ben lontana da ciò che richiede una vera riflessività scientifica (p. 203).Tutto sommato, gli autori del libro svolgono una critica pertinente del pensiero dei fondatori della corrente decoloniale. Ma lo fanno da una posizione a volte troppo acritica nei confronti della modernità e, soprattutto, dalla pretesa di un universalismo concepito classicamente. Non c'è certo una completa omogeneità tra gli autori di questo volume; visto che non tutti rivendicano un marxismo eterodosso, come fanno in particolare Inclán e Cortés. Resta il fatto che la loro critica tende ad essere esposta ai difetti opposti a quelli rimproverati agli autori decoloniali.
Attraverso la lente dell'esperienza zapatista
Per uscire dal ping-pong che viene giocato tra queste posizioni contrapposte, è arrivato il momento di fare l'annunciato viaggio, che potrebbe portare a superare alcune delle opposizioni in gioco. L'esperienza zapatista è, ovviamente, una lotta indigena [*27]. Con la notevole eccezione del portavoce di lunga data e leader militare (il Subcomandante Marcos/Galeano, ora capitano), quasi tutti i membri dell'EZLN appartengono ai gruppi etnici Maya del Chiapas. Inoltre, tra le sue richieste, è stato da tempo avanzato il riconoscimento dei "Diritti e della Cultura Indigena", che sono stati oggetto degli Accordi di San Andrés, firmati con il governo federale nel 1996, ma mai da esso onorati. Uno degli effetti principali della rivolta è stato quello di aver rimesso la questione indigena al centro dell'agenda politica del paese, portando in particolare alla creazione del Congresso Nazionale Indigeno e alla lotta per la riconquistata dignità dei popoli originari di tutto il Messico. Infine, è da un ancoraggio all'esperienza specifica dei popoli indigeni, e in particolare alle forme di vita comunitaria e alle capacità di organizzazione collettiva che le caratterizzano, che è emersa una potente critica della modernità, in particolare per quanto riguarda le concezioni della temporalità e della storia, che comprende la critica dell'ideologia del Progresso pur andando oltre le formulazioni che erano state proposte fino ad allora [*28]. In questo senso, qualcuno potrebbe obiettare che la lotta zapatista non è solo indigena ma anche "decoloniale", secondo l'etichetta assegnata dallo stesso Mignolo. Eppure gli zapatisti stanno molto attenti a non lasciarsi coinvolgere in una lotta strettamente etnica. Diffidano dell'idealizzazione di una presunta identità indigena, e rifiutano qualsiasi ostilità sistematica nei confronti dei non nativi: oltre alla denuncia del razzismo a rovescio nei confronti dei meticci, c'è anche la relativizzazione delle identità etno-razziali, dal momento che esse non definiscono il nemico a partire dal colore della loro pelle, quanto piuttosto da quello del denaro [*30]. Inoltre, tra gli zapatisti non c'è alcun rifiuto delle culture europee. In occasione del loro viaggio in Europa nel 2021, hanno ritenuto che fosse ridicolo chiedere perdono allo Stato spagnolo per la conquista e per la colonizzazione, e hanno reso un singolare omaggio alla cultura della nazione colonizzatrice: «Per cosa chiederà perdono la Spagna? Di aver dato alla luce Cervantes? (…) A Federico García Lorca? (…) A Lope de Vega? (…) A Buñuel, Almodóvar? A Dalí, Miró, Goya, Picasso, el Greco e Velázquez? Al meglio del pensiero critico mondiale, con il sigillo libertario "A"? » [*31]. Un esercizio come questo rifiuta ogni essenzializzazione del mondo occidentale, il quale non può essere giudicato solo in termini di scissione della colonialità, oppure ridotto al solo tratto dell'eurocentrismo; così come il colonizzato non può essere ridotto allo status di vittima. Quest'ultimo punto è di notevole importanza, ed è il motivo per cui il messaggio zapatista rivolto agli spagnoli il 13 agosto 2021, 500 anni dopo la caduta di Tenochtitlán, è stato: «Voi non ci avete conquistati. Siamo ancora nella resistenza e nella ribellione» [*32]. Tutto sommato, l'EZLN è un movimento indigeno che rifiuta di chiudersi in una prospettiva strettamente etnica: anziché essenzializzare le identità indigene (o non indigene), promuove una concezione aperta dell'etnicità, sempre articolata con la dimensione sociale e compresa in una prospettiva politica più ampia, che si preoccupa di associare indigeni e non indigeni. Bisogna perciò tenere insieme due affermazioni: la lotta zapatista è, profondamente, una lotta indigena; ma non è solo una lotta indigena. È tanto questo quanto qualcos'altro: una formula chiave per andare oltre gli approcci all'identità [*33]. Certo, gli zapatisti affermano che è legittimo, come popolo indigeno, lottare per «continuare ad essere ciò che siamo», di fronte a tutto quello che pretende di distruggerli; ma pretendono anche di trasformare sé stessi e cercare «ciò che possiamo essere», riconoscendo prontamente la congiunzione di identità multiple, e privilegiando la processualità del divenire, piuttosto che una concezione fissa dell'essere [*34]. È in questo modo che l'approccio anti-identitario rende possibile andare oltre, e contrastare le definizioni identitarie, anziché lasciarsi rinchiudere in esse [*35]. Se una tale congiunzione può avvenire, è perché la lotta zapatista si definisce tanto autoctona quanto anticapitalista (innanzitutto, attraverso la critica del neoliberismo, poi, più esplicitamente, a partire dalla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, nel 2005); una congiunzione questa, che molti non riescono a concepire [*36]. E se l'esperienza zapatista non può essere ridotta alla sola dimensione indigena - per quanto cruciale essa possa essere - ciò avviene perché articola almeno tre scale di azione: 1) è allo stesso tempo la lotta dei popoli indigeni che stanno costruendo l'autonomia nei territori ribelli del Chiapas, 2) una lotta nazionale per la trasformazione del Messico, 3) e una lotta planetaria per l'umanità e per la vita. È l'articolazione di queste tre scale, a rimuovere i pericoli che ciascuna di esse, se presa isolatamente, potrebbe comportare: il confinamento localista e l'etnicismo essenzialista, il nazionalismo xenofobo e l'universalismo astratto. Si può pertanto così individuare il criterio della differenziazione rispetto ai particolarismi identitari: questi ultimi diventano minacciosi, non appena essi isolano e reificano il locale e il particolare, l'etnico o il nazionale, esaltati come dei valori separati, e come fini a sé stessi. Nel caso degli zapatisti, invece, finiscono per costituire valori che vengono rivendicati, ma che tuttavia fanno parte di una prospettiva più ampia, che li supera e che ne trasforma il significato. Le proposte zapatiste possono così contribuire all'elaborazione di un nuovo universalismo, capace di sfuggire alla critica dell'universalismo dell'Illuminismo; vale a dire, non essere altro che l'universalizzazione di quelli che sono i valori particolari - cioè un "universalismo europeo" [*37] - fondato su una concezione astrattamente unitaria dell'Uomo, che elude tutte le differenze concrete di cui è fatta l'umanità e che ha finito per accompagnare l'espansione dell'egemonia occidentale, così come il rafforzamento di una discriminazione basata sulla razza e sul genere. Invocando l'invenzione di «un mondo dove ci sia posto per molti mondi», gli zapatisti ci offrono un'affermazione radicale di quella che appare come la necessaria molteplicità dei mondi. Essi ci suggeriscono che solo la scomparsa della logica della merce può permettere questo dispiegamento di molti modi di fare il mondo, vale a dire, forme di vita singolari, nate dalle interrelazioni che si formano all'interno di ogni ambiente abitato, e secondo le loro memorie particolari. Questa molteplicità di mondi viene facilmente qualificata - specialmente tra le correnti decoloniali - come se fossero dei pluriversi [*38]. Tuttavia, si può notare che, nella formulazione zapatista, l'affermazione di questa molteplicità si articola in questo "unico mondo" in cui tutti i mondi hanno il loro posto; e non solo nel senso di uno spazio neutro di convivenza, ma come condizione stessa per lo sviluppo di una tale molteplicità. Questo "mondo unico" è prima di tutto l'unità del pianeta Terra, il quale, di certo, esiste prima di tutto per i suoi abitanti, e anche attraverso i suoi luoghi particolari, ma rispetto al quale il grado di devastazione indotto dal produttivismo capitalista lo trasforma in una questione condivisa da tutti i suoi abitanti. Riparare il mondo, è quindi il primo punto di ancoraggio comune per tutti quei molteplici mondi che lo abitano. Ecco che così, questo "mondo unico" fa già parte di un dato di fatto, ma è anche, per altri aspetti, tutto da costruire. Così, tra i mondi che si incontrano e si incrociano, può nascere la comunanza, una comunanza che emerge dall'eterogeneità e non dall'uniformità, una comunanza che si costruisce nella molteplicità delle esperienze, invece di basarsi sul postulato delle stesse. Questi molteplici mondi non hanno la pretesa di rimanere isolati, ma sono al contrario chiamati allo scambio, a sviluppare legami di conoscenza reciproca e di cooperazione, per poter affrontare le loro differenze. Su questa base, ci si può chiedere se la nozione di pluriverso, che all'uni- sostituisce il pluri- , non rischi così di sostituire l'omogeneizzazione astratta con la semplice proliferazione delle differenze, la quale, in un'epoca in cui regnano i fondamentalismi identitari, non è priva di inconvenienti. Ecco perché allora potremmo preferire un altro neologismo, quello di "pluniverso" che, combinando i due prefissi (pluri- e uni-), rende percepibile la necessaria congiunzione della molteplicità e del comune. Ma l'approccio zapatista potrebbe anche invitarci a invocare un universalismo delle molteplicità, assai diverso dall'universalismo dell'Uno, ereditato dall'Illuminismo. Qualunque sia l'espressione scelta, qui si tratta di conciliare l'affermazione della molteplicità dei mondi con la preoccupazione di una comunanza che eviti l'assolutizzazione delle differenze. Ma questo comune non può essere identificato con l'Uno dell'omogeneo, o con quello dell'unità astrattamente definita: deve essere costruito senza sacrificare nessuna delle differenze, nell'eterogeneità delle esperienze. La questione decisiva - nella follia del mondo di oggi - è quella di sfuggire al falso dilemma secondo cui non ci sono altre opzioni, se non quella di affermare l'universale rifiutando l'importanza delle differenze (e quindi negando la rilevanza di lotte particolari, come quelle dei popoli indigeni), oppure a quello di esaltare le differenze assolutizzandole (e negando così ogni possibilità di una lotta comune alle altre differenze). Per quanto riguarda le concezioni qui analizzate, abbiamo visto - da un lato - come coloro che affermano l'universale rischino di minimizzare la frattura coloniale e le differenze che essa stabilisce; e dall'altro, coloro che invece rifiutano l'universale, assolutizzando questa scissione, fino a condannare le lotte dei dominati a una divisione tragicamente insormontabile. D'altra parte, però, le concezioni zapatiste, che combinano la lotta indigena e la lotta anticapitalista, ci invitano a rifiutare questa sterile alternativa, facendolo attraverso l'affermazione congiunta di una molteplicità di mondi, rifiutando ogni indifferenza alle differenze, in una comunità planetaria, rifiutando così anche ogni essenzializzazione delle identità particolari. In conclusione, possiamo ribadire l'attualità di una critica della colonialità, preoccupata di denunciarne le persistenti asimmetrie, sottolineando al contempo i pericoli a cui gli approcci decoloniali sono talvolta esposti.
– Mentre è inaccettabile minimizzare l'esperienza e la sofferenza sopportata da coloro a cui la dominazione coloniale ha assegnato una posizione inferiore; allo stesso tempo, la razza, come la colonizzazione, non può essere eretta come se fosse l'unica, e nemmeno la principale, griglia di lettura per le dinamiche del moderno sistema-mondo. Si correrebbe così il rischio di riprodurre lo stesso tipo di bias, e la stessa visione unilaterale derivante dagli approcci esclusivi in termini di classi del passato. E questo sarebbe tanto riduttivo per l'analisi socio-storica, quanto pernicioso in termini di strategie politiche. Non dovremmo invece cercare piuttosto di promuovere possibili alleanze tra i dominati, piuttosto che separarli con un'insormontabile scissione razziale, e chiuderci così nella dicotomia inflitta al mondo dalla dominazione coloniale? E non sarebbe - più di ogni altra cosa - deplorevole fare il gioco delle logiche identitarie così care all'estrema destra, rafforzando le identificazioni razziali e contribuendo all'installazione nel panorama ideologico della guerra delle razze, che è il carburante per la sua irresistibile ascesa?
– Mentre è essenziale riconoscere che l'attuale configurazione del sistema-mondo, e alcune delle sue asimmetrie fondamentali, è in gran parte l'effetto di una dominazione europea, prima, e di una dominazione occidentale poi, gradualmente estesa all'intero globo; a maggior ragione, la dualità dicotomica di Occidente e non-Occidente non può essere eretta a sola bussola di un giudizio epistemico e politico. Se ciascuno di questi due gruppi è pensato come un blocco omogeneo e fisso, privo di contraddizioni e dominazioni interne, e definito dalla posizione che si suppone occupi ai lati della differenza coloniale, allora avviene che, oltre ai numerosi inconvenienti già menzionati, un tale approccio, tanto antistorico quanto essenzializzante, rischia di portare a posizioni campistiche, i cui pericoli sono stati ampiamente osservati, dalla Siria all'Ucraina. In un periodo di transizione geopolitica, in cui potrebbe essere in gioco il disaccoppiamento tra capitalismo e Occidente, una teoria del genere rischia di fungere da coadiuvante per gli imperialismi extra-occidentali, promossi a una probabile egemonia planetaria.
– Se tutta la conoscenza viene situata, essa non può essere ridotta meccanicamente alle presunte determinazioni di quello che sarebbe il suo "posto". E se un enunciato dev'essere compreso in relazione alle sue condizioni di enunciazione, esso allora non può essere giudicato solo in base al criterio dell'appartenenza o meno della persona che lo pronuncia rispetto a un insieme vasto come l'Occidente e, a maggior ragione, in base alla sua sola identità etno-razziale. Se il pensiero decoloniale incoraggiasse - se non con la letteralità delle sue affermazioni, quanto meno con le sue ambiguità - il fatto di screditare una proposizione, o un pensiero, per il solo fatto che il suo enunciatore può essere descritto come europeo o bianco – o di elogiarla per la ragione opposta – ciò avrebbe la responsabilità di un fatale impoverimento del dibattito intellettuale e politico; così come dell'impossibilità di sviluppare un pensiero critico e anti-sistemico al di là delle differenze che sono diventate insormontabili.
Ragion per cui, tutto sommato, ciò che contribuisce a rafforzare il confinamento degli individui in un'identità fissa e inequivocabile sembra altamente pericoloso. Ciò appare ancora più evidente se questa identità viene definita in termini elaborati dal dominante, e come tale egli dimostra di essere parte del dominio stesso. Che si tratti di una questione di razza o di classe (definita da un posto specifico all'interno dei rapporti di produzione propri del capitalismo), il rischio è allora quello di impedirsi di sfuggire al dominio che si pretende di combattere. La pretesa di appartenenza può sfuggire a tali pericoli solo assumendo il necessario trabocco anti-identitario di identità, de-omogeneizzando ciascuna di esse identità, combinando le molteplici appartenenze, e articolando diverse scale di lotta, tessendo il comune nell'eterogeneità.
- Jérôme Baschet - Pubblicato il 25 Marzo 2025 su "Terrestres" https://www.terrestres.org/
NOTE:
[*1] V., in particolare, Philippe Colin e Lissell Quiroz, Pensées décoloniales. Introduzione alle teorie critiche dell'America Latina, Parigi, Zones/La Découverte, 2023. Va inoltre notato che va fatta una netta distinzione tra l'approccio decoloniale e le prospettive post-coloniali (in particolare quelle degli studi subalterni nati in India). Queste correnti non sono affatto discusse in questo libro, ma le posizioni di autori come Dipesh Chakrabarty potrebbero essere utilmente invocate nella discussione.
[*2] Vedi "Il decoloniale in questione", di David Castañer, Aspettando Nadeau, 29 novembre 2024.
[*3] Barriga ripercorre il proprio percorso, dall'iniziale adesione alla corrente decoloniale (in un contesto in cui l'egemonia di un marxismo ortodosso provocava "indigestione") ai primi dubbi e allo sguardo decisamente critico, nell'approfondire l'analisi del pensiero decoloniale
[*4] Epistemologie del Sud. Movimenti cittadini e controversie sulla scienza, Parigi, Desclée de Brouwer, 2016. D'altra parte, è stato attaccato da autori decoloniali che credono che scrivendo dal Sud dell'Europa, non possa raggiungere la pienezza della critica decoloniale, riservata agli autori del vero Sud.
[*5] Arturo Escobar, Sentire-Pensare con la Terra. Une écologie au-delà de l'Occident, Paris, Seuil, 2018.
[*6] Tutte le citazioni sono tratte da Franz Fanon, Peau noire, masques blancs, Paris, Seuil, [1952] 2015.
[*7] Questo testo è strettamente legato alla mia esperienza in Chiapas dal 1997, nelle vicinanze della lotta zapatista. Inoltre, nei seminari dell'Universidad de la Tierra (a San Cristobal de Las Casas), tra il 2008 e il 2019, abbiamo letto e discusso le opere di Immanuel Wallerstein e Ivan Illich, i classici dell'anticolonialismo (Aimé Césaire, Franz Fanon, ecc.), ma anche autori decoloniali come Walter Mignolo, Ramon Grosfoguel, Catherine Walsh, Santiago Castro-Gómez, Arturo Escobar e altri. Nel 2008, in occasione di una dettagliata presentazione del libro di Walter Mignolo, La idea de América latina. La herida colonial y la opción decolonial (Barcellona, Gedisa, 2007), Rocío Martínez ed io abbiamo condiviso l'importanza di pensare da una "ferita coloniale" che è ancora aperta, pur formulando numerose critiche, in gran parte simili a quelle esposte nel libro qui commentato: dati empirici distorti e una visione storica scheletrica, essenzializzazione dell'Occidente, occultamento del potenziale critico interno dell'Europa, Assolutizzazione della "matrice coloniale del potere" che condanna a dividere le lotte dei dominati e a chiudersi nella dicotomia coloniale del mondo, ecc.
[*8] Claude Bourguignon, "Silvia Rivera Cusicanqui", un dizionario decoloniale
[*9] La nozione di estrattivismo epistemologico è un'opportunità per sottolineare le divisioni che sono emerse all'interno del gruppo Modernità/Colonialità. Così, nel 2013, Grosfoguel, inizialmente seguace del concetto di "colonialità del potere", così come dell'opera di Quijano nel suo complesso, se ne allontanò e fece proprie le analisi di Rivera Cusicanqui; poi, nel 2019, ha preso le distanze da lei, a causa del suo atteggiamento critico nei confronti del governo di Evo Morales, e ha preteso di squalificarla definendola una "intellettuale, meticcia e occidentalizzata" – mentre Grosfoguel, come la maggior parte degli autori decoloniali, era un sostenitore incondizionato dei cosiddetti governi progressisti dell'America Latina, anche quando le loro politiche estrattiviste si rivoltarono contro le popolazioni indigene che inizialmente li avevano sostenuti (pp. 122-126, 222 e 241).
[*10] Barriga (p.184) è particolarmente scioccato dall'affermazione di Quijano secondo cui i possedimenti spagnoli si estendevano fino alla Terra del Fuoco, mentre i territori Mapuche non furono sottomessi fino alla fine del XIX secolo.
[*11] In realtà, l'idea dell'Europa come entità continentale è molto precedente (le cosiddette cartografie medievali "a forma di T" dividono il territorio in tre parti: Europa, Asia e Africa). Per quanto riguarda l'America, la sua invenzione non può risalire al 1492, poiché Colombo rimase convinto fino alla sua morte di aver messo piede su terre vicine al Giappone o alla Cina, il cui imperatore cercò di incontrare per convertirlo al cristianesimo (vedi Jérôme Baschet, "Le Journal de bord de Christophe Colomb", in Patrick Boucheron (ed.), Une histoire du monde au XVe siècle, Paris, Fayard, 2009, p. 582-587). Inoltre, durante il periodo coloniale, il continente era chiamato principalmente "Indie Occidentali", un nome che conserva l'impronta della visione del mondo di Colombo e del suo errore.
[*12] Quijano ritiene quindi che la "distruzione culturale" sia stata minore in Asia e in Africa (p. 189).
[*13] Christopher Bayly, La nascita del mondo moderno (1780-1914), Parigi, L'Atelier-Le Monde Diplomatique, 2007 e Keneth Pomeranz, Una grande divergenza. L'Europe, la Chine et la construction de l'économie mondiale, Paris, Albin Michel, 2010. Dussel arriva a riconoscere che la centralità globale dell'Europa risale solo al XVIII secolo, contrariamente alla sua visione inizialmente focalizzata sul 1492 (p. 53-54). È un peccato che Inclán lo rimproveri per questo sviluppo giudizioso.
[*14] Si veda la tesi di un lungo Medioevo esteso al XVIII secolo: Jacques Le Goff, Faut-il vraiment découper l'histoire en tranches?, Paris, Seuil, 2014.
[*15] Vedi Jérôme Baschet, Quando inizia il capitalismo? Dalla società feudale al mondo dell'economia, Albi, Crise et Critique, 2024, in cui collego la formazione del capitalismo come sistema e come civiltà al triplice cambiamento industriale, antropologico e geopolitico della seconda metà del XVIII secolo.
[*16] Il volume contribuisce a definire questa nozione, che designa tutti i rapporti di potere costituenti la dominazione europea e, in particolare, il ruolo svolto dall'egemonia dell'episteme moderna.
[*17] Si veda in particolare Jean-Fréderic Schaub e Silvia Sebastiani, Race and History in Western Societies (XVe-XVIIIe siècle), Paris, Albin Michel, 2021. Sull'esistenza storica di diverse concettualizzazioni della razza e di diversi tipi di razzismo, si veda anche Claude-Olivier Doron e Élie Haddad, "Race and History in the Modern Era", Revue d'histoire moderne et contemporaine, 2021, 68/2, pp. 7-34 e 68/3, pp. 7-36.
[*18] Jérôme Baschet, Quand commence, op. cit., pp. 92-105 e 191-193.
[*19] Lo stesso vale per gli autori latinoamericani imbevuti di cultura europea, come Euclides da Cunha, che Mignolo riduce all'ideologia razzista dell'élite brasiliana, mentre Cortés mostra di trasformare il suo punto di vista iniziale e finisce per denunciare la barbarie repressiva dell'esercito e lodare gli insorti, nei quali vede il fermento di una nazione meticcia a venire (pp. 144-145).
[*20] Castro ricorda in particolare l'insistenza di José Aricó sull'emergere di correnti anti-europeiste nella stessa Europa, la tesi di Susan Buck-Morss secondo cui la dialettica di Hegel tra padrone e schiavo deve molto alla rivoluzione haitiana, o l'interesse del defunto Marx per le comunità contadine russe, che egli valuta contro i valori della modernità (pp. 150-151).
[*21] Bartolomé de Las Casas, Apologética historia sumaria, a cura di E. O'Gorman, Città del Messico, UNAM, 1967.
[*22] L'opera non è esente da discutibili affermazioni storiche, in particolare per quanto riguarda la Conquista (pp. 34 e 234). È ancora più sorprendente leggere che la società dell'Europa medievale "era divisa in caste" (p. 195).
[*23] Pierre Bourdieu, Science de la science et réflexivité, Paris, Raison d'Agir, 2001. ↩ []
[*24] Guillermo Bonfil Batalla, Messico Profondo. Une civilisation niée, Bruxelles, Zone Sensible, 2017.
[*25] Inclán cita approssimativamente: "Somos hijos de 500 aňos" (p. 62, nell'edizione UNAM), che la traduzione francese, anche se di alta qualità, rende come "siamo i figli di 500 anni di colonizzazione" (p. 67), mentre gli zapatisti si riferiscono a "500 anni di lotta", soprattutto contro la colonizzazione.
[*26] Vedi Jérôme Baschet, La ribellione zapatista. Indian Insurrection and Planetary Resistance, edizione aggiornata e ampliata di una nuova postfazione, Parigi, Champs-Flammarion, 2019, capitolo 3.
[*27] Per quanto segue, vedi Jérôme Baschet, "Autonomia, indianità e anticapitalismo: l'esperienza zapatista", in Le Americhe indiane di fronte al neoliberismo, Actuel Marx, 56, 2014, pp. 23-39 e La ribellione zapatista, op. cit.
[*28] La ribellione zapatista, op. cit., pp. 230-240.
[*29] Walter Mignolo, "La revolución teórica del zapatismo: sus consecuencias históricas, éticas y políticas", Orbis Tertius, 2/5, 1997, p. 63-81.
[*30] "Non possiamo combattere il razzismo contro gli indigeni praticando il razzismo contro i meticci"; "Alcuni hanno la pelle chiara e il dolore scuro. Con loro la nostra lotta progredisce. Alcuni hanno la pelle marrone e un bianco superbo; Contro di loro è diretto il nostro fuoco. Il nostro cammino armati di speranza non è contro il mezzosangue, ma contro la corsa del denaro. Non avanza contro il colore della sua pelle, ma contro il colore del denaro", citato in La ribellione zapatista, op. cit., p. 253.
[*31] Enlace zapatista, "Sexta parte: una montaña en alta mar".
[*32] Ibidem.
[*33] Un tratto in parte simile riguarda le donne zapatiste, che stanno conducendo la loro lotta contro il dominio patriarcale, mentre allo stesso tempo concepiscono una lotta comune con gli uomini.
[*34] La ribellione zapatista, op. cit., p. 305.
[*35] Per l'importanza di un approccio anti-identitario (anche per andare oltre le identità negate o oppresse che le lotte sono talvolta portate a rivendicare), si veda John Holloway, Hope in Hopeless Times (Londra: Pluto Press, 2022).
[*36] Così, durante una conferenza all'Universidad de la Tierra (13 ottobre 2008), e in risposta a una domanda che gli ho fatto, Mignolo mi ha risposto che ai suoi occhi la lotta zapatista era decoloniale ma non anticapitalista – il che è in flagrante contraddizione con le abbondanti dichiarazioni dell'EZLN sull'argomento, così come con la sua pratica.
[*37] Immanuel Wallerstein, Universalismo europeo. De la colonisation au droit d'ingérence, Paris, Démopolis, 2008.
[*38] Ad esempio, Arturo Escobar, Ashish Kothari, Ariel Salleh, Federico Demaria e Alberto Acosta (a cura di), Plurivers. Un dizionario del post-sviluppo, Marsiglia, Wildproject, 2022.
[*39] Franz Fanon, Les damnés de la terre, Paris, La Découverte, 2002, p. 48.
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