Kafka, la verità e la necessità della legge
- di Natalino Irti -
«Davanti alla legge c’è un guardiano. A questo guardiano si presenta un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può consentire l’ingresso. L’uomo riflette e poi chiede se allora potrà entrare più tardi. “È ‘possibile’, dice il guardiano ‘non ora, però». Questo è l’inizio del racconto Davanti alla legge, che Kafka inserì in un capitolo de il Processo come tema di dialogo fra il protagonista Josef K. e un sacerdote. Racconto, o piuttosto parabola, che reca nel romanzo una tonalità di religioso mistero. Il guardiano avverte il campagnolo che egli non è l’ultimo dei custodi, e perciò non è scansabile o eludibile, poiché vi sono, di sala in sala, «altri guardiani, uno più potente dell’altro». Allora il piccolo e smarrito visitatore siede di fianco alla porta su uno sgabello, offertogli dal guardiano, per anni ed anni. Dapprima maledice la sorte a voce alta, e poi, fattosi vecchio e stanco, si riduce a brontolare fra sé e sé. La vista gli si indebolisce, e non sa se il buio d’intorno si addensi più fitto. «Ma ora scorge nell’oscurità un chiarore che erompe inestinguibile dalla porta della legge». È alla fine della vita, e sulle labbra gli viene una sola domanda mai posta al guardiano, che lo reputa insaziabile nel suo desiderio di sapere: «tutti vogliono giungere alla legge, come mai in questi anni nessuno oltre a me ha chiesto il permesso di entrare?». E il guardiano gli urla: «Nessun altro poteva ottenere il permesso di entrare qui, perché questo ingresso era destinato solo a te. Ora vado e lo chiudo».
Tutto è controverso nella critica kafkiana: il carattere ebraico della parabola, l’ansia di sapere del campagnolo, il divieto del guardiano, la lunga attesa dinanzi alla porta. Vi domina il rapporto diretto tra il campagnolo e la Legge: la quale non si dà a tutti, come cosa fruibile da qualsiasi uomo, ma è accessibile soltanto dall’individuo che sappia attendere la propria ora. E questa può non giungere mai. Tra il singolo e la Legge c’è il guardiano, sistema organizzato di controlli e divieti. Che è il “tribunale” del romanzo, e l’apparato burocratico dei “funzionari”, oscuri e servili. Il campagnolo – nota Giuliano Baioni, uno fra gli interpreti più sottili della parabola – non può avere “conoscenza”, ma solo “esperienza” della Legge, arcana misura della vita, non raggiungibile dall’individuo. La collocazione della parabola in un decisivo e splendido capitolo del romanzo obbedisce a una rigorosa logica narrativa e alla intelaiatura metaforica dell’opera kafkiana. Ne il Processo la Legge non è conosciuta da Josef: essa è la norma, che si rivela soltanto nel suo concreto e crudele attuarsi (l’arresto e l’esecuzione capitale dell’incolpevole Josef); non si discopre come criterio di condotta e di giudizio, ma sta, remota e inaccessibile, in inviolabile oscurità. Qui, al pari di altri innumerevoli luoghi, si esprime il tragico profetismo di Kafka, la capacità di scorgere il destino della nostra epoca, dove la legge, ormai disciolta da fonti religiose e metafisiche, e custodita da guardiani superbi di capacità interpretante, è lontana e remota dagli umili campagnoli. Inserita nella trama del romanzo, la parabola si fa più ardua e complessa, sollevando l’interrogativo, se sia “ingannato” il campagnolo o il guardiano, o se sia da ammirare più la libertà dell’uno o la servile dedizione dell’altro. Il guardiano, appunto come custode, è indissolubilmente vincolato alla Legge e al suo apparato di protezione; il campagnolo può andarsene libero, sciolto da qualsiasi rapporto di dipendenza: «chi è libero è superiore a chi è legato». Il guardiano ha tratti di semplicità e di superbia: ascolta, sì, ma consapevole e fiero del suo potere, sicché Kafka può, con magia di parola, enunciare la massima: «La giusta comprensione di una cosa e l’incomprensione della cosa stessa non si escludono». Mentre le parole del sacerdote dialogante esaltano il servizio reso dal guardiano alla Legge, e la dignità che perciò ne deriva e protegge, Josef rifiuta di prender per vero tutto quello che dice il custode: «No – replica il sacerdote – non bisogna prendere tutto per vero, bisogna solo prenderlo per necessario». È un pensiero di estrema profondità, che tocca la ragione stessa dell’obbedienza alla Legge, di cui non si controlla verità o falsità, ma si avverte la costrittiva necessità. Risuona, resa più dolorosa, la massima romana; “pro veritate accipitur”: la sentenza, quale che ne sia il contenuto, è, essa stessa, verità vincolante, necessità a cui il convivere non può sottrarsi. La pagina di Kafka appartiene intera al nostro tempo.
Natalino Irti - Pubblicato su Domenica del 9/6/2024 -
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