giovedì 20 marzo 2025

Il furioso ronzio della vespa alla finestra che sbatte contro il vetro…

In questo mese di marzo del 2025, Crise & Critique ha appena pubblicato un libro di Ernst Schmitter, "L'economia come catastrofe. Un'introduzione alla critica della dissociazione-valore" (tradotto in francese, dal tedesco, da Sandrine Aumercier). Questo libro offre una nuova introduzione a una corrente della teoria critica che ha avuto origine in Germania, e che ora è presente in più paesi, come Brasile, Austria, Italia, Francia e oltre. Schmitter ha raccolto una sfida audace: sbarazzarsi dei concetti marxisti - così come dei riferimenti alla Teoria Critica, spesso considerati troppo ermetici - in modo da offrire una nuova critica del capitalismo-patriarcato. Questa critica, va ben oltre l'alter-capitalismo, l'antirazzismo tronco, il femminismo liberale , o l'ambientalismo superficiale. Una missione, questa, che molti ritenevano impossibile, ma che è riuscita brillantemente. Qui di seguito, si riportano la prefazione e l'introduzione al libro.

«Chi intende criticare la realtà dominante deve porsi innanzitutto l’obiettivo di comprenderla.» (Robert Kurz, da "Das Weltkapital")

PREFAZIONE
Succede che la verità si nasconda dietro una convinzione generale, come se stesse dietro una cortina fumogena. La nozione di crisi multipla costituisce una cortina fumogena. Chi mai potrebbe contestare il fatto che il mondo stia soffrendo di una molteplicità di crisi? Dappertutto, in tutti i continenti, e tenendo conto degli aspetti più diversi, la vita degli esseri umani si organizza in maniera sempre più precaria. Le pubblicazioni riguardanti la crisi multipla sono numerose. E gli appelli a trovare una soluzione sono ancora di più. La crisi può e deve essere superata. Si tratta di una questione di sopravvivenza per l'umanità: è questo il sentimento generale. Tuttavia, a essere dimenticato, ignorato o rimosso è il seguente dato di fatto; quello che tutti gli aspetti di questa crisi multipla hanno la stessa causa. A guardare meglio, e da più vicino, si vede subito che si tratta di un'unica crisi che si esprime in diverse maniere. Si tratta della crisi del sistema di quella società globale che porta il nome di capitalismo. Sono più di trent'anni che la Critica del Valore ha consacrato sé stessa alla spiegazione di questa crisi globale. Il lavoro svolto da questa scuola di pensiero, rimane essenziale per la comprensione della crisi. Eppure, allo stesso tempo, al di fuori di un certo ambito, rimane praticamente sconosciuto. È questo, ora, un ottimo motivo per interessarsene! Tuttavia, accedere a questo modo di pensare rimane difficile per tre ragioni: in primo luogo, i testi della critica del valore non sono facili da capire.  Non sono auto-indulgenti e richiedono pazienza da parte del lettore. Inoltre, la maggior parte di essi si limita a una descrizione teorica della società capitalista. Questo può scoraggiare la lettura di chi vuole impegnarsi nelle lotte sociali, anche se potrebbe trarne giovamento. Infine, dobbiamo abituarci a riferirci all'opera di Karl Marx attraverso la critica del valore. La critica del valore spinge il pensiero marxista, ma anche quello non marxista, in un territorio inesplorato. Attraverso questa introduzione alla critica del valore, spero di tenere conto di queste tre difficoltà: tener conto della difficoltà di comprensione, presentando le idee fondamentali della critica del valore nel modo più semplice possibile; tener conto della distanza dalla pratica, attraverso i possibili legami da me indicati tra la critica del valore e una prassi emancipatrice; tener conto del riferimento a Marx, non supponendo che il lettore abbia una conoscenza preliminare di Marx e rinunciando per quanto possibile al vocabolario specialistico del marxismo. Il libro è perciò un esercizio di traduzione di tali tesi per renderle accessibili a un pubblico più ampio. Ancora una parola riguardo al modo in cui presento le cose: non appartengo a nessun gruppo di critica del valore. Se faccio questa introduzione, è perché, a mio avviso, esiste un divario, diventato troppo grande, tra l'importanza della critica del valore e la sua mancanza di notorietà. Fin dalla sua nascita, la critica del valore ha dovuto misurarsi con un'accoglienza ostile, con l'incomprensione, la derisione e il disprezzo, e in parte anche con il fatto che è stata sistematicamente ignorata. Ma la sua diagnosi del presente mi sembra talmente convincente che ritengo dovrebbe essere accessibile a un pubblico più vasto. Per questo motivo, nonostante alcune riserve, in tutto il libro adotto il punto di vista della critica del valore.
 

Introduzione
Nel momento in cui si comincia a interessarsi alla critica del valore, ci si può aspettare di avere delle sorprese. L'espressione stessa di "critica del valore" rischia di innescare associazioni di idee che non hanno nulla a che fare con il suo significato. Ecco perché l'introduzione alla critica del valore propriamente detta è preceduta da questi due capitoli. Hanno lo scopo di evitare ai lettori delle delusioni. Semmai, dopo averli letti, sentirete di trovarvi "nel film sbagliato", allora potete tranquillamente dedicarvi a cose che siano per voi più divertenti della lettura di questo libro. Al contrario, invece, la lettura di questi due capitoli non è necessaria a capire ciò che segue. Chi preferisce buttarsi impreparato nell'acqua fredda della teoria e della critica del valore, può iniziare direttamente con la seconda parte.

La vespa sul vetro della finestra: sulla difficoltà a essere contro il capitalismo

Le persone che sono impegnate nei movimenti sociali ed ecologici, vedono sempre più il proprio impegno come una lotta attiva, e si definiscono sempre più spesso, e senza mezzi termini, come anticapitalisti. Purtroppo, la maggior parte delle volte una simile affermazione non vuol dire niente. Sono pochi coloro i quali hanno un'idea di cosa significhi "essere contro il capitalismo". L'anticapitalismo è diventato l' emblema di tutti i tipi di modi di pensare e di agire ribelli. Dietro una cosa del genere, si nasconde l'idea secondo cui l'anticapitalismo è questione di avere un modo di vita alternativo, il quale non avrebbe bisogno di alcuna teoria. Alla fine sarebbe stata la sperimentazione a sostituirsi allo studio. Che senso ha preoccuparsi di studiare il capitalismo se si vede la situazione disastrosa in cui versa il mondo? Ecco che allora “cominciamo subito” diventa lo slogan per molti gruppi orientati alla prassi. Questo libro sostiene che in questa posizione è già contenuto il fallimento di un'opposizione del genere. In realtà, ciò che qui si considera anticapitalista è in generale parte integrante del sistema di produzione di merci chiamato capitalismo, e potrebbe persino contribuire alla sua perpetuazione. Finché fraintende il sistema e, quindi, la propria situazione, l'opposizione non può che essere vana. Sembra quasi come una vespa che ronza a morte sul vetro di una finestra, se nessuno viene ad aprirla. La vespa non sa che non c'è modo di passare attraverso la finestra. La sua furiosa implacabilità non gli è di alcun aiuto. In maniera analoga, l'opposizione "anticapitalista" non sa che ciò che le si presenta come un ostacolo, è altrettanto poco visibile quanto lo è il vetro per l'insetto. Essa dovrebbe essere tuttavia consapevole di quelle realtà del sistema che non sono evidenti. Se non riesce a esserlo, rimane destinata al fallimento. Ed ecco che, così, dopo alcuni anni di furioso ronzio, deve arrendersi o adattarsi. E questo serve ancor di più alla sostenibilità del sistema. Ci sono numerosi esempi, in questi ultimi decenni, che lo dimostrano. Le persone che si oppongono socialmente partono quasi sempre ponendosi la domanda: "Che cosa posso fare?" In innumerevoli gruppi e organizzazioni, il cui motore principale è proprio questo tema, ci sono molte persone che danno il meglio di sé, ma nel complesso ottengono ben poco. Ciò avviene per un motivo assai semplice: i movimenti "che cosa posso fare" concentrano i loro sforzi sulla risoluzione di un malfunzionamento isolato, per un problema isolato, dandosi un compito isolato. Si tratta di movimenti che si concentrano su un solo punto, e che in futuro chiameremo monotematici. Non è raro che, nel quadro limitato del loro campo di intervento,  ottengano un miglioramento della situazione: diritti umani, commercio equo e solidale, riduzione del traffico, efficienza energetica, vita di quartiere, agricoltura solidale, sostegno ai migranti, benessere degli animali, critica della crescita, politica sociale e ambientale e così via. Ma nel migliore dei casi possono ottenere che "qualcosa cambia", che "le cose vanno almeno un po' meglio", che "si potrebbe sperare sperare se solo tutti...", e così via.  In tal senso, questi movimenti sono ovviamente positivi anche per le persone che vi partecipano. Resta il fatto che in ogni caso non potranno mai realizzare una trasformazione sociale globale; anche perché ciò li renderebbe superflui come movimenti monotematici. Alla fine, di una vita di impegno in un movimento monotematico, spesso rimane solo il riconoscimento pubblico di uno sforzo coraggioso, da un lato, e la disillusione dall'altro: tanti sforzi per dei risultati così modesti! Eppure quel sistema stimolato dalla crescita noto come capitalismo, continua a produrre, ad accumulare, a sfruttare, a proliferare, a monitorare, a controllare, a soggiogare, a distruggere e a uccidere. Esso continua a operare imperturbato. Dal loro canto, i movimenti monotematici agiscono e il loro numero aumenta, malgrado il fatto che i loro sforzi siano spesso inutili. Il punto cieco, nell'occhio dei movimenti “che cosa posso fare”, è rappresentato dalla relazione complessiva nella quale sono intrappolati. La totalità sociale a cui tutti i movimenti monotematici partecipano opera alle loro spalle, in modo tale che alla fine non ottengono ciò per cui si battono, e spesso ottengono proprio il contrario. L'impegno per i diritti umani, ad esempio, costituisce una tacita accettazione del fatto che nel capitalismo i diritti umani non sono un dato di fatto, ma vengono richiesti, e alla fine vengono concessi, sotto forma di diritti, fintanto che i vincoli economici e politici oggettivi lo consentono; ma purtroppo solo a questa condizione. La salvaguardia della natura è in realtà una collaborazione con un sistema che non riconosce la natura come suo fondamento, ma la considera come un bene che deve essere protetto finché la società può finanziarlo; ma purtroppo solo a questa condizione. Il nome paradossale del commercio equo e solidale dimostra sin d'ora che esso sarebbe possibile su larga scala solo se venisse abolito il libero mercato, cioè il principio della concorrenza. Ma non è questo il suo scopo. È per questo che deve rimanere una forma di aiuto da parte di alcuni privilegiati ad altri privilegiati. Se crediamo che la trasformazione dell'agricoltura intensiva in agricoltura biologica possa essere ottenuta attraverso la pressione dei consumatori, dovremmo prendere atto del fatto che è proprio questa pressione che potrebbe portare a un ammorbidimento dei criteri vigenti per l'agricoltura biologica, fino ad arrivare a incorporare l'ingegneria genetica. L'uso parsimonioso delle risorse non rinnovabili e dell'energia, di solito porta a una diminuzione del prezzo, come risultato dell'equilibrio tra domanda e offerta e, in ultima analisi, a farne aumentare l'uso complessivo. Si tratta dell'effetto “rebound”, un fenomeno economico ormai noto da più di 150 anni, la cui origine risiede nella spinta alla crescita dell'economia, e nell'aumento della produttività ad essa inerente [Nota: William Stanley Jevons descrisse per la prima volta l'effetto rimbalzo nel 1865 nel suo libro The Coal Question]. Ne consegue che, per ragioni economiche, un migliore utilizzo delle risorse produce regolarmente l'effetto opposto a quello desiderato, ossia un aumento, anziché una diminuzione, dell'utilizzo. E così via. L'elenco degli esempi potrebbe essere esteso all'infinito. Purtroppo, la maggior parte delle volte, l'impegno oppositivo spontaneo rimane cieco rispetto alle relazioni nelle quali intende affermarsi. Ecco perché di solito ottiene qualcosa di diverso dal suo scopo originario. I movimenti “che cosa posso fare” sono di certo essenziali, ma solo all'interno del sistema; e spesso lavorano simultaneamente, inconsciamente e involontariamente per mantenere il sistema. È questo il motivo fondamentale per cui non possono essere anticapitalisti, anche se si immaginano di esserlo. Agiscono per ottimizzare il sistema, non per cambiarlo. Eppure l'esperienza di molti movimenti monotematici dimostra che l'obiettivo che perseguono si dissolve proprio perché non hanno il coraggio di mettere in discussione il sistema stesso. Un'opposizione che non intendesse perdersi in una simile impasse, dovrebbe pertanto essere consapevole delle relazioni complessive nelle quali si sta impegnando. Se la critica del capitalismo deve essere qualcosa di più di una giustificazione generale della consueta gestione della crisi, allora essa deve essere radicale. In caso contrario, non si tratta affatto di una critica. Una critica radicale è, come indica il termine stesso “radicale”, una critica che va alle radici. La maggior parte dei movimenti “che cosa posso fare”, sono ben lontani da questo. Nel capitalismo globalizzato, la critica radicale è un bene piuttosto raro. E lo è per ragioni comprensibili: potrebbe mettere in discussione praticamente tutto ciò che conta: l'economia, la politica, i media, il sistema educativo e formativo, la scienza, la ricerca e la tecnologia, lo sport, le relazioni di genere e, ultimo ma non meno importante, l'onnipresente pensiero della concorrenza, vale a dire, il lubrificante della macchina capitalista che persino i critici sociali affermano spudoratamente di ritenere “sano”. Una sfida talmente intransigente all'attuale ordine sociale, è urgentemente necessaria; ma proprio perché radicale, non può che avere un'esistenza marginale all'interno della società che critica. Ed è proprio questo inquietante ruolo marginale che la critica del valore ha occupato per oltre trent'anni. Essa si rifà alla “critica dell'economia politica” di Karl Marx. L'economia politica, nell'epoca di Marx, designava ciò che oggi chiamiamo scienza economica o economia. A quei tempi, come oggi, la scienza economica aveva una duplice funzione: da un lato, cercava di fornire una base scientifica alla prassi capitalistica, mentre dall'altro fungeva piuttosto maldestramente da giustificazione ideologica di quella stessa prassi. Marx ha criticato questo doppio gioco, che va criticato ancora oggi. Da Marx il capitalismo si è sviluppato e modificato notevolmente, e insieme ad esso anche la specialità che ne costituisce il fondamento e la giustificazione ideologica, ossia l'economia. Gli autori e le autrici della critica del valore tengono conto di questa evoluzione nel proprio lavoro. Intendono sviluppare una critica dell'economia politica per il XXI secolo, riprendendo quelle parti dell'opera di Marx la cui rilevanza può essere compresa solo ora. Essi criticano l'economia e la scienza economica del nostro tempo. Così facendo, forniscono un sostegno teorico a tutte quelle persone interessate che diffidano della loro immediatezza, e vorrebbero sfuggire al destino della vespa sul vetro della finestra chiusa. I temi centrali della critica del valore, sono costituiti dalle realtà nascoste dell'economia e del sistema sociale capitalistico che, come se fosse un ostacolo insormontabile, si frappongono a ogni attività di opposizione su cui non c'è stata riflessione. La critica radicale del capitalismo deve dedicare la massima attenzione a queste realtà.

Corso accelerato di critica del valore: il capitalismo non è in crisi, ma è la crisi

Quando pensiamo a come potrebbe, o dovrebbe essere una società non capitalistica, ci imbattiamo immediatamente in difficoltà quasi insormontabili, che possono essere paragonate a quel vetro invisibile della finestra dove la vespa ronza a morte, e di cui si è parlato nel capitolo precedente. Il concetto di economia è polisemico, e oggi si riferisce a qualcosa di totalmente diverso da quello che significava, ad esempio, nell'antichità greca. Quando ci chiediamo in che cosa consistesse la "economia" delle società premoderne, la risposta dovrebbe essere, in senso stretto, che in pratica non avevano un'economia. Il rapporto che l'essere umano, dall'età della pietra al Medioevo, ha avuto con le "risorse" umane e naturali, non era impregnato delle stesse categorie, principi e rappresentazioni di ciò che troviamo oggi alla base dell'economia odierna. La semplice questione di sapere come appariva l'economia delle società precedenti, implica una proiezione delle rappresentazioni stesse dell'economia su quelle società precedenti; una proiezione che non tiene conto della realtà storica, o preistorica. Il fatto che proiettiamo la nostra rappresentazione dell'economia sulle epoche passate, e forse anche su quelle future, può essere spiegato solo dalla tendenza che ha l'economia - e l'economia di oggi - a rappresentare la nostra economia capitalistica come se fosse "naturale", vale a dire, corrispondente alla natura umana. E questo malgrado il fatto che il capitalismo, dal punto di vista della storia umana, sia solo una nota a piè di pagina. Se si cerca nel passato o nel futuro un tipo di economia non capitalistica, ci si dovrebbe astenere dal partire dall'analisi dell'economia capitalista nella speranza di sviluppare una "economia migliore" a partire da lì. Già la nozione stessa di "economia non capitalista" è problematica. Sarebbe meglio lasciar perdere. Perché nel nostro tempo, nella pratica, i concetti di economia e di capitalismo si sovrappongono. Quando si cerca la possibilità di un'economia non capitalistica, forse, senza accorgersene, si sta cercando un "capitalismo non capitalista". Quando pensiamo che qualsiasi tipo di riforma economica, o anche una rivoluzione economica, possa portare a un'economia migliore, e precisamente a un'economia non capitalista, rischiamo di girare in tondo, e tornare infine al punto di partenza: l'economia capitalistica. Tentativi di questo genere, sono sempre finiti nel "socialismo reale", e alla fine hanno fallito. Si basavano sull'illusione che sarebbe stato sufficiente, per la creazione di un'economia non capitalista, portare i vantaggi del capitalismo in un nuovo sistema, ed eliminarne allo stesso tempo gli inconvenienti. Invece, il pensiero della critica del valore ci aiuta a capire che per superare il capitalismo non serve un'economia migliore, ma all'umanità serve una via d'uscita dall'economia. Questo si fa presto a dirlo, ma deve essere spiegato in dettaglio. Tutta la seconda parte di questo libro è dedicata proprio a questo tentativo di spiegazione. Ma se l'umanità non esce dall'economia, secondo la critica del valore, c'è da temere una catastrofe globale nella quale le possibilità di intervenire verrebbero in gran parte sottratte all'uomo. Ecco perché è urgente intraprendere un'azione consapevole, ben ponderata e congiunta. La terza parte del libro si concentra su questa pratica emancipatoria. Prima, però, si cercherà di presentare la critica del valore sotto forma di una lezione di tre minuti. Chiunque, dopo questa presentazione, dovesse concludere che non ne vale la pena, può regalare il libro a qualcun altro. In compenso, se deciderà di continuare a leggere, avrà già un'idea di ciò che verrà dopo. Innanzitutto, bisogna sfatare due equivoci: il primo riguarda il concetto di lavoro, così come viene utilizzato nella critica del valore e quindi anche in questo libro. Con esso, non ci si riferisce alla totalità delle attività umane, come il lavoro domestico, il lavoro artistico, il giardinaggio, il lavoro industriale, e una miriade di altre attività. Ma esso designa piuttosto sempre quel tipo di lavoro senza il quale il capitalismo non potrebbe funzionare; e che lo distingue, in quanto principio fondamentale, da tutte le altre società: il lavoro salariato. La seconda precisazione riguarda l'equivalenza che è stata appena menzionata tra capitalismo ed economia. Questa equivalenza non intende dire che il rapporto capitalistico con le risorse umane e naturali sia l'unico possibile. I bisogni umani essenziali – cibo, vestiario, alloggio, mobilità, bisogni sociali e culturali – potrebbero essere soddisfatti in un sistema non capitalistico; ma questo sistema avrebbe ben poco in comune con quella che oggi viene chiamata economia.  Che cosa aggiunge la critica del valore alla critica del capitalismo che non sia già noto almeno dai tempi di Marx? In che modo la critica del valore si differenzia dalla critica tradizionale del capitalismo, la quale , almeno in parte, ha perso la sua credibilità nel “socialismo realmente esistente”? La risposta sta nel nucleo teorico della critica del valore. Essa trae origine da un'idea di Karl Marx, la quale è stata troppo poco presa in considerazione dal marxismo, e che probabilmente non è stata adeguatamente compresa: nel sistema economico che si definisce capitalismo, si trova incorporato un meccanismo il quale porta necessariamente alla sua autodistruzione. L'economia è la produzione di ricchezza - e quindi di valore economico - attraverso il lavoro umano, ed è la distribuzione di tale ricchezza. La ricchezza totale, e quindi la massa del valore economico, può e deve crescere in virtù dell'utilizzo di sempre più forza lavoro umana. Ma allo stesso tempo, il lavoro umano deve essere eliminato il più possibile dalla produzione di merci per motivi di redditività nella competizione. In questo modo, il capitalismo esaurisce la fonte da cui vive. La fonte è il lavoro umano. Questa contraddizione - tra la creazione di valore attraverso il lavoro, da un lato, e l'eliminazione proprio di questa fonte di valore, dall'altro, è il germe patogeno che sta portando il capitalismo alla sua distruzione. È questa la tesi della critica del valore. Questo processo autodistruttivo non può essere fermato, né tantomeno invertito. Si muove sempre nello stesso senso. Per questo motivo, il sistema non si trova mai due volte nella stessa situazione. Il suo stato attuale è totalmente diverso da quello degli anni Sessanta, ad esempio. Il capitalismo degli anni Sessanta era caratterizzato da una crescita economica impressionante, da una bassa disoccupazione e da un incredibile ottimismo. Il capitalismo del nostro tempo non conosce queste caratteristiche. La fonte della ricchezza, la forza lavoro, sta lentamente diminuendo, perché il lavoro umano viene sempre più estromesso dai processi produttivi. Ma si sta prosciugando in maniera perfida, in modo tale che le persone riescono a malapena a percepirlo nella loro vita quotidiana. Questa vita quotidiana è caratterizzata da una frenetica accelerazione dei processi produttivi e da un corrispondente aumento dei consumi, dovuti alla globalizzazione dell'economia, all'innovazione e al progresso tecnico, all'automazione e alla robotizzazione, alla rapida introduzione e alla mercificazione dell'intelligenza artificiale e a un'impressionante “dubaizzazione” del mondo. Contrariamente forse a quanto vorremmo credere, queste manifestazioni non ci permettono di dedurre una vitalità e una forza di rinnovamento del sistema. L'analisi della critica del valore ci porterebbe invece a paragonarle ai cosiddetti “organi avventizi” in botanica: gli alberi sotto stress producono germogli ascendenti. Questi germogli compaiono in alberi la cui crescita è impedita da fattori come l'inquinamento atmosferico o la vicinanza ad altre piante. Sono sintomi di stress. Anche le varie forme di accelerazione che abbiamo appena descritto possono essere interpretate come sintomi di stress del sistema economico capitalista, che è certamente soggetto a una costrizione a crescere, ma che non può più crescere. Che il sistema sia soggetto a una coazione a crescere, ma non possa continuare a crescere, è quanto possiamo intuire dai “danni collaterali” dell'accelerazione sfrenata di oggi: la rapida e crescente distruzione dell'ambiente, il cambiamento climatico indotto dalle attività umane, l'esclusione di coloro che sono diventati superflui e i conseguenti flussi migratori, l'onnipresente registrazione, controllo e sorveglianza degli individui, una diffusa banalizzazione dell'ingiustizia e della violenza, la deriva della società globale verso il nazionalismo e il fascismo e il crescente rischio di guerra che essi comportano. Il capitalismo degli anni Sessanta era forte e resistente; quello di oggi, a ben guardare, è un uomo malato che si trascina da una crisi all'altra. È di fatto una lunga crisi. È vero che una crisi ha sempre una fine, ma la fine di questa crisi sarà anche la fine del sistema morente. Questa è la diagnosi della critica del valore. Essa conclude che il capitalismo non può essere salvato. Perché non è possibile tornare a uno stato precedente migliore. Il capitalismo deve quindi essere abolito e sostituito. E il più rapidamente possibile. La catastrofe della sua autodistruzione lascia all'umanità poco tempo. Ciò che è stato presentato qui in forma abbreviata e senza spiegazioni viene descritto e spiegato, sotto diversi aspetti, nei capitoli successivi. Alcune ripetizioni non possono essere evitate. Infatti, lo sviluppo del capitalismo qui descritto, di per sé contraddittorio, ha diverse dimensioni che non possono essere dimostrate tutte insieme, ma solo una dopo l'altra. D'altra parte, il nucleo della critica del valore qui presentata rimane lo stesso in ognuna di queste dimensioni.

- Ernst Schmitter - Pubblicato il 17/3/2025 su Critica della dissociazione del valore. Ripensare una teoria critica del capitalismo -

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Buongiorno. Sapete se è prevista anche un edizione italiana di questo libro?

BlackBlog francosenia ha detto...

No, purtroppo no. Mi dispiace.