Su un’isola spazzata dal vento e dalle onde, vive una piccola comunità che ha scelto di ritirarsi dalla frenesia delle città e abbracciare i ritmi del mare. Suoi compagni d’elezione sono i gatti che, di tutti e di nessuno, scorrazzano per i tetti o si acciambellano al calduccio nelle case. I pescatori di aragoste e le merlettaie, il prete filosofo e la comare impicciona, i bambini che rincorrono pecore paffute, il poeta che suona il violino e il vecchio guardiano del faro: in quell’oasi remota, dove hanno scelto di vivere, tutti sono liberi e nessuno si sente abbandonato. Un giorno, però, gli abitanti si svegliano e i gatti non ci sono più. Disperati, chiedono allora aiuto alle autorità del continente, che mandano sull’isola nuovi gatti, molto più mansueti e controllabili. Uno per abitante e dotato di guinzaglio, in modo che non si perda. Solo che non sono affatto gatti. Sono cani. Da portare a spasso tre volte al giorno alla stessa ora, per le medesime vie. Come a creare un’abitudine che distolga dal pensare. Un ordine che favorisca l’obbedienza. Perché basta chiamare «gatto» un cane affinché tutti dimentichino il passato e si adeguino alla nuova realtà, senza farsi troppe domande. Tutti tranne il vecchio guardiano del faro, che lotta per riportare sull’isola i veri gatti, e con loro la capacità di ribellarsi e sognare. Una storia delicata e profonda, che ci ricorda il potere che hanno le parole nel forgiare la nostra realtà. Una favola moderna che, con acume e ironia, invita a riflettere sui rischi del conformismo. Un inno alla tolleranza e alla libertà, soprattutto di pensiero.
(dal risvolto di copertina di: Isabelle Aupy, "Storia dell'uomo che smise di amare i gatti". Nord, traduzione di Claudine Turla, pagg.128, € 14)
Aiuto, mi si sono addomesticati i gatti
- di Licia Troisi -
Una citazione falsamente attribuita a Goebbels dice che, se ripeti abbastanza a lungo una bugia, essa alla fine diventerà per tutti una verità. Ce lo ricorda anche Orwell, che in 1984 cita il celebre 2+2=5 sul quale Winston si interroga. Ma è davvero così? Viviamo in tempi che ci indurrebbero a credere di sì: le fake news dilagano, e mai come oggi (forse) ci sembra che la realtà sia stata declassata a semplice opinione, che tutto possa essere affermato, anche le verità più assurde, senza che nessuno possa controbatterle. Ed è qui che si inserisce "L'uomo che smise di amare i gatti", dell'autrice francese Isabelle Aupy. Forse tutti possono dire quel che vogliono, anche verità del tutto staccate dalla realtà, ma esiste sempre la possibilità di liberarsi dalla menzogna, di affermare ora e per sempre la verità dei fatti. In un'isola mai collegata con la terraferma, vive una comunità di persone cha ha deciso di allontanarsi dal caos del mondo e vivere un'esistenza forse più dura, ma più vera e autentica. L'emblema della scelta radicale degli isolani sono i gatti: ce ne sono tantissimi, sull'isola, liberi e selvaggi. A volte si legano a qualche umano, ma mai per sempre, mai rinunciando all'intrinseca libertà che amano. Sull'isola tutto sembra scorrere identico a sé stesso, intoccato, ma d'improvviso i gatti spariscono, tutti. Gli isolani si sentono privati di qualcosa di fondamentale, e decidono di fare una cosa inaudita: chiedere aiuto alla terraferma. E, in effetti, i gatti arrivano. Solo che sono molto diversi da quelli che fino a quel momento avevano allietato la vita degli abitanti dell'isola: sono obbedienti, ben educati, si fanno di buon grado portare al guinzaglio. Insomma, sono cani. La gente della terraferma, però, insiste che si tratti di gatti, di gatti migliori di quelli precedenti, e qualcuno inizia a crederci davvero...
Il delizioso libro di Aupy si inscrive nella lunga tradizione degli apologhi, cui però l'autrice aggiunge un afflato letterario che rende il tutto meno didascalico e più appassionante. I modelli che vengono in mente sono Il gabbiano Johatkan Livingstone o Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, non a caso libri che usano gli animali per veicolare un messaggio, con un ovvio riferimento, andando più indietro, a Esopo. Ma come già detto, la storia non si limita al mero racconto filosofico, all'esposizione di una tesi e alla sua dimostrazione. L'isola dei gatti, i personaggi che la abitano, sono descritti vividamente, anche grazie al racconto in prima persona di uno degli abitanti. Così la piccola comunità prende vita, nelle sue idiosincrasie e nei suoi personaggi tipici: il vecchio guardiano del faro, burbero ma capace di vedere lontano, il professore, il bambino discolo. E tutto intorno, la presenza del mare, che protegge dal mondo esterno, certo, ma che richiede anche un prezzo in vite umane, che incurante frusta l'isola con le sue tempeste. E questo piccolo mondo d'improvviso viene violato da una funzionaria, venuta a insegnare la vita agli isolani. Parla persino un'altra lingua, il Convinto, un modo di parlare privo di dubbi e sfumature, una lingua densa di certezze inderogabili, la lingua del potere. Perché alla fine di questo parla Auby. Più ancora della nostra capacità di ribadire il reale, il libro è un discorso intorno alla resistenza al potere. Un potere che non solo vuole imporci la sua verità, ma vuole anche cambiare le nostre vite, che vuole renderci tutti uguali. Non è un caso, quindi, che in esergo, ci siano due citazioni, una da Fahrenheit 451 e l'altra dal già citato 1984, i due libri che più hanno forgiato il nostro immaginario circa i regimi totalitari e la loro capacità di modellare le nostre vite, plasmarle a uso e consumo del potere. Solo che quel potere, che a lungo abbiamo incarnato in una persona, in un movimento politico, in Occidente ha preso un'altra forma, ci dice Aupy, una forma che non ci aspettavamo e che ci ha confusi: quella del conformismo e in ultima analisi probabilmente quella del mercato. Dobbiamo essere tutti uguali, perché questo è il presupposto di qualsiasi forma di controllo: la differenza, che è intrinseca nell'essere umano, che è forse il bisogno più profondo che ognuno di noi sente, è caos, imprevedibilità, e questo chi comanda non può tollerarlo.
I gatti dell'isola non sono altro che questo: la libertà di essere ciò che si vuole, di muoversi ovunque nell'isola, e di stringere legami, certo, ma che non ci imbriglino, che non ci costringano a impossibili definizioni di ciò che siamo. Non dobbiamo permettere agli altri di dettare la nostra identità, sembra dici Aupy: gli isolani hanno fatto una scelta che, come tutte le scelte vere, è personale e intima, e che quindi nessuno di loro vuole imporre ad altri. Quel che vogliono è solo essere lasciati in pace, poter vivere la loro esistenza fuori dai confini tracciati da altri. Se i gatti davvero diventeranno cani, se davvero il mondo esterno vincerà sulla piccola comunità dell'isola, si può scoprire ovviamente solo leggendo il libro, e proprio non vale la pena rovinare il finale, anche perché quello di Aupy è un libro che va assaporato come una buona tazza di tè caldo, magari guardando il mare in tempesta e sognando che il mondo finisca lì ai confini dell'isola, dove è ancora possibile essere soltanto ciò che si vuole.
- Licia Troisi - Pubblicato su Robinson il 26/5/2024 -
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