Superare il lavoro: uno sguardo alternativo oltre il capitalismo [*1]
- «Il superamento del lavoro non significa una semplice riduzione quantitativa del tempo di lavoro, attuato per mezzo di una "automazione totale" (senza riguardo per il contenuto), quanto piuttosto la liberazione di tutte le attività sociali dal loro contenuto astratto, desensibilizzato e meramente accidentale rispetto all'indifferenza della forma.» -
di Robert Kurz e Norbert Trenkle
Nel capitalismo, «c'è sempre stata» disoccupazione e crisi. Alla fine del XX secolo, la novità è che questi fenomeni vengono denominati come «crisi della società del lavoro»; espressione che in origine si riferisce alla filosofa Hannah Arendt (Arendt 1989/1958). Fino alla prima metà di questo secolo, nessuno sarebbe arrivato a sostenere un'idea del genere, di fronte alle frequenti manifestazioni della crisi del capitalismo. Non molto tempo fa, la categoria "lavoro" appariva - ugualmente a tutti i partiti e a tutte le teorie - come il presupposto ontologico e sovrastorico di ogni realtà sociale. I cieli crollerebbero se il Lavoro dove mai arrivare alla fine. Questo cambiamento - considerato "impossibile" dalla vecchia coscienza sociale - rivela il carattere qualitativamente nuovo della crisi. È ovvio che si tratta di qualcosa di più che della fine di un mero ciclo capitalistico. L'espressione «crisi della società del lavoro» rivela anche l'identità tra lavoro e capitale; quando invece la comprensione tradizionale di tali concetti ha sempre accentuato la loro opposizione immanente, che poi si riflette nell'eterna lotta tra quelli che sono gli interessi organizzati. Il radicalismo appare solo nell'intensità del conflitto – "classe contro classe" – sotto lo sfondo ontologico di un "Lavoro infinito". Viene del tutto ignorato - e, in larga misura, al di là di ogni possibilità di pensarlo - considerare che, in ultima analisi, Lavoro e Capitale costituiscono i due stati di aggregazione della medesima forma-feticcio sociale, vale a dire, un processo autoreferenziale "distaccato" da ogni altro bisogno e contesto e che trasforma "incessantemente" l'energia umana in denaro. A partire da questo, il conflitto immanente stesso sarebbe allora solo la funzione di un sistema comune di riferimento, i cui funzionari, da entrambe le parti, possono essere considerati - nei termini di Marx - come delle "maschere del carattere" al servizio del fine irrazionale dominante in sé.
La rottura categorica
In questo senso, al di là dell'opposizione funzionale socialmente immanente, il problema è quello di mettere categoricamente in discussione il sistema di riferimento feticistico nel suo complesso e, pertanto, il "Lavoro" stesso. Tuttavia, oggi manca, tanto una simile consapevolezza critica, quanto un chiaro obiettivo. È angosciante dover uscire da quello che è uno spazio categoriale, fino ad allora inteso come naturale, ma che ora, non appena diventa obsoleto, entra nel campo visivo come oggetto distinto. Gli stati complementari di aggregazione del "Lavoro" e del "Denaro" - in quanto condizioni indiscutibili della modernità, precedentemente coperti da un potente tabù, in quanto in qualche modo costituiscono e "garantiscono" la realtà - nel momento della loro crisi categoriale, smettono di essere così evidenti. Se le crisi precedenti, le quali avevano un carattere transitorio, e venivano viste come semplici processi immanenti di sviluppo, sono state frettolosamente chiamate col nome di «crisi del capitalismo» (in modo che, di conseguenza, il "Lavoro" eterno avrebbe dovuto emanciparsi come suo polo opposto), ora la crisi qualitativamente nuova e veramente fondamentale del moderno sistema di produzione di merci appare nella direzione opposta - facendolo anche in maniera frettolosa e unilaterale, come se fosse una semplice crisi del "Lavoro" - e, di conseguenza, appare come la crisi del capitalismo, e quindi del lavoro salariato e delle sue organizzazioni, dei dipendenti, delle ideologie, ecc. D'altra parte, il "Capitale" sembra essere in grado di continuare ad accumulare per sempre e senza grossi problemi («crescita senza lavoro»). Ma se il capitalismo è, in senso stretto, solo una «società del lavoro», ecco che una crisi simile allora dev'essere anche una crisi del Capitale stesso. Dal momento che il lavoro astratto è la "sostanza" del capitale - in quanto forma di attività "staccata" intesa come fine in sé - esso allo stesso tempo assume anche il carattere di un fantasmagorico contenuto quantitativo: i prodotti della società non sono più considerati semplicemente come dei beni utili, ma (nelle parole di Marx) come una «gelatina del lavoro», cioè come una certa quantità astratta di energia umana socialmente spesa, che aderisce ai prodotti come se costituisse una loro "proprietà" invisibile, e la cui "validità" viene regolata a partire dal meccanismo anonimo della concorrenza di mercato. Questa pseudo-proprietà di una merce, che consiste nel feticismo delle relazioni sociali, appare come il "valore" economico dei prodotti, che si manifesta sotto forma di prezzo, e questo a sua volta appare come se fosse una certa quantità di denaro. È proprio questa relazione a costituire Lavoro e Capitale, innanzitutto, in quanto stati di aggregazione di uno stesso meccanismo sistemico, sia nella forma (forma del valore) che nel contenuto (sostanza del valore). Da ciò ne consegue logicamente, che la «crisi della società del lavoro» non è solo una «crisi della forma», comune ai due lati di questo rapporto, ma è anche una «crisi della sostanza» dell'accumulazione del capitale. In superficie, è sicuramente la crescita della sovrastruttura finanziaria speculativa del capitalismo da casinò, a produrre l'apparenza - almeno fino al crollo finanziario - che la trasformazione del capitale possa continuare ad andare avanti anche senza una sufficiente sostanza lavorativa. Ma di per sé, la presunta unilateralità della crisi del lavoro, si riferisce al limite del sistema nel suo complesso. Mentre il modo di produzione capitalistico aveva ancora spazio per svilupparsi e, in una certa misura, le lotte degli interessi immanenti del lavoro salariato potevano anche essere condotte ingenuamente: si trattava solo di affermare i propri interessi all'interno del sistema; facendolo nella forma di un'eterna disputa con il proprio avversario, e se necessario attraverso il confronto. Oggi, al contrario, la lotta degli interessi è stata revocata, al punto da lasciare al suo posto la responsabilità, condivisa, per la conservazione del sistema («logica della competizione internazionale»).[*2] Tuttavia, questo peculiare stato di cose dimostra solo che il sistema comune di riferimenti è stato condotto ad absurdum. Naturalmente, in nessun modo viene meno la necessità di lotte immanenti al sistema per i propri interessi vitali. Tuttavia, proprio perché il sistema ha raggiunto i propri limiti storici, ecco che, per il prossimo futuro, questo interesse necessario verrà semplicemente paralizzato. Dobbiamo perciò fare i conti con una dialettica ironica: anche gli stessi interessi immanenti al sistema, possono essere oggettivamente convalidati solo se, allo stesso tempo, si mette in discussione l'intero sistema, scatenando a tale scopo un movimento sociale trasformativo. Per il futuro, anche il salario minimo, o i benefici per i malati possono continuare a essere difesi solo nel contesto più ampio di un movimento anticapitalista radicale. Ed è proprio su questo aspetto che si minaccia di formare un circolo vizioso, perché la critica radicale non significa ancora nient'altro che il punto di vista "radicalizzato" del Lavoro. Appare pertanto decisivo che la rottura categorica finora impensata secondo le forme fondamentali del sistema di produzione di merci, e di conseguenza una prospettiva qualitativamente distinta di emancipazione sociale (analoga al carattere della crisi), riesca a penetrare la coscienza sociale, sia come problema che come possibilità; In questo modo si può trovare un punto di riferimento per riorientare i conflitti sociali e per la trasformazione della società. Se, in realtà, la rottura con il capitale deve essere anche una rottura con la categoria del lavoro, allora è chiaro che ciò vale anche per le rispettive forme politico-economiche. Andare oltre il lavoro non può significare anche che andare oltre le forme feticistiche del valore, e quindi anche oltre le forme della merce e del denaro, del mercato e dello Stato, della politica e dell'economia
Verso una storia della critica sindacale
Guardandola da un punto di vista superficiale, la critica del lavoro non è una novità, sebbene negli ultimi 150 anni abbia fatto solo delle fugaci apparizioni ai margini dei grandi movimenti sociali. Paul Lafargue, il genero di Marx, divenne famoso con il suo "diritto alla pigrizia", un pamphlet in cui ridicolizzava la “mania del lavoro” e l'ideologia protestante della performance del movimento operaio ufficiale, rivendicando «per i tempi di crisi, una distribuzione di prodotti insieme a uno svago generale» (Lafargue 1998/18883, 31), come pure «una legge ferrea... che proibisca a chiunque di lavorare più di tre ore al giorno» (a.a.O., 53). È facile capire di come si trattasse solo di una critica fenomenologica, e un po' banale del lavoro, ben lontana da una critica categoriale. Alcune delle sue formulazioni scherzose, possono sembrare divertenti ancora oggi, come quando Lafargue si confronta con l'ideologia cristiana del lavoro: «Geova, il dio barbuto e accigliato, diede il più sublime esempio di pigrizia ideale ai suoi adoratori: dopo sei giorni di lavoro, si riposò eternamente» (a.a.O., 22). E parla ancora dell'oggi, mentre sta schiaffeggiando il volto sconsolato della sinistra verde oliva dei diritti umani, quando proclama che «il diritto alla pigrizia è mille volte più nobile e sacro degli schifosi diritti umani che vengono rigurgitati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese» (a.a.O.,33). Tuttavia, è preoccupante che, in quasi 120 anni, il diritto alla pigrizia sia stato spesso riscoperto e lanciato solo come una provocazione ; visto che, in tutto questo tempo, la critica del lavoro non si è mai praticamente mossa dal suo posto. Lo stesso Lafargue non andò mai oltre la richiesta di più beni di consumo e di meno tempo di lavoro, cosa certamente inaudita, e non solo ai suoi tempi. Questa critica del lavoro non rimane meramente quantitativa, dal momento che basa le sue richieste in modo edonistico, e non più nei termini dell'ideologia del lavoro: l'obiettivo dovrebbe essere quello di un abbondante godimento materiale e intellettuale, e non di una performance astratta (comunque la si voglia chiamare). Sicuramente ha costituito un passo nella giusta direzione, ma non rappresenta ancora un superamento della categoria del lavoro. Dopo sono arrivati i dadaisti i quali, nel contesto di una generale denigrazione della borghesia e del popolo, promossero il ridicolo, piuttosto che la critica del lavoro, che comunque era già qualcosa. Bisogna riconoscere che già nel 1916 Richard Huelsenbeck con il verso: «Arbeit Arbeit brä brä brä brä brä brä brä» aveva anticipato l’ultima parola di Gerhard Schröder e della sua cricca. Non si era però ancora approdati a una vera critica categoriale. Mentre il capitalismo di Stato dell’Est, nei paesi della “modernizzazione di recupero” sprofondava negli eccessi stakanovisti del lavoro astratto, in Occidente, nel frattempo, l’impulso negativo contro il lavoro si limitava alla politica sindacale dell’accorciamento della giornata lavorativa, un concetto che già di per sé emana un cattivo odore carcerario di immanenza del lavoro. Questa politica sociale interna al sistema, si è resa ridicola al cospetto della logica aziendale, che proprio con la crisi della “società del lavoro” poneva e pone all’ordine del giorno un prolungamento del tempo di lavoro aziendale. Pertanto, oggi, l’accorciamento del tempo di lavoro viene considerato come un modello superato, nel mentre che, simultaneamente, le masse dei disoccupati aumentano. In tal modo, tanto una condotta meramente edonistica, quanto l’istanza della semplice diminuzione quantitativa di un lavoro, rimasto insuperato, vengono travolte dalla crisi del sistema.
Oltre la lotta di classe
L’ultima ondata della tradizionale critica del lavoro arrivò negli anni’70 dall’operaismo italiano - il quale ebbe i suoi epigoni in Germania nella rivista “Autonomie” - e, negli anni’80, dal gruppo Wildcat. Che anche questa impostazione non fosse andata troppo lontano lo denota già il suo apparato concettuale: come può un “operaismo” contenere una critica categoriale del lavoro?!?? Anche in questo contesto la critica del lavoro era rimasta limitata al piano fenomenologico. Qui, l’elemento edonistico - per quanto presente anche nella definizione operaistica come eredità del tradizionale marxismo del lavoro - si rifugiava dietro ad un nuovo sociologismo fondato sul concetto di classe. Ovvero, da un lato viene criticata la corrente principale del marxismo, poiché «riduce la classe alla sua esistenza in quanto forza-lavoro» (Schultze/Gross 1997, 111), mentre però, dall’altro lato, la categoria sociologicamente limitata di “classe” rimane comunque il fondamento estremo della critica. Da questa prospettiva derivano quelle che sono state alcune sorprendenti indeterminatezze. Mentre il marxismo tradizionale aveva situato correttamente, per quanto lo avesse fatto in modo affermativo, la categoria “classe” nel contesto delle forme feticistiche derivate dalla forma-valore, l’operaismo cerca invece di distillare una categoria del soggetto che possa reggersi da sé sola. “Classe”, in questa accezione, non è un termine che indichi una condizione oggettiva all’interno della struttura formale del sistema produttore di merci, ma si tratta piuttosto di un agglomerato di volontà soggettiva che si pone contro le pretese del sistema stesso. In ciò consiste la critica operaistica del lavoro. Ma, naturalmente, le categorie oggettivate del capitalismo non vengono minimamente scalfite da quello che appare come un semplice “insurrezionalismo”. In tal modo, l’oggettivismo economico del movimento operaio tradizionale viene rovesciato in un soggettivismo complementare secondo il motto: «che ci importa del lavoro degradante e della forma-valore? Tutto ciò che vogliamo è vivere bene!» Non meraviglia affatto che anche la sinistra postmoderna possa conciliarsi con questo modo di pensare, il quale si crogiola nelle fantasie di un consumo di merci sfrenato, e di gran lunga idiota. Nell’operaismo, così come nel marxismo del movimento operaio, è assente la critica categoriale, e pertanto non c'è alcuna rottura decisiva. Davanti al nocciolo del problema, una determinazione meramente soggettivistica di una“classe”, vista come non-lavoro e come non-valore, si imbroglia. Così come rispetto all’usuale obiezione, per così dire epistemologica, contro la critica radicale del lavoro e del valore: si finisce sempre per insistere su delle categorie in cui gli individui non sono compresi! Come dire, è un’obiezione tanto corretta quanto insignificante, visto che il presupposto della critica è quello secondo cui gli individui, a dispetto di ogni introversione, non si dissolvono certo nelle categorie che li sovrastano; ma a cosa serve questa premessa se la critica stessa non si rivolge alla totalità? Le correnti operaiste si appoggiano parzialmente alle meritevoli ricerche di E.P.Thompson, che, utilizzando l'esempio dell'Inghilterra, riprende la storia “dimenticata” delle prime rivolte sociali contro la modernizzazione capitalistica molto prima che il movimento operaio “classico” venisse alla luce (Thompson 1980; 1987). Queste rivolte, come Thompson fa notare a ragione, in polemica con l’oggettivismo economico, non erano «il risultato di leggi di movimento economiche…, ma un processo attivo, risultato di azioni umane e di condizioni storiche» (Schultze Gross, loc.cit., 108). Ciò vale per ogni movimento sociale, il quale non è mai “pura soggettività” ma si trova piuttosto sempre sotto certe “condizioni”. La volontà emancipatoria, ruota precisamente attorno alla possibilità di modificare, o di abolire tali “condizioni”!
L’impeto delle antiche rivolte sociali proveniva dal fatto che i loro protagonisti, seguendo il loro istinto, non intendevano certo diventare la “classe operaia” di una struttura sistemica autonomizzata. Al contrario, il movimento operaio più tardo avrebbe invece operato soltanto all’interno di questo contesto sistemico, dopo che esso si era storicamente imposto. Oggi, per noi, è fondamentale spezzare le sbarre categoriali di questo contesto sistemico, e liberarci di nuovo dal lavoro astratto. Pertanto, per questo fine non basta più una rivolta spontanea, o il riferimento ad una “economia morale” premoderna (concetto centrale in Thompson). La riscoperta delle antiche rivolte sociali, oggi, può solo avere il significato di una presa di coscienza circa la “genesi” sanguinaria e repressiva del mondo attuale, dei “posti di lavoro”, e di una “storicizzazione” di quelle che appaiono come delle categorie apparentemente astoriche, come il “lavoro” e il “valore”. Ma naturalmente non è possibile ricollegarsi semplicemente, in modo immediato, a tutte queste antiche rivolte, per ricavarne una pura “soggettività ribellistica”, nella forma di una “volontà soggettiva” astorica. Per potere annientare le oggettivizzazioni, prodotte e introiettate nel corso di un lungo processo storico, è necessaria una coscienza critica per quel che riguarda la sua costituzione storica e strutturale. Questo è fondamentale, sia per portare alla coscienza il fatto che la costituzione storica della «economia politica delle bocche da fuoco» dei primordi della modernità si è evoluta verso una struttura sistemica autonoma “svincolata” [*3], sia per criticare radicalmente il sistema categoriale stesso di tale struttura. Al contrario, le diverse correnti operaiste si accontentavano di semplici gesta alla Robin Hood, mentre dissolvevano così il contesto categoriale della società del lavoro in quelle che sono state delle pure azioni di volontà. In questo modo perfino la crisi veniva soggettivizzata: lo sviluppo del meccanismo appariva come se fosse solo una semplice reazione del capitale alle “rivolte del lavoro”; come se non esistesse la concorrenza tra capitali ed economie nazionali; addirittura veniva in parte negata perfino l'esistenza del contesto sistemico categoriale sostenendo la tesi che «il capitale non ha più alcun interesse nell'espansione della forza lavoro umana, poiché la sua creazione di valore si realizza al meglio attraverso il lavoro oggettivato, cioè le macchine (!) rendendo il rapporto di dominio puramente politico [...]» (Schultze/Gross, a.a.O., 129). Alla luce di un tale pensiero riduzionistico, naturalmente non può esserci alcuna «crisi della società del lavoro»: il problema veniva così risolto, ignorandolo! Le diverse correnti operaiste - in tutti i possibili movimenti, rivolte e concetti correlati, dalle rivolte del pane nel Terzo Mondo alla richiesta di un reddito minimo, passando per le iniziative di lavoro e per l'economia di sussistenza - non hanno mai saputo che farsene del problema della critica categoriale. Viene così dimostrato come quella limitatezza, immanente al sistema della “lotta di classe”, non poteva essere distrutta convertendola semplicemente in soggettività. Un interesse che viene fatto valere in forma di merce o di denaro, si trova già a essere, in un modo o nell’altro, oggettivato nell’ambito della società del lavoro capitalistica. Era già questo che rappresentava il problema insito nell’antico e “oggettivo” concetto di classe. Non esiste nessuna classe - o gruppo sociale determinato soltanto sulla base della sua posizione all’interno della società del lavoro - che sia predestinata “di per sé” a essere la portatrice specifica della trasformazione sociale (e che per di più debba esserne cosciente “di per sé”). Lo storico “in sé” della classe operaia, non rappresentava un’entità che era in grado di trascendere il sistema, ma costituiva, al contrario, un’esistenza (originariamente forzata) in quanto categoria funzionale del capitale.Proprio per questo motivo, il movimento operaio in quanto tale non poteva essere un movimento contro il lavoro, ma solo un movimento per la totale imposizione, e per il riconoscimento universale, di tale lavoro. La rottura categoriale con la logica del sistema-feticcio capitalistico, per contro, non può, per definizione, essere inerente a esso “in sé”, né ha origine, quasi automaticamente, dalla sua stessa dinamica. Ciò che risulta “autonomizzato'' nell'autocontraddizione interna della valorizzazione del capitale, è esclusivamente la sua rottura negativa nell'ambito della ”crisi della società del lavoro". Benché generi indignazione e disperazione, l'oggettività di questa crisi non può essere confusa o messa in cortocircuito con una supposta oggettività di un suo superamento emancipatorio. Così, il tentativo operaistico di trasformare, a partire da una “posizione” puramente soggettiva, una categoria appartenente al contesto sistemico oggettivato (vale a dire, il concetto di classe) in un’entità in grado di trascendere il sistema, e che assurdamente sussisterebbe solo “di per sé” (indipendentemente dalla forma sociale) non poteva che naufragare. Vale a dire - per intenderci - la concezione del«lo sviluppo del capitale visto come variabile della lotta del lavoro» (Schultze/Gross, loc.cit. 125). Piuttosto, proprio al contrario: la lotta in nome del lavoro (lotta di classe, lotta per l’interesse immanente al sistema) rimane per sua essenza una variabile dello sviluppo capitalistico. La critica del lavoro, è possibile solo oltre la lotta di classe, come auto-costituzione di un movimento di emancipazione che non pensi e che non agisca più “all’interno” delle forme di coscienza capitalistiche.
Il Rifiuto del Lavoro nella Vita
Naturalmente, la critica categoriale del lavoro non può consistere soltanto nel sostituire il concetto astratto di lavoro per mezzo di un’altra astrazione etimologicamente neutra come ad esempio “attività”. Al contrario, si tratta del superamento reale di una “economia slegata”. Questo può solo significare l'abrogazione di quello che nella società è un contesto sistemico autonomo, e quindi abrogare il lavoro nella vita. Innanzitutto si tratta della richiesta, rivolta alla società, di determinare, in maniera consapevole e diretta, le relazioni sociali concrete e i contenuti materiali ed intellettuali della propria riproduzione, e di introdurli nella sfera di influenza delle istituzioni sociali, anziché abbandonarle alla procedura irrazionale di una forma sociale autonomizzata. Intendiamo con questo, la liberazione delle relazioni sociali dalla categoria feticistica del valore, in modo che si crei una situazione nella quale i membri della società non producono collettivamente, in degli aggregati altamente socializzati [fabbriche] che sono degli altrettanti scopi in sé stessi, volti solo a poi “scambiare”, successivamente, i prodotti, in un contesto di restrizioni completamente folli, come se essi fossero i prodotti di singoli produttori isolati. L’alternativa sarebbe quella di impiegare delle risorse comuni in un rapporto trasparente, in modo che la “socialità” cessi di essere un’assurda proprietà delle cose che non debba più essere regolata dalla “mano invisibile” di un meccanismo resosi autonomo. Con la scomparsa della razionalità economico-aziendale distruttiva [fabbrica], naturalmente non si mira certo a smantellare le forze produttive generate ciecamente dal capitalismo, ma a impiegarle secondo una “ragione sensibile” al contenuto (invece che secondo una razionalità monetaria astratta, indifferente ai contenuti), per poi trasformarle e svilupparle ulteriormente. Pertanto, superamento del lavoro non significa semplicemente una mera diminuzione quantitativa del tempo di lavoro, raggiunto grazie a una “completa automatizzazione” (senza alcun riguardo per i contenuti), ma la liberazione di tutte le attività sociali dalla loro forma astratta, de-sensualizzata, indifferente di fronte a un contenuto puramente aleatorio (variabile casuale). Attraverso tale superamento della forma-valore universale - e pertanto dell’economia aziendale, del mercato, dello scambio e del denaro - la riproduzione sociale cessa di essere sottomessa a una forma di attività universale e astratta; essa si articola così in un intreccio multiforme di attività innumerevoli, concrete, determinate secondo il loro contenuto, in nome del quale tutto viene svolto ed effettuato, invece di essere giudicato secondo un criterio applicato dall’esterno, da un contesto sistemico astratto. Appena le attività concrete vengono gestite socialmente, secondo il loro contenuto reale, anche il tempo astronomico dell’economia aziendale deve smettere di esercitare la sua dittatura. La riproduzione personale e sociale si articola allora in degli elementi che hanno ciascuno la propria forma temporale. In particolare i settori e gli elementi dissociati, definiti come “femminili”, che non possono obbedire in alcun modo alla “logica del risparmio di tempo” (F. Haug) vengono reintrodotti nella società. Se la riproduzione sociale viene resa trasparente e determinata solo attraverso il contenuto concreto, allora non vi può più essere alcuna gerarchizzazione dei settori di attività, e nessuna correlazione specificamente sessuale. Superamento del lavoro non significa solamente che i differenti momenti della riproduzione sociale ora ottengono in qualche modo giustizia, ma che essi vengono superati in quanto sfere separate. La separazione delle sfere risulta già dallo “svincolamento” dell’economia vista come scopo in sé stesso, nel cui spazio funzionale tutti gli altri elementi vanno dissolti. Superamento del lavoro, è perciò anche superamento del “tempo libero”, e quindi liberazione dell’ozio, che non può più essere “tempo residuo sociale” ma ora si afferma sull’intera riproduzione. Prima di tutto: la fine dell'urgenza del lavoro - perché di fronte alle gigantesche forze produttive, che motivo ci sarebbe di produrre freneticamente quando, insieme all'impulso delirante del fine economico stesso, scompare ogni motivo di urgenza? Questo non vale solo per il rapporto tra impegno e ozio, ma anche rispetto a una reciproca affermazione di settori e momenti, Così, la cultura, nel senso più esteso, non sarà più un settore separato ma verrà integrata nella riproduzione liberata dalla dittatura del tempo astratto. In questo senso si tratterebbe dell’adozione di criteri culturali ed estetici in tutti i “settori funzionali” tradizionali. Il crimine estetico delle attuali “aree industriali” non sarebbe allora più possibile.
Dall’espropriazione all’appropriazione
Le risorse sociali, che sembrano a portata di mano, appaiono separate, rispetto ai loro produttori, come da una parete di vetro. E questo perché la società che si fonda sul lavoro e sulla produzione di merce, non è altro che una gigantesca macchina dell’espropriazione. Non solo nel senso limitato, come l'ha sempre inteso il marxismo nel movimento operaio, secondo cui i mezzi di produzione non “appartengono” legalmente ai lavoratori, e il capitale (nella forma feticistica del plusvalore) si appropria dei frutti del loro lavoro. L'espropriazione ha un carattere ben più ampio e quindi non può essere superata mediante la trasformazione giuridica meramente esteriore del cosiddetto “potere di disposizione” su fabbriche, terreni, officine, edifici, ecc. Questo vale anche quando lo Stato si presenta come imprenditore generale, e proclama in pompa magna che “il popolo”, o la “classe operaia” sono divenuti “ipso facto” gli orgogliosi proprietari dell’intero aggregato dell’economia nazionale, al servizio della quale ora essi devono sottomettersi in modo zelante, o se le imprese in “autogestione” vengono amministrate come comunità che producono merce, e con essa un contesto sociale orientato dall’economia di mercato (anche se il mercato dov'è possibile viene provvisto dell’aggettivo “socialista”); entrambi questi due casi hanno sempre rappresentato solo due tentativi storici fallimentari, vale a dire, di introdurre una consapevolezza riguardo ai bisogni all’interno della società della merce e del lavoro, che è per sua natura un sistema cieco e indifferente ai bisogni. In questa società, le potenze produttive e le condizioni socio-culturali si contrappongono agli uomini, sotto forma impazzita di una forza esterna dominante. Quando gli individui moderni pensano e agiscono, essi lo fanno sempre sotto le condizioni presupposte dall’impianto costitutivo della società del lavoro e della merce, le cui costrizioni non solo funzionano esternamente ma sono presenti anche all’interno della loro struttura socio-psichica. Ogni “libertà”, nella società della merce, e ogni “politica” si riducono a delle decisioni che vengono prese all’interno di una dimensione intrinseca a questa “seconda natura”, che in quanto tale non è mai libera, e si sottrae a ogni intervento cosciente. Il concetto di espropriazione denota perciò l’incapacità fondamentale e strutturale dei membri della società di disporre coscientemente di sé stessi e del proprio contesto. L’uomo della società della merce, non può neppure mangiare una carota senza porsi inconsapevolmente in relazione, al di là del suo acquisto, a un gigantesco apparato agro-industriale, logistico e burocratico, fatto di fabbriche di concime, spedizionisti, distributori di sovvenzioni ecc., i quali non sono certo interessati alla carota in quanto tale, ma solo e unicamente al guadagno monetario astratto e aziendale, che in qualche punto di questa processo a catena totalmente assurdo, ha casualmente assunto le sembianze di una carota. Il risultato sociale e materiale è inoltre quello per cui essi stessi, in quanto basi naturali avvelenate della vita, uomini impoveriti e prodotti agrari eccedenti, finiscono tutti nelle discariche. Non solo i processi di lavoro quotidiano in ufficio, in fabbrica e al supermercato vengono diretti dall’astratta razionalità della valorizzazione, ma lo sono anche i sogni degli uomini, in quanto frutto della volontà meccanica della società della merce. Viene da sé, che una simile espropriazione totale non potrà mai essere superata attraverso un cambiamento esterno del potere politico, o attraverso il mutamento giuridico del “potere di disporre” (come sembra suggerire la celebre formula della “espropriazione degli espropriatori”) ma solo grazie a un movimento sociale di emancipazione che si appropri in modo totale e cosciente dell’intera sfera sociale. La dissociazione strutturale tra politica ed economia, così come è stata generata dallo scopo in sé stesso scatenato, va revocata sin dall’inizio all’interno del movimento sociale stesso; e questo movimento non può più essere “politico”, nel senso tradizionale (quindi riferito allo Stato). Le risorse materiali non possono essere strappate al sistema tautologico della valorizzazione, semplicemente attraverso una cerimonia solenne, ma ciò può avvenire solo nel corso di una trasformazione fondamentale di tutte le relazioni sociali, economiche e culturali, in cui cambi aspetto anche la faccia materiale del mondo (dall’architettura ai mezzi di trasporto). Una tale determinazione emancipatoria di obbiettivi, si deve sviluppare in una situazione sociale che la faccia apparire come completamente illusoria, dal momento che il processo di crisi sembra aver scatenato ancora una volta un nuovo rigurgito di fanatismo del lavoro, ed è nuovamente visibile il lato più oscuro dell’anima della merce. Il processo di espropriazione permanente, non si estingue affatto di per sé nel corso della crisi, ma al contrario assume una forma ancora più truce. Dato che il soggetto del lavoro e della merce vive da sempre isolato nella più totale dipendenza socio-economica, egli allora lo sperimenta nel modo più brutale quando la sua forza-lavoro non è più necessaria, mentre che, nello stesso tempo, si esaurisce ogni trasferimento sociale. Senza denaro (“lavoro coagulato”), nella società capitalistica egli è letteralmente una nullità; è come se i suoi bisogni non esistessero, perché non possono essere espressi sotto forma di domanda con potere di acquisto. Simultaneamente, a lui rimane anche precluso l’accesso a quelle che sono solo risorse materiali inutilizzate (come ad esempio le case disabitate), che vengono gelosamente custodite dai “servizi di sicurezza” statali e privati, dal momento che per essi non è previsto alcun utilizzo diverso da quello capitalistico. Ogni tentativo di arrestare questo processo autoreferenziale di espropriazione assoluta (il quale, nelle più disastrate regioni del globo, si spinge fino allo sterminio di massa per fame) attraverso una “politica diversa” immanente per ricadere in uno stato servile del tutto insostenibile all’interno della società del lavoro è fin dal principio destinata al fallimento. Tutto questo non ha più alcun fondamento, perché la politica è solo l’astratta forma universale in cui la società produttrice di merci governa le sue inconciliabili contraddizioni, e ora, quanto più avanza la crisi della società del lavoro, questo strumento perde sempre più quella che è la sua limitata capacità di intervento e di regolazione. La sfrenata brutalizzazione della logica capitalistica, e il crollo di tutti gli standard civilizzatori (dalla forma dei rapporti civili all’assistenza medica) può essere arrestata solo grazie a un movimento sociale che non accetti più che la produzione di ricchezza sia resa possibile solo nella forma del lavoro produttore di merce. Un’appropriazione emancipatoria in questo senso, non si svolge più attraverso il metodo politico-giuridico, ma attraverso la rottura categoriale con gli imperativi della “seconda natura” della società della merce.
Elementi per un movimento di appropriazione
Una prospettiva di emancipazione, può consistere soltanto nell’appropriazione, da parte della società, della riproduzione dell’intera esistenza, la quale non è più “mediabile” nel contesto della società del lavoro, e dove la praxis di questa appropriazione avrà la forma di un processo che si protrarrà presumibilmente per molti anni, nel corso dei quali verrà coinvolto tutto l’insieme dei rapporti sociali, economici e culturali. Non sono solo i rapporti di forza esterni, a determinare in modo forzoso un processo di trasformazione così complesso. Gli elementi di una socialità emancipata, estranea alla forma-merce, non si trovano certamente bell'e pronti, né possono per così dire venire creati dalla situazione, ma devono essere individuati e sviluppati. Non si tratta semplicemente di una questione tecnico-organizzativa; essa riguarda essenzialmente gli individui che agiscono nella società e la loro struttura psico-sociale. Alla fine, i membri di un movimento di superamento e di appropriazione non saranno degli “esseri trascendenti”, ma solamente degli uomini con una soggettività del lavoro e della merce più o meno marcata, cui però non vengono più deterministicamente consegnati ma che, tuttavia, non possono sfilarsela di dosso come se fosse una camicia. Pertanto, tale processo di appropriazione dovrà essere, anche e necessariamente, un processo di discussione estesa, di confronto reciproco e di autoriflessione. Un “movimento” inteso nel senso di un tale processo di appropriazione (al contrario di un’azione politica esterna), non ha nulla a che vedere con un “accontentarsi” su piccola scala, oppure su quella che può essere una “economia della miseria”, su di una Terra arsa dalle fiamme dell’economia di mercato. Inoltre, esso si differenzia fondamentalmente da quella che può essere una “prospettiva di sussistenza” di una civiltà agricola e artigianale, o dai progetti di “economia locale”, così come essi vengono divulgati in molte forme. sotto la pressione della crisi. Certo, spesso la produzione locale e l’iniziativa personale con mezzi semplici, offre ai molti uomini che sono stati resi “superflui” dalla crisi quella che è l’unica possibilità di garantirsi la sopravvivenza. In parte, questo fenomeno va di pari passo con la rinascita e con il recente sviluppo di nuove forme di cooperazione e di auto-organizzazione; ragion per cui si delineano anche qui degli elementi che sono diretti contro la logica della concorrenza capitalistica. Nonostante ciò, queste impostazioni rappresentano solo delle strategie di ripiegamento e di difesa, che restano socialmente isolate, e non offrono nessuna prospettiva emancipatoria cui approdare. Perciò non possono sviluppare di per sé nessuna dinamica che trascenda il livello estremamente basso di socializzazione, divisione del lavoro e produttività su cui si muovono. Al contrario sono facilmente strumentalizzabili dalle strategie di amministrazione della crisi e della miseria, e inoltre spesso finiscono per essere disponibili alla costituzione di identità etnicistiche e localistiche. Nella politica della crisi, nei governi e nelle istituzioni internazionali come la Banca Mondiale o l’ONU, le frazioni più spregiudicate non hanno nulla da dire, per garantire la loro sopravvivenza, se i “superflui” dal punto di vista capitalistico si avvicinano in un modo o nell’altro ai margini del capitalismo stesso. In questo modo, non solo la rivolta sociale si inasprisce, ma si crea la legittimazione a proseguire con una politica di esclusione sociale. Inoltre le eventuali risorse disponibili sono calcolate in quantità così scarsa che le iniziative e i gruppi che se ne occupano sono impegnati nella battaglia per i mezzi di sussistenza quotidiani, e non possono essere più mobilizzate le energie per attività ulteriori. Per esempio nei loro programmi per “combattere la povertà”, già da anni la Banca Mondiale promuove, a fine di cosmesi con due noccioline, i cosiddetti “aiuti per l’iniziativa personale”, e in Messico, nelle città, il governo neoliberale del presidente Salinas ha investito le organizzazioni di base di un potere decisionale particolarmente ampio in materia di infrastrutture (strade, canalizzazione ecc.), in modo da coinvolgerle così nell’amministrazione politica della crisi. Sostenere che la partecipazione allo stato presente delle cose sia l’unica possibilità, è completamente falso. In tal modo, quello che si realizza, sia sul piano ideale che su quello teorico, è la capitolazione di fronte ai compiti indubitabilmente gravosi rispetto a un’appropriazione trascendente la quale abbracci l’intera società mondiale, ancor prima che venga compiuto il primo passo effettivo verso tale meta. Invece un progetto di appropriazione emancipatoria, ha piuttosto il dovere di sviluppare il quadro di riferimento per una prassi di appropriazione, la quale è sempre stata concepita solo come temporanea e di emergenza, affinché possa così consolidarsi e crescere oltre sé stessa. La tensione tra l’obbiettivo di un superamento del lavoro - per la società nel suo complesso - e le difficoltà inerenti a un movimento di appropriazione che vuole cambiare le cose, rappresenta comunque un elemento progressivo, e non può essere sacrificato in cambio della vuota evocazione di un “totalmente altro”, né per l’autonomizzazione di quelle che sono forme limitate di prassi. La prassi di un movimento di appropriazione, non va concepita in modo riduttivo, alla stregua di un mero progetto di nicchia, ma bensì in termini essenziali, e vista come confronto incessante con la prassi capitalistica nei suoi livelli più diversificati. Questo vale prima di tutto, e non solo in generale per la critica radicale della razionalità economico-aziendale, ma in quanto completo smascheramento del suo carattere irrazionale e distruttivo nell'ambito dei processi materiali concreti, come in quelli sociali di “messa in rete” del capitale (come avviene quando dei galletti surgelati vengono scarrozzati attraverso tutta l’Europa per migliaia di chilometri, da dei camionisti sovraffaticati e sottopagati). La scoperta sistematica delle colossali assurdità che vediamo nella prassi economico-aziendale capitalistica, potrebbe costituire simultaneamente anche una base per poter indagare le possibilità di un’appropriazione e di una trasformazione del contesto della riproduzione materiale, sul piano dei settori produttivi e precisamente su quello dei loro flussi di risorse. Proprio perché non è più possibile assumere semplicemente il complesso produttivo capitalistico nella sua forma attuale; ma dal momento che grandi parti di esso dovranno essere smantellate, o modificate in termini fondamentali, l’appropriazione e la diffusione di questa conoscenza (di per sé una netta rottura con le regole del sistema) assume un enorme significato. Bisognerebbe considerare con spirito critico anche tutti i precedenti tentativi di critica e di sovvertimento sul piano della riproduzione concreta, che hanno avuto luogo in un contesto del tutto diverso; per esempio, le analisi del movimento ecologista, o il cosiddetto “dibattito sulla riconversione degli armamenti”, avvenuto negli anni’70 e ’80. In tal modo, veniva almeno in parte analizzato, in modo minuzioso e competente, come l’industria degli armamenti, con l’aiuto della competenza settoriale disponibile e attraverso un parziale intervento sul parco-macchinari, possa essere riconvertita a un altro tipo produzione, non militare. Naturalmente non si trattava di una critica radicale all’economia “scatenata”, ma solo, in ultima analisi, di conservare dei “posti di lavoro” nell’economia di mercato; per lo più in relazione con l’illusione di una “politica economica alternativa”, orientata in senso ecologico e comunitario all’interno di un capitalismo in qualche modo riformato. Era del tutto ingenuo, poter pensare che l’industria degli armamenti sarebbe stata smantellata se solo fossero state sviluppate idee produttive alternative. Pertanto il dibattito sulla riconversione scomparve dalla scena pubblica, senza lasciare alcuna traccia, anche in seguito al declino del movimento degli alternativi e della pace, e in concomitanza con il processo di adattamento dei verdi. Nonostante ciò queste analisi “ad acta” potrebbero essere utili come strumenti per potere discernere quali conoscenze e quali possibilità materiali potrebbero essere mobilizzate nel contesto di un “dibattito sulla riconversione” da un punto di vista totalmente diverso, contro l’economia aziendale e la produzione di merci. Il punto di partenza, così come l’impostazione di un movimento radicale di appropriazione, sarà certo molto diverso, a seconda del paese o della regione e dei rapporti che vi si sono instaurati. E’ immaginabile, e profondamente auspicabile, che un movimento di protesta di massa rivolto contro l’amministrazione della crisi da parte dello Stato, a causa dell’insopportabile inasprimento delle condizioni della crisi, si impossessi, secondo una dinamica propria, di grandi settori del tessuto sociale, ivi compreso l’apparato di produzione industriale. Dipende dalle diverse condizioni di riferimento - siano esse politiche, sociali od economiche, in cui ha luogo la crisi del capitalismo - quali forme transitorie di appropriazione reale possano concretizzarsi; in primo luogo naturalmente occorre chiedersi se e in quale misura l’atomizzazione e la letargia sociali possano essere eliminate. Nella stessa misura in cui la riproduzione all’interno della società del lavoro va restringendosi sempre più, e gli uomini devono ricorrere alle razioni di emergenza, la battaglia per la sussistenza elementare, cioè per l’abitazione, il cibo, l’energia ecc. e per l’accesso ai servizi sociali e sanitari, può acquistare una sua forza esplosiva. Chi ritiene tutto ciò un’illusione, deve ricordarsi che in vaste regioni del mondo i circuiti di sussistenza “regolari” legati allo Stato o all’economia di mercato sono in gran parte già crollati. Nei paesi centrali del capitalismo il treno viaggia da tempo verso una stessa destinazione; anche in questi paesi la pressione aumenta, tuttavia essi sono ancora nella condizione di poter scaricare in qualche modo i costi sulla propria forza-lavoro, poiché i salari decrescono stabilmente, mentre allo stesso tempo le prestazioni sociali vengono decurtate. In simili circostanze diventa cruciale un’alternativa: o le catastrofi legate alla sussistenza genereranno una violenta concorrenza tra gli esclusi, che potrà essere condotta da bande razzistiche e da ambigui nazionalisti politici-mediatici, oppure farà la sua comparsa nella società un centro focale di stampo emancipatorio, che cominci per esempio con occupazioni di case o “scioperi dell’affitto”, svincolando la sfera dell’abitare dalla sfera della produzione di merce; mentre nel contempo si organizzi nei quartieri un’infrastruttura autonoma di servizi medici e sociali, punti di incontro, centri di comunicazione ecc. Ma tali misure sono durevoli solo se, agendo come fondamenta iniziali e teste di ponte, riescono in una certa misura ad originare un processo dinamico che agisca sulla riproduzione sociale nel suo complesso; una tale dinamica è possibile solo se contemporaneamente sorge un centro focale teorico e sociale che diffonda nella forma di nuova controinformazione le idee della rottura categoriale con il lavoro e con la produzione di merci. Questo, sin dal principio, implica la necessità di una comunicazione, di una coordinazione e di un appoggio reciproco su scala transnazionale ed interregionale di un movimento di appropriazione che sia in grado di intervenire - da una posizione “terza”, di superamento - nei conflitti sociali immanenti e nella contrapposizione tra gli interessi per tutto quanto riguarda il salario, i sussidi di disoccupazione, l’assistenza sociale ecc. Non é neppure auspicabile una struttura “economica alternativa” di piccole comunità che producano merci, o perfino quella di singole persone che scambino “direttamente” il loro tempo di lavoro, come ci viene prescritto dall'ideologia regressiva dei “circoli di scambio”. Dal momento che in questo modo quello che si otterrebbe non sarebbe altro che la riproduzione (o la simulazione, in parallelo alla società) delle costrizioni dell’economia di mercato, con tutte quelle che sono le loro implicazioni. L’astratta forma di attività “lavoro”, non viene in tal modo superata, per questa via, ma la sua “autogestione” si limiterebbe solo a mettere in pratica in prima persona le demenziali leggi dell’economia aziendale. Appropriazione reale, può sempre e solo significare che le risorse disponibili nei corrispondenti settori di intervento vengono impiegate conformemente all’accordo diretto degli interessati, e che il risultato di questo processo viene “esaurito nell’uso”, anziché rientrare sul mercato come offerta. Solamente in questa prospettiva è possibile intraprendere l’abolizione della sfera autonomizzata dell’economia, all’interno di un tessuto sociale consapevolmente organizzato anche in settori separati. Naturalmente, quando si parla di “accordi diretti”, non si vuole dire che gigantesche masse umane debbano incontrarsi in continuazione, per discutere e deliberare su ogni faccenda. Bisognerebbe piuttosto escogitare un sistema istituzionale e organizzato per gradi, di intese su tutti i livelli, che divenga per ciascun membro della società parte integrante del suo vivere quotidiano (come lo sono oggi il lavoro astratto, il denaro e la concorrenza). Con l’espressione “diretto” intendo soltanto dire che nessuna forma feticistica autonomizzata può frapporsi tra i membri della società e le condizioni della loro esistenza; e che anche i livelli più elevati di organizzazione all’interno della struttura sociale devono restare visibili per tutti (per esempio grazie ai moderni mezzi di comunicazione) facendo a meno dello Stato con i suoi apparati che, analogamente all’economia, è avulso dalla società e la tiene soggiogata nel nome di uno scopo presupposto in sé. D'altra parte, il compito di sviluppare tali forme e istituzioni della connessione sociale diretta, e anche la loro composizione, si trova di fronte a un ostacolo; ovvero il fatto che non esiste alcun modello storico, e tanto meno attuale, da cui trarre ispirazione. Per esempio l’idea seppur effimera dei “consigli” potrebbe offrire (per quanto analizzata criticamente) un punto da cui partire; ma essa è naufragata proprio per il fatto di essere rimasta ancorata alla società del lavoro, e non essere quindi riuscita a oltrepassare la forma borghese della politica; piuttosto essa era stata pensata nei termini di un sistema rappresentativo politico di tipo plebiscitario, con un controllo meramente esterno sul lavoro astratto e sull’economia della merce che rimanevano insuperati. Ne è prova il fatto che, per esempio, l’elaborazione teorica dei consigli - così come fu sviluppata da Karl Korsch negli anni ’20 - prevedeva una diversificazione tra “consigli di produttori” e “consigli di consumatori”; si dovrebbe così perciò riprodurre in pratica la schizofrenia strutturale del soggetto della merce, che da un lato è il venditore della sua stessa forza-lavoro, e dall’altro un consumatore di merce. Al contrario, al fine di un superamento della forma feticistica resasi autonoma, sarebbe da presupporre logicamente che si arrivi invece ad instaurare l’identità tra produttore e consumatore, mediata all’interno delle relazioni sociali. In ogni caso sarebbe del tutto insensato fissarsi su di un “modello” determinato di connessione sociale, che dovrebbe essere valido ovunque, analogamente alla forma-merce. Bisognerà discutere oltre che dell’assistenza ai bambini nei quartieri (e non necessariamente in tutti i quartieri e regioni allo stesso modo) anche della produzione di travi d’acciaio e dell’organizzazione di un programma radiofonico. Se il superamento del lavoro implica, anche, che tutte le attività riconosciute come sensate abbiano un valore nel senso della loro logica propria, ciò vuol dire che allora anche i processi decisionali devono tenerne conto. Il futuro oltre il lavoro, non è certo un nuovo principio funzionale ed organizzativo, che rimanga astrattamente universalistico, ma uno spazio sociale veramente “aperto” che si contrapponga alla forma-merce e che favorisca lo sviluppo di una molteplicità concreta in tutti i campi dell’esistenza – senza l’impulso costrittivo che deriva dalla costruzione di un’identità modellata sulla concorrenza e dalla paura dell’esclusione.
- Robert Kurz e Norbert Trenkle -
Note
1 "Die Aufhebung der Arbeit. Ein anderer Blick in das Jenseits des Kapitalismus". In: Robert Kurz, Ernst Lohoff, Norbert Trenkle (a cura di), Feierabend! Elf Attacken gegen die Arbeit (Hamburg: Konkret Literatur Verlag, 1999).
2 Più letteralmente, "logica della localizzazione" (Standortlogik). (N.T.).
3 Vedi Robert Kurz, "Die Diktatur der abstrakten Zeit. Arbeit als eine Verhaltensstörung der Moderne.[La dittatura del tempo astratto. Work as Modern Misfit] in Robert Kurz, Ernst Lohoff, Norbert Trenkle (a cura di) Feierabend! Elf Attacken gegen die Arbeit. (N.T.).
4 Cfr. Robert Kurz, La terza forza. Fine e inizio della neutralità. Caderno Prudentino de Geografia, n. 18, luglio 1996. Presidente Prudente: AGB, 1996. (N.T.).
Bibliografia
Hannah Arendt, Vita Activa oder Vom tätigen Leben, München, 1989 (prima pubblicazione: 1958).
Paul Lafargue, Das Recht auf Faulheit, Grafenau, 1998 (prima pubblicazione: 1883).
Thomas Schultze e Almut Gross, Die Autonomen, Amburgo, 1997.
Pablo Pereza, Das Recht auf Faulheit – 100 Jahre später, Grafenau, 1998.
Edward Palmer Thompson, Die Entstehung der englischen Arbeiterklasse, Francoforte sul Meno, 1987 (prima pubblicazione: 1963).
Edward Palmer Thompson, Plebeische Kultur und moralische Ökonomie, Berlino, 1980.
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