domenica 15 settembre 2024

Oggi, 15 settembre 2024

È stato il primo giorno d'estate, non troppo caldo e non troppo freddo, a consentire una passeggiata. Una lunga camminata fino in piazza indipendenza a dare un'occhiata al mercatino della domenica; quello che uno volta aveva luogo intorno al lago dei cigni nella vicina e oramai quasi irraggiungibile fortezza da basso. Come dire, le cose cambiano! Quella che invece a quanto pare non è cambiata è la vecchia casa dello studente, che vedete nella foto, ed è rimasta aperta e funzionante, come lo era quando mi accolse alla fine di ottobre del 1970. Avrebbe chiuso, per restauri, l'anno successivo, raccontavano senza convincerci però, così quell'anno chi arrivava prima si beccava il posto in una stanza di quel covo di matti.

Così, mi è tornato in mente oggi che è stato lì che io e Firenze abbiamo cominciato a conoscerci, senza mai tuttavia esserci del tutto piaciuti, e in modo che così, poi, alla fine, però ci siamo capiti. È stato qui, in quel palazzo, che ho avuto il mio primo "battesimo di fuoco" [del secondo,avvenuto poche settimane dopo, quello che subimmo dal servizio d’ordine della Galileo, in cui i “fascisti” saremmo stati noi che avevamo occupato la loro Regione per reclamare il nostro Presalario, ve ne parlerò, forse, un altra volta], con i fascisti che ci assaltavano, innervositi dal fatto che da quella stanza all'ultimo piano (quella cerchiata di rosso) c'era un giradischi i cui altoparlanti diffondevano le canzoni di alcuni "dischi del sole” (Do you remember them?) che mi ero portato da Siracusa.

I fascisti, erano arrivati da tutta la Toscana - che allora, a Firenze, non c'è ne sono mai stati abbastanza per le loro "prodezze" - ma la cosa fini con qualche mobile lanciato sulle loro teste senza che riuscissero, per loro fortuna, nemmeno a entrare, e con la nostra occupazione della casa stessa (per protesta!!) della quale alcuni maligni insinuarono che sarebbe stata solo una scusa per scolarsi le prestigiose bottiglie custodite nella cantina del direttore. Un'altra conseguenza di rilievo, fu quella che un inquilino della Casa venne identificato, e il suo nome finì sui giornali, per aver raccomandato di porgere i suoi saluti alla signora del maresciallo che guidava il reparto che avrebbe dovuto difenderci dai fascisti. Fatto sta che ho dovuto passare anni - nei vari incontri di movimento a livello nazionale - a smentire che Bruno Accarino  fosse un fascista fiorentino, per restituirlo a quel suo ruolo di filosofo marxista in erba, che era allora: insomma era successo che, sfogliando i giornali, con faciloneria, la commissione antifascista di L.C. lo aveva aggiunto nell'elenco nazionale di fascisti che poi veniva trasmesso nelle loro sedi, e altrove.

Già, come dicevo, oggi è stata giornata di ricordi! Come quelli che mi hanno fatto sorridere, fotografando su una bancarella quelle giacche western con le frange che così tanto piacevano al mio amico Giorgio Olmoti, nel momento in cui subito dopo averle viste ho realizzato che non avrei più potuto regalargliene una! Oppure, com’è successo poco dopo, più tardi, mentre me ne stavo seduto a bere un birra in un bar in Piazza dei Ciompi, quando non sono riuscito a impedirmi di alzare lo sguardo al balcone di quella che per troppo poco è stata l'ultima casa di Marco Furio Susini; mentre mi dicevo che no, che non è giusto. Era riuscito solo a cominciare appena solo a farsi arrivare le librerie per sistemare i suoi tanti libri. No, non riusciremo mai a farla quella festa che ti avevo proposto di fare, e che una volta tanto non ti era sembrata una cattiva idea. E così ora non so più a chi dirlo, ma non è giusto!

sabato 14 settembre 2024

L'Angelo Nero della Storia Climatica e “l’Asse Palestinese” !!

Andreas Malm e l'antisemitismo verde
- di Sylvaine Bulle - 11 settembre 2024 -

«La prima cosa che abbiamo detto in quelle prime ore non sono state tanto parole quanto grida di giubilo. Quelli di noi che hanno vissuto la loro vita con e attraverso la questione della Palestina non potrebbero reagire altrimenti alle scene di resistenza che hanno preso d'assalto il checkpoint di Erez: questo labirinto di torri di cemento, recinti e sistemi di sorveglianza, questa consumata installazione di cannoni, scanner e telecamere – certamente il più mostruoso monumento al dominio di un altro popolo in cui io sia mai entrato – improvvisamente tra le mani dei combattenti palestinesi che avevano sopraffatto i soldati di occupazione e strappato la loro bandiera. Come non gridare di stupore e di gioia? Lo stesso vale per le scene in cui i palestinesi attraversano la recinzione e il muro e si riversano nella terra da cui sono stati espulsi».[*1]   Queste parole, che celebrano l'atto distruttivo di Hamas del 7 ottobre 2023, sono di Andreas Malm, ricercatore in ecologia umana all'Università di Lund (Svezia). Andreas Malm, di nazionalità svedese, è un autore feticcio dell'eco-marxismo e uno dei pensatori più influenti dell'ecologia politica. Diciamolo chiaramente: per chi è interessato alle tematiche ambientali, il riferimento è diventato imprescindibile negli ultimi dieci anni. Malm è un ricercatore rigoroso e uno dei più visionari sul cambiamento climatico, uno dei più creativi, uno di quelli che ispirano le giovani generazioni di attivisti, ma anche i meno giovani, spesso marxisti o rivoluzionari. In particolare, ha contribuito alla notevole trasformazione del pensiero ecologico grazie al suo approccio metastorico e fondante all'economia fossile globale; ciò mette in luce la responsabilità economica delle industrie e degli imperi nella distruzione dell'ambiente [*2]. Ma Malm, e una nuova generazione di eco-attivisti con lui, collocano "Israele", in una dubbia mossa critica, al centro della scienza del clima e della critica ecologica. Nei suoi libri e soprattutto nelle sue posizioni pubbliche, dopo il massacro del 7 ottobre, Malm descrive ripetutamente i palestinesi come una doppia vittima dello Stato ebraico: da un lato a causa dell'occupazione, dall'altro a causa del ruolo di Israele nella crisi climatica. Perché simili generalizzazioni da parte di un ricercatore altrimenti meticoloso? Che l'autore, un marxista, appartenga al campo dell'antisionismo, le cui ascendenze sono ben identificate [*3], appare ovvio dal momento che la critica di Israele è parte di quella dell'egemonia del Nord globale. Ma collegando "sionismo" e "ambiente", e facendo della Palestina il laboratorio della resistenza climatica, compare un nuovo campo: quello che può essere definito un "antisionismo verde". In che modalità discorsiva ha avuto luogo questa evoluzione? Esaminiamo qui gli argomenti, chiedendoci se un certo movimento di ecologia politica non sia in procinto di acclimatarsi nell'anti-israelismo imperante. In effetti, è necessario cogliere il contenuto dell'inserimento di Israele nella questione ambientale perché, lungi dall'essere un fatto isolato, è indicativo dei potenti movimenti di estensione dell'"antisionismo" e della sua attualizzazione sulla base di percorsi rinnovati.

I contorni dell'antimperialismo verde
Comprendere l'antisionismo verde, o "campismo", presuppone che si riparta dall'ecologia politica. Qui, le recenti posizioni di Andreas Malm appaiono rivelatrici. Ciò perché, a differenza di altre correnti marxiane di ecologia politica, e seguendo le orme di alcuni storici chiave [*4], egli descrive con precisione la responsabilità del capitalismo fossile come strumento di accumulazione e di espropriazione, e ne chiede l'abolizione come forza volta allo sfruttamento della ricchezza e del lavoro umano. Sulla base della sua profonda conoscenza della scienza del clima, Malm dichiara di essere scettico sull'efficacia delle politiche del vivente, dell'abitabilità terrestre, o delle alleanze tra umani e non umani. Né, di certo, per limitare la catastrofe, è più sensibile alle proposte provenienti dalla sfera comunalista alternativa e da altre sfere utopiche, e ancor meno alla transizione verde. Difende coerentemente l'eco-marxismo e un comunismo di guerra, un “leninismo ecologico”[*5] sostenuto (vagamente) da uno Stato forte, se non addirittura autoritario. Qualsiasi lotta per la stabilizzazione del clima deve iniziare con la demolizione dell'economia dei combustibili fossili, e quindi con la resistenza e l'azione contro di essa. Si tratta della tesi vincente del disarmo, detta anche eco-sabotaggio, iscritta nella storia delle rivolte operaie o popolari, particolarmente attualizzata da Malm nel suo "Come sabotare un oleodotto" e ne "Il pipistrello e il Capitale"[*6]. In questo modo, si inverte il significato dato al gesto del disarmo: è l'equipaggiamento energetico a provocare danni che invece devono essere disattivati dall'atto militante di sabotaggio, essendo quest'ultimo un atto di resistenza che presuppone l'abbandono della non-violenza. Questa proposta politica, costituisce il modo di azione portato avanti da alcuni movimenti giovani come le Rivolte della Terra [*7] o Extinction-Rebellion (XR). Tutto ciò, è stato testato nella zad di Notre-Dame-des-Landes e soprattutto nella manifestazione contro il mega-bacino di Sainte-Soline, nella Francia occidentale, nel marzo 2023, che è stata pesantemente repressa [si veda: Sylvaine Bulle: "Irriducibili. Le zone autonome come conquista ecologica" in "Écologies. Il vivere e il sociale", La Découverte, 2023]. Ma come arriva Israele in questo ragionamento coerente?

Un antisionismo verde?
Malm, come storico dell'Antropocene, ha descritto nella sua opera fondamentale, "Capitale Fossile" [*8], le fasi dell'accumulo di energia fossile. Possiamo riassumere molto brevemente la sua dimostrazione relativa al Medio Oriente: a partire dall'industria del carbone, sviluppatasi nel XIX secolo, gli inglesi volevano creare un impero fossile sul territorio del Levante arabo e ottomano (Siria, Iraq, Libano, Palestina, Egitto), facendo affidamento sugli ebrei d'Europa, che, in quanto europei, sarebbero stati in simbiosi con l'impero fossile. E avrebbero fatto questo attraverso l'istituzione di industrie estrattive, attraverso l'istituzione del focolare nazionale ebraico e incoraggiando la partenza degli ebrei, o, in seguito, con il trasporto degli ebrei fuggiti dall'Europa facendo un uso massiccio di barche, e quindi di mezzi di trasporto che consumano molta energia. Non solo questo progetto della modernità imperialista britannica è stato uno dei più inquinanti, ma è stato anche diluito nel progetto sionista dell'yishuv; essendo l'uno al servizio dell'altro, ed entrambi utilizzando le risorse fossili che stanno distruggendo il Mediterraneo e oltre. Al servizio dell'Impero britannico, lo Stato di Israele avrebbe così contribuito al dominio americano del Medio Oriente e all'accesso illimitato del petrolio ad Est, così come ha accelerato l'ecocidio per mezzo della costruzione dei suoi insediamenti e del suo territorio nazionale [*9]. Qui, l'argomento, a differenza della doxa antisionista, non si basa sull'anti-imperialismo e sull'anti-capitalismo (con al centro Israele), ma sul clima. Infatti, come ha spiegato Malm nel 2017 in un articolo intitolato: "I muri del carro armato: sulla resistenza palestinese"[*10]: «il rapporto tra Palestina e cambiamento climatico [...] rappresenta più di un'allegoria o di un'analogia. I combustibili fossili sono stati parte integrante del disastro fin dall'inizio» [*11]. Questo costituisce anche il motivo per cui non basterebbe più, per fermare i disastri ambientali, smantellare gli insediamenti. Ciò perché Israele nel suo complesso, in quanto luogo la cui esistenza rende possibile l'estrazione di combustibili fossili, sarebbe responsabile della crisi climatica per l'intero pianeta [*12]. Il punto di svolta nella corsa ai combustibili fossili è stato, secondo Malm, la seconda Nakba di Gaza – vale a dire, l'attuale guerra di Gaza dopo il 7 ottobre 2023 – sostenuta dal Nord del mondo, e che fa parte della continuazione della creazione di Israele e del progetto imperiale [*13]. Ecco il ragionamento centrale. Ora, con quali mezzi, Malm riesce davvero a dimostrare la responsabilità specifica di Israele per la distruzione del pianeta? Riconosciamo che Israele ha un progetto discutibile in quella che costituisce l'artificializzazione del suo suolo e la distruzione della sua biodiversità [*14], così come in quella che è l'estrazione delle risorse idriche. Ma Israele non produce petrolio, a differenza dei paesi arabi, che non gli sono affatto favorevoli, se non ostili. Eppure, secondo Malm, il 7 ottobre è stato il risultato della traiettoria della crisi climatica che ha seguito quella di Israele. Secondo lui, questa traiettoria segue una curva: estrazione di risorse naturali, espropriazione di terreni, rifugiati climatici. Il cambiamento climatico, ci dice Malm, sta costringendo «milioni» di persone in tutto il mondo «a seguire l'asse palestinese». «L'intero pianeta sta diventando Palestina», scrive Malm, ad esempio, in "The Destruction of Palestine: Is the Destruction of the Earth".  Fare di Israele il modello precursore attraverso il quale comprendere la crisi climatica globale consente a Malm di presentare la lotta contro Israele come una lotta contro il riscaldamento globale. L'autore, geografo di formazione, raramente fa riferimento a Israele quando elabora la sua storia dell'Antropocene. Preferisce l'"entità sionista" (e talvolta il popolo ebraico), composta da coloni. Questo, senza mai riconoscere l'esistenza dei tanti movimenti utopici sionisti che hanno ispirato l'ecologia sociale [*15]. Questo rifiuto di designare Israele come Stato fa parte di un gesto critico che si identifica chiaramente nell'antisionismo, che consiste nel non riconoscere la possibilità che gli ebrei siano incarnati da una forma di Stato stabilizzata, e nel lasciare il dubbio sul modo di esistere di Israele trattandolo come un'entità astratta. Inoltre, questo vago nome di "entità sionista" ha il vantaggio di non dover menzionare il rapporto con il territorio post-'48 e le sue componenti materiali e ambientali, né le forme sociali dello Stato, o il sociale stesso.

La lotta per salvare il pianeta: l'autentica terra palestinese contro l'astratta entità ebraica
Perché, allora, un autore come Malm, un teorico del materialismo storico così rigoroso nel suo ragionamento, si permette di ignorare il fatto che "l'entità sionista" abbia una tangibilità, riducendola a un'astrazione che si caratterizza solo per la sua natura ecocida e genocida? Si capisce, leggendolo, che uno Stato dai contorni astratti, sovrapposto al territorio palestinese dall'egemonia occidentale, può essere facilmente incolpato di tutti i mali planetari. In questo caso, è facile confondere diverse categorie di critica radicale (anticapitalista, antimperialista ed ecologista) in un'unica logica manichea. È a questo livello che la critica di Malm perde la sua specificità ecologica e la sua rilevanza, diluendosi in un amalgama ideologico nello stesso momento in cui lo Stato israeliano si diluisce nella lobby americana dei combustibili fossili [*16] accusata di distruzione regionale. E' una coincidenza, si chiede Malm, che il "genocidio" di Gaza (senza menzionare i massacri del 7 ottobre in Israele) stia avvenendo in un momento in cui lo Stato di Israele si trova a essere più profondamente che mai «integrato nell'accumulazione primitiva del capitale fossile», anche «grazie agli Accordi di Abramo intesi a introdurre il capitale israeliano nei combustibili fossili», e destinati a normalizzare le relazioni con Israele a favore dell'espansione delle risorse fossili?  Analogamente, da parte sua, l'antisionismo verde attacca semplicisticamente la tecnologia prometeica israeliana, la quale esercita, più del carbone e dei combustibili fossili, un vero e proprio fascino su molti saggisti, tra i quali lo stesso Malm [*17]. Così, ad esempio, Malm descrive il "tecno-genocidio" (o "genocidio ad alta tecnologia") post-7 ottobre e la "macchina di morte israeliana", che commette uccisioni di massa meccanizzate e automatizzate (utilizzando l'intelligenza artificiale), che si combinano con il potere del petrolio. Tuttavia, l'autore non è realmente interessato al costo ambientale della guerra di Gaza, la quale è particolarmente devastante per la biodiversità e per gli esseri viventi nel nord e nel sud di Israele. Questo danno dovrà essere documentato e riparato. Questa omissione si spiega: ciò che importa soprattutto a Malm, per unificare i diversi poli della sua critica manichea, è mettere insieme ecocidio e genocidio; la distruzione della Palestina e della Terra che convergono sul suolo inquinato e avvelenato [*18] da parte dell'appropriazione sionista a Gaza, dove sono impigliati i rifiuti combustibili e i cadaveri delle vittime dell'Impero. Ciò che conta, per questa forma di antisionismo verde, è fare dell'"entità sionista" – descritta come astratta, globalizzata e alienata dalla tecnologia – una minaccia esistenziale per i valori di autenticità di cui i palestinesi sarebbero i portatori esclusivi, in virtù del loro legame con la natura, la terra e il lavoro manuale di sussistenza. Di conseguenza, tutto ciò che è autentico è palestinese. Come Malm sottolinea nel suo testo "The Walls of the Tank", l'unico vero Stato che resiste, contro tutta la Nakbah e contro ogni espropriazione, è quello della Palestina, l'unico vero Stato del vero "popolo" della regione. La Palestina, così feticizzata e fantasticata, è l'unica portatrice di emancipazione; Si tratta di un popolo concreto destinato a ricongiungersi con la sua terra originaria e autentica, contro questa "forza estranea, pericolosa e distruttiva" che minaccia l'intero pianeta. E viceversa, la vera ecologia non può che essere palestinese. Come progetto, Malm propone la Palestina in quanto ultima speranza politica contro la catastrofe planetaria globale. Per questo essa deve rappresentare lo spirito di emancipazione contro tutti gli ecocidi globali, dalla distruzione dell'Amazzonia ai mega-incendi, ecc. «Adottare la posizione palestinese significa, in ultima analisi, scegliere la natura come suo ultimo e più potente alleato», scrive l'autore in "The Walls of the Tank". All'interno di quest'analogia imperfetta volta a realizzare la rivoluzione climatica liberando Gaza e i Territori, è importante che i palestinesi realizzino prima il loro diritto al ritorno sbarazzandosi di un Israele ecocida e inquinante. A questa condizione, la Palestina tornerà ad essere autentica e la concentrazione di CO2 scenderà al di sotto dei livelli degli anni '80. Perché "dal fiume al mare" le emissioni di CO2 devono essere eliminate. Ma allora dobbiamo chiederci: quale concezione del gesto emancipatore può emergere da una simile critica manichea?

L'ascesa in generale: la rivolta della terra e di Hamas
Per molti eco-marxisti e attivisti ambientalisti degli anni 2020, la resistenza palestinese è diventata un modello da seguire in difesa del pianeta [*20]. Ma tutto ciò che tipo di resistenza rappresenta? Bisogna disarmare le infrastrutture, come hanno proposto gli attivisti europei, in particolare nel Regno Unito e in Francia?  Malm appare più concentrato sugli episodi di sabotaggio in atto durante le rivolte arabe del 1936, con i combattenti della resistenza che, dall'Iraq, attaccavano gli oleodotti. L'autore non esita a esplorare strade più recenti, tuttavia, soprattutto quando egli celebra con entusiasmo la lotta armata, incoraggiando gli attivisti per il cambiamento climatico a prendere come esempio i metodi di Hamas. Prima del 7 ottobre, ad esempio, scriveva su "The Walls of the Tank": «Come possiamo non esprimere la nostra ammirazione per gli eroi della resistenza a Gaza, guidati da Mohammed Deif? E come possiamo non imparare le lezioni della resistenza palestinese e applicarle come modello su altri fronti?» [*21]. Dopo il 7 ottobre, è stato lui a cogliere la grandezza di Hamas con il suo esercito di aquiloni lanciati contro il muro di Gaza, un'azione che non ha precedenti nella storia della Palestina. In “La distruzione della Palestina è la distruzione della Terra”, egli esprime la sua visione: «La resistenza è chiusa nei tunnel, ed è per questo che penso che dobbiamo dirlo forte e chiaro: siamo al fianco della resistenza. (...) Izz al-Din al-Qassam, Mohammed Deif e Abu Obeida e i loro compagni d'armi della Jihad, del FdlP e del Fplp sono tuttora nei tunnel, continuando a lanciare un'operazione dopo l'altra – ed è solo grazie a questo che è possibile continuare a vivere un altro giorno». In conclusione, per Malm non ci può essere alcuna emancipazione su un pianeta morto, ma esiste invece la speranza che oggi ci sia una rivoluzione verde, della quale Hamas sarebbe il promotore. Così, gli entusiasmi dell'autore pro-Hamas si concentrano sulla vittoria eroica di quest'ultimo, senza che sia concepibile per Malm credere in un progetto comune e plurale di prendersi cura della terra e, allo stesso tempo, della democrazia, finché esista la presenza di Israele e della sua forma-Stato. Alla fine sorge una domanda. Quando Malm e, insieme a lui, alcuni sostenitori dell'antisionismo verde proclamano il loro amore per la Palestina e la loro ostilità nei confronti di Israele, ci si chiede quale conoscenza della realtà delle due società (che essi si sforzano di costruire in maniera speculare)? Dal momento che è solo un puro manicheismo astratto quello che sembra permettere di estendere l'antisionismo a questo nuovo campo: quello dell'antisionismo verde, in quanto «la lotta palestinese è parte integrante della politica ecologica globale» del XXI secolo. Naturalmente, non si tratta di celebrare il sionismo verde in modo speculare, né di ignorare i danni ambientali a livello territoriale, l'artificializzazione del territorio e il gigantesco dispendio di risorse naturali in Israele, o gli accordi geopolitici assai discutibili sulle riserve di gas nelle acque del Mediterraneo. Ma nel Nord globale, dove così tanti attivisti si concentrano sulla tragedia palestinese [*22], nessuno sembra disposto a riconoscere che anche la società israeliana produce critiche su questi temi. Eppure, per riaprire l'orizzonte della diplomazia tra il vivente e il terrestre, è necessario che una varietà di attori, israeliani e palestinesi, si impegnino nel dialogo. La situazione richiede una pluralità di linguaggi e di pratiche, dalle più anarchiche alle più riformiste, all'interno delle quali “democrazia” e “terra” non siano dissociate. Era questo, ad esempio, il progetto del socialista anarchico Gustav Landauer, oggi celebrato dagli attivisti ecologisti. Il collasso è una via d'uscita: è quanto sembra dire il visionario Malm, l'angelo nero della storia climatica. Come Walter Benjamin, dal quale in “Avis de tempête[*23] ha preso in prestito alcuni riferimenti , egli ci precipita nelle rovine della storia industriale dell'Occidente e del Medio Oriente, per meglio evidenziare l'urgenza di entrambe le situazioni, una climatica e l'altra politica, che si sovrappongono l'una sull'altra e sono altrettanto distruttive. Ma ciò di cui A. Malm probabilmente non si rende conto è che, ritenendo di osservare gli ultimi brandelli di umanità, guardandole dalle rovine palestinesi, precipita i suoi lettori in un ragionamento semplicistico e binario nel quale non si fa altro che accelerare il caos e la tragedia. Non possiamo più ignorare i presupposti di questo catastrofismo accusatorio ma soprattutto fantasmagorico.

- Sylvaine Bulle - 11/9/2024 - Pubblicato su K -

Note
1 - Discorso all'Università Americana di Beirut l'8 aprile 2024.
2 - L’Anthropocène contre l’histoire : le réchauffement climatique à l’ère du capital, La Fabrique 2017.
3 - Si veda, ad esempio, molto recentemente: Julia Christ, "Si può essere antisionisti?"
4 - Ad esempio: Timothy Mitchell: Egypt, Techno-Politics, Modernity, Berkeley, University of California Press. 2002
5 - Si veda l'intervista per Permanent Revolution
6 - Andreas Malm, "Die Fledermaus and Capital", trad.,"Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia". Ponte alle Grazie
7 - Da notare che Les Soulèvements de la Terre nella loro recentissima "Premières secousses" (Parigi, La Fabrique, 2024) non cita mai esplicitamente Malm. Si limitano a citare il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) come se fosse un attore collettivo pioniere nell'eco-sabotaggio contro il sionismo. Nel 1969 il FPLP lanciò una campagna per sabotare gli oleodotti nel Golan, allora occupato da Israele. Al contrario, sulla scia di Malm, le Soulèvements de la Terre attaccano gli oleodotti in quanto strutture che incarnano i legami tra lo Stato di Israele, gli Stati Uniti e i regimi arabi reazionari. Il sabotaggio è quindi, ai loro occhi, uno strumento di liberazione nazionale palestinese.
8 – “Fossil capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming”, Londres,Verso,2016. A. Malm annuncia un secondo volume sull'economia dei combustibili fossilicosì come anche il libro che sarà pubblicato da Verso nel 2024, con Wim Carton: "Overshoot: How the World Surrendered to Climate Breakdown".
9 - Nel suo blog dedicato alla distruzione della Palestina dopo il 7 ottobre, ritorna a lungo sulla storia degli ebrei in Palestina, compresa la Bibbia. https://www.versobooks.com/blogs/news/the-destruction-of-palestine-is-the-destruction-of-the-earth, blog Verso, 8 aprile 2024.
10 - Andreas Malm, “The Walls of the Tank: On Palestinian Resistance”, Salvage, 4/2017
11 - Questo punto è stato particolarmente evidenziato da Mathieu Bolton: Climate catastrophe, the "Zionist Entity" e "The German Guy": An anatomy of the Malm-Jappe dispute" (in The Rebirth of Antisemitism in the 21st Century, a cura di David Hirsh, Routledge, 2023). Bolton è stato uno dei primi a sottolineare le critiche di Malm a Israele e agli ebrei. Pubblicato in francese su Lundi.am nel dicembre 2023
12 - «Dovremmo per prima cosa considerare il ruolo dello Stato di Israele nell'attuale frenesia dei combustibili fossili». (Per Malm, Israele è coinvolto nelle piattaforme di estrazione ed esportazione di gas nel Levante), in "La distruzione della Palestina è la distruzione della Terra", blog aprile 2024.
13 - Ivi
14 - Si veda, ad esempio, Tamar Novick, Milk & Honey: Technologies of Plenty in the Making of a Holy Land, MIT Press, 2023.
15 - Si veda in particolare Martin Buber, Utopie et socialisme, trad., Parigi, L'échappée, 2018; Communité́, Paris, Ed. de l'éclat, così come Gustav Landauer, Appel au socialisme, trad., ed. Lentezza. Vedi anche Sylvaine Bulle, "L'anarchismo ebraico e le sue risorgive ecologiche contemporanee", Revue K, 2023
16 - “The Walls of the tank” et “The Destruction of Palestine Is the Destruction of the Earth”.
17 - Günther Anders denunciava il pericolo di una stretta fascinazione per Prometeo, se la tecnologia non fosse vista prima come uno strumento di socializzazione. Si veda il suo libro "L'uomo è antiquato", voll. 1 e 2, Bollati Boringhieri
18 - Si pensi all'accusa rivolta agli ebrei del Medioevo di avvelenare i pozzi, ricordata da Karsenti et al., in: "Un genocidio a Gaza? Risposta a Didier Fassin", Revue A.O.C.
19 - Moishe Postone ha mostrato chiaramente come una particolare forma di critica del capitalismo, che egli definisce "tronca", si rivolga alla dimensione astratta del capitale in nome di valori "concreti" naturalizzati (l'autenticità della terra o dell'appartenenza etnico/razziale, il gesto manuale del lavoratore sono celebrati in quanto colti come anteriori e contrapposti alla logica astratta del capitalismo). E Postone ha dimostrato il legame intrinseco tra questa critica tronca e l'antisemitismo. Vedi Moishe Postone, "Critique du fétiche capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche", PUF, 2013.
20 - Vedi Malm nel suo blog: Quando torna la lotta, https://www.versobooks.com/blogs/news/5061-when-does-the-fightback-begin (aprile 2021).
21 - In Come sabotare un oleodotto?
22 - Malm, ad esempio, è stato fortemente coinvolto nella lotta pro-palestinese nel Movimento Internazionale di Solidarietà per la Palestina.
23 - Andreas Malm, Avis de tempête, trad., Paris, La Fabrique, 2023.

giovedì 12 settembre 2024

Cercando un altro Egitto…

Anselm Jappe, in questo interessante e lungo testo, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, e ci racconta così la sua a proposito della "Scuola di Norimberga", e di cosa a partire da allora non avrebbe funzionato. Ovviamente, la prima a essere accusata è la "teoria della crisi"(chissà, magari è stato per codesto che Postone il posto nel Pantheon se l'è meritato, e Kurz invece no…) Poi si passa al secondo imputato, a quell'Illuminismo "dialettico" dipinto così male, su cui se ne sono dette troppe; forse bisognerebbe darsi una calmata… Ecco, sembrano soprattutto queste, le cipolle mal digerite, e sulle quali va riconosciuto a Jappe che non le tira fuori ora; ma l'ha sempre pensata così.Manca un punto, a mio avviso; forse il più importante in tutta questa contingenza. E riguarda il problema del "partito", e il fatto che non sembra sia passato per la mente quasi a nessuno (nemmeno a Kurz!) che per codesto bisognerebbe tornare a Marx (non solo a Karl, ma anche a Groucho!!), finendo pertanto una volta per tutte di liberarsi da Lenin e di Lenin, per sempre!

I vivi e i morti nella Critica del Valore
- Alcune tesi superficiali sullo stato della critica del valore oggi -
di Anselm Jappe

 

Sono passati 38 anni, da quando, nel 1986, usciva il primo numero di "Critica marxista" (più tardi ribattezzata Krisis) e aveva inizio lo sviluppo della critica del valore. Dapprima limitata solo a dei piccoli circoli, arrivava poi a una "svolta", anche agli occhi del pubblico, con la pubblicazione de "Il collasso della modernizzazione" (1991) di Robert Kurz. Ben presto, l'interesse crebbe rapidamente, non solo nei paesi di lingua tedesca, ma anche in altri paesi, inizialmente soprattutto in Brasile. Quando nel 1994 pubblicai i primi testi di Kurz su una casa editrice italiana [N.d.T.: "Il manifesto"], non mi sembrò esagerato affermare nella prefazione che quanto prima, in futuro, si sarebbe parlato di una "Scuola di Norimberga", allo stesso modo in cui, da tempo ormai, si parla della "Scuola di Francoforte". La mia previsione si è rivelata sbagliata. La critica del valore, ovvero la critica della scissione-valore, è rimasta ovunque in una situazione settaria, o vi è ritornata, simile a quella che, in Italia, può essere paragonata al “bordighismo”, o, in Germania, al "gruppo marxista". Vediamo che esistono diverse riviste specifiche della critica del valore in Germania, in Austria e in Francia, dove c’è anche una casa editrice che si dedica esclusivamente alla Critica del Valore, con libri e con molte traduzioni, soprattutto degli scritti di Kurz. Ma tuttavia appare ovvio che i "dinosauri marxisti" - della cui imminente estinzione i critici del valore erano già convinti negli anni '90 - continuano a dominare (o sono tornati a farlo) quella parte dello spettro della sinistra radicale che continua ancora a fare riferimento a Marx. A continuare a dominare i dibattiti, le riviste, i corsi universitari e le summer school sono sempre le vecchie glorie: e si parla sempre di Louis Althusser e di Jacques Rancière, di Toni Negri e David Harvey, di Slavoj Žižek e di Alain Badiou, di Operaismo italiano, o addirittura di Rivoluzione Russa; oppure di autori che non venivano considerati, o non si consideravano, marxisti, come Gilles Deleuze, Michel Foucault, Giorgio Agamben o Judith Butler. Perfino Michael Heinrich ha conquistato un suo pubblico internazionale. Così, ad esempio, chiunque sfogli la rispettabile rivista britannica "Historical Materialism" - la quale pretende di dare spazio a tutti i tipi di marxismo - e assista alle sue conferenze annuali, nel corso delle quali si tengono sempre centinaia di lezioni, non troverà quasi mai riferimenti alla Critica del Valore tedesca.Per converso, persino Moishe Postone mantiene lì una sua modesta cittadinanza modesta [*1]; ma non ce l'ha Kurz, né gli altri autori "Krisis" o di "EXIT!". [*2]   Fin dall'inizio, la critica del valore aveva esplicitamente definito sé stessa come un movimento non accademico. Tra i suoi fondatori, e in seguito tra i suoi più importanti esponenti, non c'erano professori universitari (a parte Claus Peter Ortlieb, il quale però insegnava matematica), e non c'erano nemmeno giornalisti, o persone che avevano influenza nei media e, naturalmente, non c'era nessun politico. Come ebbe a dire lo stesso Kurz: i critici del valore erano i "cani randagi" della critica sociale, e volevano esserlo. Ed è stata esattamente proprio questa autoimposta posizione esterna ad avere reso attraente per più di una persona la critica del valore. Quanto ha contribuito l'accademismo alla banalizzazione e all'“aggregazione” della critica sociale nel corso dei decenni! Com'è paradossale permettere allo Stato di pagarti per criticarlo, e costruire in tal modo delle carriere istituzionali basate sulla diffusione di contenuti apparentemente rivoluzionari, e usarli poi per valutare gli studenti in base alla loro comprensione della critica del capitalismo! È di certo un bene il fatto che la natura radicale dei contenuti non abbia nulla a che fare con lo Stato e con i media mainstream; dopo tutto, fino alla prima guerra mondiale e oltre - in quella che è stata la sua "età dell'oro" (Kolakowski) - il marxismo non esisteva affatto nelle università. Un altro esempio di come una teoria critica del capitalismo abbia potuto farsi sentire senza avere alcuna presenza nelle università, nelle istituzioni o nei grandi media, facendolo soprattutto grazie alla qualità delle sue analisi e delle sue eventuali azioni, è stato quello dell'Internazionale Situazionista (1957-1972) e del suo pioniere Guy Debord. Non ci si può costituire un proprio status, costruirci sopra una carriera, o ricevere finanziamenti attraverso una critica di valore, né 38 anni fa né oggi. Gli opportunisti hanno rapidamente voltato le spalle alla critica del valore. Ma per questo atteggiamento assolutamente corretto, la critica del valore ha pagato un prezzo assai alto. Vale a dire che questo ha fatto sì che sia andata perduta un'enorme opportunità di risonanza, a cui quasi nessun'altra corrente del marxismo ha rinunciato. Così, vediamo che nelle università, a difendere il proprio giardino, già in contrazione, e a non permettere alcuna competizione sul loro campo, sono spesso proprio i marxisti e altri "di sinistra"; tanto più che gli attacchi violenti al marxismo tradizionale hanno sempre fatto parte dell'equipaggiamento di base del Partito Democratico. La critica del valore ha di certo il potenziale per riuscire a diventare un nuovo paradigma per le discipline umanistiche; soprattutto in ambiti come la storia sociale, letteraria e culturale, ma anche rispetto alla storia del lavoro e la resistenza ad esso. Ma assai raramente questa possibilità si è concretizzata. Naturalmente, per la critica sociale, esiste una seconda possibilità di risonanza, che dovrebbe quanto meno essere assai più vicina a quelle che sono le sue forme radicali: i movimenti sociali di ogni tipo, l'attivismo, la lotta pratica contro il capitalismo. [*3] Affidare la teoria a delle persone che vogliono davvero fare la differenza era già intenzione di Marx ed Engels, i quali non tenevano seminari all'università, ma fondarono l'Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ma fin dall'inizio, la critica del valore ha insistito sul fatto – e questo fa parte della sua essenza – che la teoria non dovrebbe essere la "serva" della prassi. In definitiva, non si tratta di accompagnare i movimenti sociali, e spiegare loro che cosa stiano già facendo, bensì, piuttosto e al contrario, far notare quali sono le loro inadeguatezze, e incoraggiarli a radicalizzarsi e a mettere in discussione tutta la socializzazione del valore, del lavoro e del denaro, per far dimostrare che questo approccio è corretto, importante e coraggioso. Non si può criticare la costituzione del soggetto plasmato dalla merce, se allo stesso tempo si crede di vedere una tendenza rivoluzionaria in ciascuno dei suoi movimenti, come oggi fanno quasi tutti i gruppi della sinistra radicale. Il guadagno narcisistico che quasi tutti i soggetti traggono dall'identificarsi con un "gruppo" - di solito un gruppo che ha subito grandi ingiustizie ma che è predestinato a emanciparsi se solo si impegna adeguatamente - rappresenta di certo un motivo essenziale per impegnarsi nell'attivismo. Permette di riuscire a gonfiare la propria "giustizia" - come la definiva Adorno - rendendola un positivo assoluto, addossando tutto ciò che è negativo sempre agli altri ("la borghesia", "i governanti", "gli imperialisti", "i colonizzatori", "gli omofobi", "i maschi", ecc.). Argomentare contro di loro che il capitale è una relazione alla quale partecipano tutti i soggetti capitalistici, sebbene con ruoli e vantaggi assai diversi, e che ogni critica sociale deve anche includere l'autocritica, ai soggetti capitalistici appare quasi sempre come un'imposizione, un sabotaggio o una provocazione. Riconoscere in anticipo il pericolo di un "populismo trasversale", è una delle conseguenze di questo approccio alla critica del valore. [*4]

Gli attivisti di ogni genere considerano sempre la critica del valore come qualcosa di distante, troppo difficile, troppo intellettuale, lontana dalla pratica, troppo radicale, non comunicabile, una critica da torre d'avorio – ma tutte queste obiezioni testimoniano solamente i limiti di questo genere di attivismo e la motivazione a criticarlo. La critica del valore non solo viene considerata impraticabile, ma anche pessimista, demoralizzante e scoraggiante. Ma il fatto che essa non diffonda illusioni, e non si aggrappi a nessuna goccia di speranza può essere solo ritenuto come un merito della critica del valore. Però resta il fatto che qualcuno deve pur ascoltare la teoria: ci deve essere un pubblico, in modo che non basti che i messaggi in una bottiglia vengano semplicemente inviati. [*5] È bene che la critica del valore non piaccia né al mondo accademico né al mondo del movimento. Ma così va a finire che non ha alcun pubblico. È facile scoprire che, pur condividendo l'analisi categoriale della critica del valore, non c'è davvero bisogno se si vuol parlare contro il nucleare o la chiusura degli ospedali, per difendere la biodiversità o l'accoglienza dei migranti, per sostenere che le piccole case di pietra sono meglio dei grattacieli di cemento, o per criticare lo stato di sorveglianza e la tirannia degli algoritmi. In tutti questi casi, si può sicuramente dimostrare che alla fine, se si va davvero a fondo delle cose, la socializzazione del valore ne è responsabile, e se non ne usciamo non ci sarà una vera soluzione. Ma se non si vuole aspettare, intanto si possono salvare i profughi in mare, oppure bloccare una fabbrica di cemento qui e ora, e questo lo si può fare senza ricorrere alla critica del valore, e farlo insieme a persone che non hanno mai sentito parlare di critica del valore. Nella migliore delle ipotesi, si può cercare di dissipare le loro illusioni circa il significato delle loro azioni, e impedire loro di candidarsi al parlamento... Ma se la teoria non è utile né dal punto di vista accademico né da quello dell'attivismo, essa allora riceve poca attenzione. Solo le persone veramente interessate alla conoscenza, senza alcun uso immediato per sé stesse o per la società, faranno lo sforzo di comprendere veramente la critica del valore. Ma purtroppo queste persone sono rare. Se la critica del valore, in qualsiasi momento del suo sviluppo, si fosse scagliata contro il pubblico accademico o attivista avrebbe tradito sé stessa e il suo carattere distintivo. Ma è proprio per questo che deve accontentarsi di un'eco assai ben lontana dal suo potenziale intellettuale. Non c'è dubbio che gran parte di ciò che la critica del valore ha prodotto, dal 1986 a oggi, rappresenta qualcosa tra le scoperte più importanti del nostro tempo. Ma purtroppo non basta averlo detto. Probabilmente, sarebbe questo il motivo "strategico" più importante che causa l'insufficiente diffusione della critica del valore. [*6] Ma va considerato anche l'aspetto dei contenuti: guardando indietro a quali sono i punti di forza e di debolezza della critica del valore. A tal proposito, si può dire che tutti i commenti sono necessariamente estremamente superficiali e meriterebbero un lungo libro! Quella che è stata la notevole importanza che ha avuto la riformulazione, fatta da Kurz, della critica dell'economia politica, vale a dire del suo rinnovamento delle idee di Marx, probabilmente non ha bisogno di essere spiegata in maniera più dettagliata. Da "Lavoro astratto e socialismo"(1987) a "Leggere Marx" (2000) e "La sostanza del Capitale"(2004)[*7], e fino alla sua ultima opera "Denaro senza valore" (2012) Kurz ha fornito una nuova lettura delle categorie di Marx che tutti gli altri approcci dell'ultimo mezzo secolo - compresa quella di Moishe Postone, che a lui è legata - non sono riusciti a fornire. I suoi studi sulle origini, sulla storia e sull'attuale situazione capitalismo, sviluppati in "Guerra di ordinamento mondiale" (1999), "Libro nero del capitalismo" (1991), "Ruolo del Soggetto nel Collasso della Modernizzazione" (1993) hanno delineato un enorme programma di ricerca. La sua critica del marxismo tradizionale e, soprattutto, quella riferita alla lotta di classe e al feticcio del lavoro, oltre che al suo ruolo storico che ha avuto in quanto aiuto allo sviluppo del capitalismo, costituisce un modello rispetto al quale ogni e qualsiasi forma di pensiero marxista deve – o meglio, "dovrebbe" – essere oggi valutata, dal momento che è stato proprio il bersaglio delle sue critiche ad aver organizzato un'efficace "congiura del silenzio" contro di lui. [*8] Ma esistono molti altri punti sui quali una revisione della critica del valore sembra essere assolutamente necessaria: vale a dire, delle due l'una, o l'approccio ha avuto fin dall'inizio dei punti deboli, oppure lo sviluppo progressivo della società di mercato richiedeva una modifica della teoria. Questo vale soprattutto per la teoria della crisi. È questo, il punto che di gran lunga ha attirato maggiormente l'attenzione, soprattutto nel momento in cui la Critica del Valore è stata ricevuta da un pubblico più ampio. Ciò è avvenuto dopo il collasso del blocco orientale e la "riunificazione" tedesca"; attenzione che si è poi riattivata ad ogni crisi. Così, negli anni '90, quando la situazione economica in Brasile rimaneva assai incerta, Kurz cominciava a godere di grande popolarità sui media brasiliani, e veniva visto come il "profeta dell'apocalisse", e non appena diceva che il mercato azionario o la valuta erano scesi di nuovo, il suo telefono squillava e all'atro capo c'era un media brasiliano che voleva un commento. Quando in Brasile, durante la prima presidenza di Lula (2003-2011) c'era stata una temporanea ascesa e si era diffusa la sensazione di "farcela", e di non essere più un paese del terzo mondo, l'interesse per la critica del valore era di nuovo aumentata, e alcuni dei rimanenti gruppi critici del valore avevano preso esplicitamente le distanze dalla teoria della crisi, la quale semplicemente non poteva più essere "comunicata", pena essere ridicolizzati (ma questo, dopo pochi anni, è poi cambiato di nuovo!). La teoria della crisi costituisce – anche se ciò avviene in modi diversi secondo le diverse direzioni della critica del valore (in EXIT! è, ovviamente, particolarmente "breve-ortodossa") – una base della Critica del Valore tedesca e delle sue ramificazioni internazionali; contrariamente alla critica del valore di Postone, la quale manca di una teoria della crisi, e a quasi tutte le correnti del marxismo. La concorrenza intra-capitalistica spinge costantemente a sostituire il lavoro vivo con il lavoro morto, e pertanto riduce la massa di valore, la quale viene creata solamente dal lavoro vivo. Questo processo, storicamente progressivo, avrebbe portato già da tempo al collasso della produzione di valore, e della società basata su di essa, se, a partire dagli anni '70 non fosse stato sempre più tenuto nascosto grazie all'espansione del "capitale fittizio", e da montagne di debiti sempre più giganteschi. È questa è la tesi di fondo che possiamo trovare già nei contributi a "Critica marxista". Negli anni '90, pertanto, "Krisis" considerava ormai imminente il crollo del capitalismo. In testi come "Rache" (1991) di Honecker, si sosteneva che l'annessione della DDR avrebbe completamente travolto il capitalismo della Germania Ovest, e alla fine lo avrebbe trascinato nell'abisso; cosa che, a sua volta, avrebbe causato il collasso dell'intera economia mondiale. Ne "Il collasso della modernizzazione", di quello stesso anno, Kurz affermava che c'era da aspettarsi che la società di mercato «prima della fine del XX secolo, sarebbe entrata in un'epoca oscura di caos e di disintegrazione delle strutture sociali, come non era mai stato visto prima [!] nella storia del mondo». [*9] Non si vorrebbero necessariamente attribuire simili affermazioni a Kurz, ma va notato che inizialmente la critica del valore aveva sovrastimato in modo significativo il ritmo della crisi finale. Invece, come risultato, si sono verificate tutta una serie di crisi che potrebbero essere viste come dei segni a partire dai quali il capitalismo stava effettivamente raggiungendo i suoi limiti interni: le crisi finanziarie in Messico nel 1994, nel sud-est asiatico nel 1997, in Russia nel 1998, in Brasile nel 1999, lo scoppio della bolla delle dot-com nel 2000, la crisi argentina nel 2002, la crisi globale dei subprime del 2008, la crisi greca del 2010. In ciascuna di queste crisi, il debito pubblico e privato è stato portato a dei livelli che prima venivano considerati inimmaginabili. Non c'erano altre alternative, poiché i problemi di fondo erano irrisolvibili, così come sosteneva la teoria della crisi della critica del valore, e quasi nessun altro, nemmeno a sinistra. Attribuire le crisi finanziarie al fatto che l'accumulazione del capitale era diventata impossibile, e la conseguente diminuzione della massa del valore, era un assunto di fondo del tutto corretto, che, come già detto, per la critica del valore costituiva l'unica base.  Ma il capitalismo non ha collassato. Inoltre, ciascuna di queste crisi si è fermata, almeno apparentemente, o quanto meno la sua intensità è diminuita. La Russia, contro ogni previsione, è tornata ad essere una potenza mondiale. Non si è sviluppata una spirale di crisi sempre più esacerbate. La crisi globale del Covid, almeno all'inizio, sembrava davvero l'occasione giusta per una crisi definitiva del debito: prima attraverso le severe restrizioni alla produzione e al commercio mondiale, e poi attraverso i giganteschi "pacchetti di salvataggio" finanziati dal credito. Ma anche questa volta non c'è stato alcun crollo. Nessun problema è stato risolto, ma tuttavia tutto continua.

E bisogna che tutto questo venga spiegato teoricamente. La teoria della crisi, in quanto tale, è corretta, ma tuttavia non riesce a spiegare perché non ci sia ancora stata una crisi finale. Continuare sempre a dire: «Se la grande crisi non arriva questa volta, allora la vedrai l'anno prossimo», diventa in realtà qualcosa che assomiglia alle profezie apocalittiche per mezzo delle quali i tuoi avversari hanno sempre voluto identificare i critici del valore. È vero che nei centri capitalistici, nella sua forma pura, il modello fordista di accumulazione è morto da decenni, che non è mai stato veramente esportato alla periferia, e che nessun altro modello di accumulazione è praticabile. La combinazione di economia di mercato e democrazia, piena occupazione e prosperità, compromesso di classe (cioè una riduzione dei divari di reddito) e bilanci in pareggio, vale a dire, il cosiddetto "miracolo economico", nel migliore dei casi ha dovuto richiedere alcuni decenni, e anche allora solamente in pochi paesi. Questa società, si considerava come se fosse una sorta di punto finale della storia, come la soluzione perfetta che era stata finalmente trovata, e che doveva solo essere estesa a tutto il resto del mondo. Può essere che sia apparso così anche a coloro che sono cresciuti in tutto questo (ivi compresi i fondatori della critica del valore!): come se si trattasse del capitalismo "reale", contro il quale  tutte le altre forme di capitalismo rappresentano solamente o dei precursori o delle forme di declino. Ma è davvero così? Piuttosto che ripetere costantemente che a un certo punto la barriera verrà raggiunta, forse sarebbe il caso che la critica del valore esaminasse quei numerosi modi, "non ortodossi", secondo i quali la società globale delle merci si muove, passando da una soluzione di emergenza alla successiva soluzione provvisoria. Il ruolo della Cina e delle altre "economie emergenti", da un lato, e il ruolo della digitalizzazione dall'altro, sono stati presi sufficientemente in considerazione? Di certo, non si tratta semplicemente - come sostiene l'economia borghese e quasi tutti i marxisti - di nuovi modelli che sostituiscono i vecchi centri capitalistici ("il secolo del Pacifico"!) o che sostituiscono la vecchia industria. Sembrano dare nuovamente un po' di respiro allo sfruttamento globale del valore, e, in ogni caso, il capitalismo non ha mai "chiesto" nient'altro. Lohoff e Trenkle, ne "La Grande svalorizzazione" (2012), hanno tentato di spiegare l'andamento della crisi finale per mezzo di categorie politico-economiche. Ma la loro complicata analisi sembra non abbia convinto nessuno. Ciò che è importante è che la critica del valore, in tutte le sue sfumature, ha dimostrato che le crisi finanziarie sono il risultato di una crisi di accumulazione reale, e non il contrario. Pertanto, è stata in grado di classificare qualsiasi critica unilaterale dei mercati finanziari, delle banche e della speculazione, vedendola come una critica stenografica del capitalismo che porta al populismo e al nuovo antisemitismo.  L'insistenza sul "limite interno" del Capitale, così caratteristica della critica del valore, e in particolare di Kurz, e che era quasi sempre estranea al marxismo tradizionale, è stata sempre diretta, in modo subliminale, contro l'assunto secondo il quale il capitalismo stesse mirando principalmente alle sue "barriere esterne". Questo ha significato, almeno dagli anni '70, principalmente alle barriere naturali, vale a dire, ai limiti ecologici. Fin dall'inizio, la critica del valore si è sviluppata esplicitamente in contrasto con il discorso ambientalista che si era diffuso in Germania negli anni '80 – "Commenti critici sulla nuova critica del potere produttivo e sull'ideologia della desocializzazione", era questo il sottotitolo del principale articolo di Kurz, "Il ruolo delle cose morte", su Marxist Critique No. 2 and No. 3 (1986-1987). Inizialmente, durante la crisi, c'era stata una vera e propria euforia nei confronti della tecnologia: lo sviluppo sempre crescente di tecnologie che risparmiavano lavoro, avrebbe privato il capitalismo delle sue fondamenta, e liberato così gli individui dal lavoro. Come questa ideologia del progresso – che fondamentalmente era solo una variante della tradizionale idea marxista delle forze produttive che fanno esplodere i rapporti di produzione – sia stata in seguito parzialmente corretta non verrà qui discusso più dettagliatamente (vedi il mio articolo "Sui Rimescolatori e sui darwinisti sociali"). Ma la questione della barriera esterna continuava ad essere in gran parte ignorata. Sebbene il raggiungimento del limite interno della valorizzazione del capitale richieda molto più tempo di quanto credessero i critici del valore, e venga interrotto da numerosi movimenti contrari, il movimento verso il limite naturale è praticamente inarrestabile, e sta accelerando costantemente senza alcun significativo momento di ritardo. Ci sono molte indicazioni che la barriera naturale verrà raggiunta più rapidamente di quella interna e pertanto, di fatto, innescherà una crisi globale fondamentale. Questo significa che - oggi, dopo quarant'anni - la critica del potere produttivo sia giusta rispetto alla critica del valore?  Non necessariamente. Solo la descrizione della logica della valorizzazione del valore - così come viene fornita dalla critica del valore - rimane in grado di rivelare quali sono le cause interne della folle coazione capitalistica a crescere. Nessuna varietà di discorso ecologico ha mai realmente affrontato questo problema, e anche quegli ecologisti che si classificano come radicalmente critici del capitalismo hanno sempre un'idea assai superficiale del rapporto esistente tra capitalismo e crisi ambientale (i ricchi, o le multinazionali, o le lobby sono sempre da biasimare per tutto). Uno dei contributi più importanti che la critica del valore può dare oggi è quello di mostrare che dalla catastrofe ambientale non c'è salvezza, a meno che la società mondiale non si ritiri dal lavoro astratto e dalla produzione di merci, dal denaro e dal valore. Ma questo tema ha ricevuto uno scarso trattamento nella critica del valore. E neppure l'autonomia delle tecnologie. Il feticismo moderno – il mondo che l'uomo stesso costruisce ma dal quale si trova a essere dominato – consiste essenzialmente di quelle che sono le due metà: il valore generato dal lato astratto del lavoro e la mega-macchina tecnologica. Storicamente, esse sono emerse insieme, senza che sia stata definita una chiara priorità. Per la ricerca futura, pertanto, esiste un ampio campo, che allo stesso tempo sarà anche di grande rilevanza per le azioni attuali. Citiamo brevemente alcune altre aree rispetto alle quali la critica del valore deve essere ulteriormente sviluppata, anziché rimanere pietrificata come un dogma.

La critica dell'Illuminismo, sviluppata dalla critica del valore a partire dalla fine degli anni '90, ha rappresentato anch’essa un duro colpo per “la piscina delle rane”. In pratica, tutta la sinistra si era sempre vista come l'erede di un Illuminismo che doveva essere completato, oppure che, al massimo, aveva accettato la "Dialettica dell'Illuminismo" come se fosse una spiegazione. L'alternativa all'Illuminismo non poteva essere altro che il contro-illuminismo, la reazione, il Romanticismo, con tutto ciò che ne era emerso, specialmente in Germania. Kurz e gli altri hanno dimostrato invece che, per molti aspetti, l'Illuminismo non aveva significato il superamento del dominio, quanto piuttosto l'interiorizzazione di esso, e costituiva pertanto un'affermazione delle categorie capitaliste. L'Illuminismo non era stato - come spesso si sostiene - in seguito pervertito nel suo opposto, ma semmai, proprio a partire dalle sue stesse fondamenta, aveva significato un'intensificazione del dominio; come dimostra il Panopticon di Bentham. Ma sebbene quest'ultimo fosse già stato denunciato come repressivo da altri autori, come Michel Foucault, la critica del valore ha scoperto un nucleo repressivo anche nel Santo dell'Illuminismo, in Immanuel Kant. Le citazioni di Kant, riportate nei corrispondenti scritti di critica del valore sono effettivamente in grado di farci riflettere sull'immagine diffusa del "filosofo della libertà", per il quale l'illuminismo significava l'uscita dell'uomo dalla sua immaturità autoinflitta. Sono state citate anche numerose dichiarazioni razziste, antisemite e misogine da parte di rinomati pensatori illuministi, e si è concluso che l'oppressione delle donne, degli ebrei e dei non bianchi – vale a dire il dominio del soggetto maschile bianco-occidentale (MWW, Male, White, Western), come lo ha descritto Kurz – c’è davvero stata. Solo che si è realmente affermata nella seconda metà del Settecento, nel momento in cui si è "basata" su delle forme più antiche. Ma qui è stato superato il limite. Questo ha di certo potuto essere giusto, ma all'inizio, quando serviva a distinguere una nuova teoria, rispetto alla solita confusione di considerazioni fatte di "entrambi/e", per mezzo di affermazioni drastiche in modo da evitare che ci si perdesse nel solito mercato di irrilevanti opinioni quotidiane. Ma in una fase successiva si sarebbe invece reso assolutamente necessario il passaggio a un approccio più sfumato. La lettura dell'Illuminismo, fatta da Kurz è – e questo è il minimo che si possa dire – altamente selettiva. Nella sua opera, i pensatori illuministi francesi non vengono menzionati, sebbene Denis Diderot, ad esempio, fosse decisamente un anticolonialista e un antirazzista (Addendum al "Viaggio di Bougainville", 1772). Il fatto che la Rivoluzione francese, tra le altre sue conquiste, abbia proclamato l'emancipazione degli ebrei e abolito la schiavitù nelle colonie non viene menzionato. E neppure l'abolizione della tortura e della pena di morte in alcuni paesi. Kurz, in realtà (così come fanno Lohoff e Lewed nei loro corrispondenti articoli sulla Crisi [*10]) si occupa solo di Kant. Le sue tendenze repressive vengono giustamente sottolineate. Ma Kant scriveva anche che: «Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Tutto ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos'altro, come equivalente; ciò che, invece, è al di sopra di ogni prezzo, e quindi non ha equivalenti, ha una dignità»; e questo viene volutamente ignorato. La mia obiezione non significa affatto che Kant fosse un filosofo della libertà, ma piuttosto che egli era ambivalente, come lo era in generale l'Illuminismo. Altre parti della critica illuminista risultano ancora meno convincenti. L'antisemitismo, il razzismo e il patriarcato dovrebbero essere una mera conseguenza dell'Illuminismo? Nella modernità capitalistica, questi fenomeni hanno assunto nuove forme, e sono stati spesso innestati su forme più antiche, ma non sono pure invenzioni della modernità. L'Illuminismo ha fornito sia le munizioni per la riforma, e spesso ha così esacerbato il razzismo, l'antisemitismo e il patriarcato, sia anche gli argomenti contro tutto questo. Una tale dialettica va sempre rammentata. Vent'anni dopo la Rivoluzione francese, nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale gli ebrei vennero formalmente emancipati. Nelle colonie, la schiavitù fu sempre più criticata e rapidamente abolita, e i diritti delle donne aumentarono (ad esempio, l'introduzione del divorzio durante la Rivoluzione francese). Certo, è vero che tutte queste libertà sono state accompagnate da nuove forme di schiavitù interiorizzata, come l'etica del lavoro. Ma ciò è sufficiente a farci vedere l'Illuminismo come se fosse solo uno slancio per l'affermazione della società dei valori, piuttosto che come un campo di battaglia? Anche la critica dell'Illuminismo ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, e spesso prese la forma del contro-illuminismo, vale  a dire del romanticismo, del tradizionalismo, dell'irrazionalismo e del ritorno alla religione. È chiaro che la critica del valore non ha assolutamente niente a che fare con ciò. L'Illuminismo e il Contro-Illuminismo sono stati trattati, un po' prematuramente, come fratelli nemici, come due poli dialettici che vanno superati insieme. Ma su quali basi? È questa la domanda che posi a Kurz nel 2003, nel mio articolo sulla crisi "Una questione di punti di vista. Commenti sulle critiche dell'Illuminismo". Se tanto il pre-moderno quanto il moderno non possono servire quale punto di partenza, su che cosa dovrebbe realmente basarsi la promessa di una "anti-modernità emancipatrice"? Non sembra del tutto sospeso in aria tutto ciò? Il focus sulla critica dell'Illuminismo, è andato di pari passo con Krisis, e poi, ben presto, con EXIT!, con un'attenzione sempre maggiore alla scissione-valore. In EXIT!, non si può più usare il termine "critica del valore"; bisogna che sia "critica della scissione del valore", e dacché questa parola è così difficile da gestire, ne è stata tratta l'abbreviazione WAK, nel più bel stile GDR. È difficile accettare un testo di EXIT! che non menzioni più volte la scissione-valore in ogni pagina [*11], e chi non lo fa appartiene senza dubbio a una "lega maschile".

E tuttavia, all'inizio, la scissione-valore era un'idea estremamente importante: il valore non comprende tutto; né ogni attività crea valore. La produzione di valore può avvenire solo perché numerose attività, soprattutto nel campo della riproduzione, si svolgono in modo non commerciale. Esse non rappresentano il "lavoro" nel senso capitalistico, ma non sono affatto esenti dalla forma merce. Costituiscono come un "lato oscuro" della produzione di valore, un prerequisito silenzioso. Coloro che lo fanno sono generalmente inferiori ed esclusi da quei "diritti" che la partecipazione alla produzione di valore fornisce, ad esempio, al lavoratore classico. Tutte queste attività vengono in gran parte svolte da delle donne, e nella società moderna la subordinazione delle donne si basa principalmente sul fatto che, finché sono attive nel settore riproduttivo, non svolgono "lavoro" e non producono "valore". La scissione-valore è stata presentata in diversi articoli chiave in Krisis (1992). [*12] Di conseguenza, questa idea non è stata sviluppata e differenziata, ad esempio, attraverso studi storici, ma piuttosto, nella sua versione originale, è diventata un dogma che è stato arbitrariamente supportato con dati empirici solo quando era appropriato. In tale forma, è stato poi utilizzato in scambi banali nelle controversie nell'ambito della critica del valore, passando spesso direttamente dall'apice dell'astrazione categoriale alle ostilità personali, e alle meschine lotte di potere. Soprattutto, però, è stata evitata la discussione di un punto di vista importante: sotto il capitalismo ci deve essere una produzione di plusvalore (livello categoriale), ma questa non deve necessariamente essere effettuata da un proletariato industriale impoverito, come è stato al suo inizio (a livello empirico), ma può verificarsi anche altrove, ad esempio con i lavoratori ad alta tecnologia (e questo è esattamente ciò che la critica del valore ha sempre sostenuto contro i marxisti tradizionali, che erano tutti alla ricerca di un successore del vecchio proletariato). Allo stesso modo, il valore ha bisogno di un'ampia sfera di attività senza valore per funzionare, ma questa sfera non è limitata all'attività delle donne in casa e in famiglia. Se da un lato tutto ciò continua a giocare un ruolo molto importante, dall'altro ci sono anche altre sfere prive di valore, senza le quali la produzione di valore collasserebbe. Ciò include, da un lato, l'addomesticamento (di entrambi i sessi), che ha continuato a essere diffuso fino alla metà del XX secolo, e, dall'altro, tutto ciò che la sociologia chiama "economia del dono", che include l'amicizia, l'amore e l'aiuto del vicinato, le associazioni, ecc.: tutte attività che non sempre sono del tutto "disinteressate", ma che comunque non sono basate su uno scambio di equivalenti (se invitiamo dei conoscenti a cena, speriamo che ci invitino di nuovo, ma non siamo "sicuri" di farlo – non è uno scambio). Spesso, questo "lato oscuro" della società dei valori ha una connotazione di genere – ma non sempre, e necessariamente. E avviene sempre meno. Sono poche le cose cambiate così tanto negli ultimi decenni, come la posizione delle donne nella società, soprattutto grazie alla loro libertà di non essere più vincolate dal ruolo di madre. La funzione categoriale di "donna", così come la funzione categoriale di "lavoratrice", è stata in gran parte staccata dai supporti empirici. Le numerose donne nello Stato e nel mondo degli affari non possono più essere definite come delle semplici "eccezioni". I termini "selvaggità del patriarcato" (come il titolo di un articolo di Scholz del 1998) e "casalinga degli uomini" riconoscono la discrepanza tra teoria ed empirismo, ma non affrontano realmente l'allontanamento della logica feticistica dai suoi portatori storici come una delle caratteristiche principali dell'ultima fase della socializzazione dei valori – come i marxisti che non riescono a dire addio al proletariato, e puntano trionfalmente ai "veri" proletari che riescono ancora a trovare da qualche parte. In questo modo, WAK riesce a definirsi, contemporaneamente, femminista mentre si pone al di sopra di tutte le femministe ordinarie che non raggiungono il livello di astrazione di WAK. Le polemiche sono rivolte in particolare ad autori come Silvia Federici o Maria Mies, che a volte suggeriscono comportamenti competitivi. In cambio, vengono presentate intuizioni rivoluzionarie, come la scoperta che esiste anche un "livello meso" tra il livello astratto delle categorie e il livello empirico. Chi l'avrebbe mai immaginato! Anche qui sono state soffocate le opportunità di diffondere idee di valore critico, e questo al di là dello stagno delle rane della sinistra radicale. Ci si potrebbe anche chiedere cosa Kurz pensasse veramente della WAK, non importa quanto ferocemente lo abbia difeso esternamente. È sorprendente come nel suo primo scritto significativo dopo la scissione di Krisis (che si suppone si basasse essenzialmente sul rifiuto della WAK da parte degli altri membri di Krisis), vale a dire "La sostanza del capitale", così come ne "Il Capitale mondo" (2005), pubblicato poco dopo, e infine nel suo ultimo lavoro, "Denaro senza valore", scritto otto anni dopo, la separazione dei valori non abbia quasi alcun ruolo. In questi scritti, in cui Kurz è senza dubbio nel suo elemento, e dà il meglio di sé, fa bene a fare a meno di questa categoria. In altri scritti, sembra quasi costringersi a metterla costantemente in gioco. C'è forse un corto tra essoterico ed esoterico?

Affrontiamo brevemente un altro problema: la questione del rapporto tra l'universalismo del valore e le particolarità delle singole culture (in senso lato). Come in particolare, Kurz ha più volte spiegato, oggi il valore prevale negli angoli più remoti del mondo e determina – direttamente o indirettamente - le azioni di tutti. Che uno sia un beduino nel deserto o un broker a New York, ormai la sua è solo come una "verniciatura" esteriore. Il valore ha creato un mondo unico. Ma è davvero così? Anche se la logica del valore ha avuto un impatto dalle montagne afghane alla giungla amazzonica, ci sono delle differenze significative nel modo in cui le singole culture reagiscono a essa. Sembra anche dubbio se davvero in realtà - come suggeriscono le analisi dell'Islam presentate principalmente da Rest-Krisis [*13] - le attuali manifestazioni di quelle che sono le vecchie ideologie, come l'Islam, vengano largamente influenzate dagli standard occidentali; o che rappresentino quanto meno una reazione ad essi. O che, per esempio, Ernst Jünger o Carl Schmitt abbiano più responsabilità per l'Islam politico, di quanto ce l'abbiano i wahhabiti o il testo del Corano. Tutto ciò, ricordando che dire, per esempio, quando si tratta di critica del valore, che la Cina di oggi può, in qualche modo, avere più cose in comune con la Cina del periodo T'ang, piuttosto che con gli Stati Uniti di oggi, viene subito considerato "culturalismo". Inizialmente, questo anti-culturalismo aveva anche delle buone ragioni. Nel suo importante libro, "La terza via alla guerra civile" (1996), Lohoff dimostrò in maniere convincente che il collasso della Jugoslavia e la crudele guerra civile che ne seguì non era stato - come le pagine tedesche ritraevano allegramente - una sorta di "guerra tribale", che andava avanti da secoli, tra popoli nemici l'uno dell'altro, alcuni dei quali erano civilizzati mentre altri erano "barbari". Lohoff ha mostrato quali sono state tutte le fasi del fallimento della "modernizzazione della ripresa" in Jugoslavia, e come le tensioni tra le diverse culture e lingue del paese - che avrebbero potuto esistere al livello pacifico della Svizzera - si siano intensificate fino al punto di assassinio. Ma anche in questo caso, l'enfasi, su un fattore che in precedenza era stato ampiamente ignorato dal pubblico, era necessariamente troppo unilaterale per poter essere ascoltata. Più tardi, nella sua "Guerra per l'ordine mondiale", Kurz ha certamente riconosciuto alle ideologie e alle religioni il loro peso; ma forse non abbastanza, soprattutto per quel che riguarda la forma concreta di barbarie e di decadenza legata alla crisi. Una certa sottovalutazione della sfera simbolico-culturale, potrebbe rappresentare un residuo invincibile del vecchio "materialismo" marxista. Così, se da un lato sopravvaluta l'omogeneità dei temi odierni legati alla merce, dall'altro lato, la critica del valore forse ne esagera l'assoluta differenza rispetto all'epoca premoderna. Un altro dogma da mettere in discussione è quello del rifiuto totale di tutti i cosiddetti concetti “ontologizzanti” o “antropologizzanti”. Questo finisce per mettere in discussione l'esistenza di costanti nella storia dell'uomo. Così come il corpo umano rimane sempre essenzialmente lo stesso a livello biologico, non esiste forse anche una struttura pulsionale, uno stato psicologico dell'essere umano che pur essendo molto plastico, lo è solo entro certi limiti? Come fare altrimenti a spiegare che praticamente, quelle che sono caratteristiche tra di esse simili appaiono ripetutamente in tutte le società (per esempio, le gerarchie sociali, le gerarchie di genere, le forme di religione, le forme indipendenti di mediazione (il feticismo, la guerra, la xenofobia)? E perciò, il rifiuto dell'ipotesi di un “fondamento della natura” - che viene condannato come “essenzialismo” - non è forse parte dell'illusione moderna secondo la quale l'uomo potrebbe creare sé stesso senza alcun limite, mentre invece egli trova i suoi limiti nella natura esterna o interna? Non è forse questa la famosa “illusione della vitalità”, così strettamente legata alla società di mercato? Ad esempio, l'aggressività e la distruttività, ivi compreso "l'istinto di morte", sono sempre e solo le conseguenze di una società repressiva - di per sé evitabile - oppure in parte nascono invece da un conflitto tra la struttura pulsionale istintuale individuale e la società in generale? Ed ecco che così, dopo 38 anni, sorge spontanea la domanda: la Critica del Valore ha costituito un approccio che, dopo un inizio brillante, è quasi scomparso dalla scena, e che alla fine ha avuto ben poca influenza sulla storia, oppure è proprio la Critica del Valore, dopo aver avuto alcuni limiti, come se fosse cresciuta troppo a causa di una malattia infantile, ora può finalmente sviluppare tutto il suo potenziale e occupare un posto saldo e duraturo nell'analisi critica della società?

- Anselm Jappe - Settembre 2024 -

NOTE:

1 -  Nel 2004 gli è stato dedicato un intero numero di "Historical Materialism".

2 - Per caso, ho appreso che Kurz non è "degno di citazione" neanche in una tesi di abilitazione tedesca in linguistica, quindi non è considerato serio; ma Postone ed io lo siamo! Si può solo invidiare il ruolo di "convitato di pietra" che è toccato Kurz, una non-persona a cui nessun accademico serio vuole stringere la mano!

3 - Molti pensatori della sinistra radicale, così come le loro scuole, cercano di coniugare questi due approcci, come faceva Michel Foucault, il quale si vantava di essere simultaneamente un «attivista politico e un professore al Collège de France». O Toni Negri, che insegnava "Dottrina dello Stato" all'Università di Padova mentre lottava contro lo Stato. Si tratta di una saggezza strategica per sfruttare ogni opportunità, o di uno sforzo opportunistico per giocare su tutti i campi? Il giudizio spetta a ciascuno di noi!

4 - Anche se a volte, quanto meno con "EXIT!" residuale, è questa che diventa quasi l'unica attività critica; denigrare costantemente qualsiasi attività pratica degli altri, dal momento che non corrisponde esattamente alla purezza della critica del valore – e nessuna attività lo è, né può esserlo – rappresenta un conforto narcisistico per il fatto di saperlo meglio di tutti gli altri, ma poi questo finisce per completare la propria emarginazione.

5 -  Assai spesso, la metafora del messaggio nella bottiglia viene associata alla teoria critica, soprattutto in relazione ad Adorno. Serve come consolazione a coloro i quali, per le loro idee, non vedono altra opzione se non quella di diffonderle come se fossero un messaggio in una bottiglia. Ma per Adorno - almeno in parte, e soprattutto nei suoi ultimi anni - si trattò come di una forma di flirt: fu lui stesso a far di tutto per dare alla sua teoria la massima risonanza possibile, e per decenni è stato uno degli autori socialmente critici più letti al mondo; e qui pertanto non si può più parlare di messaggi in bottiglia! Possiamo dire che, più che altro, è stato proprio il carattere "assai poco praticabile" della teoria critica a spingere i suoi protagonisti ad aver fiducia, in ultima analisi, proprio nell'università (o, come avvenne nel caso di Marcuse, nell'università e nell'attivismo).

6 - Tuttavia, non è affatto certo che  aver impedito la diffusione della critica del valore siano state le divisioni, le esclusioni, le controversie interne e le maledizioni; dal momento che abbiamo degli esempi storici di movimenti che invece hanno tratto forza proprio da tali pratiche.

7 - Articolo in due parti apparso sui numeri n. 1 (2004) e n. 2 (2005) di "EXIT!".

8 - La morte relativamente prematura di Kurz, avvenuta nel 2012 a causa di un errore medico, ha di certo contribuito anche al declino della diffusione della critica del valore, dato che - visibilmente - non c'era nessuno che in seguito sarebbe stato in grado di continuare la critica allo stesso livello. Soprattutto sul campo della critica dell'economia politica, e della sua applicazione all'analisi delle forme contemporanee della crisi del capitalismo, nessuno ha prodotto qualcosa di notevole. Questo ha portato a criticare a livello di apparenza, in maniera sempre più moralizzante e superficiale, i soggetti capitalistici. Il suo ultimo libro dimostra che il potere creativo di Kurz non conosceva sosta, e che avrebbe avuto sicuramente molto altro da dire. Ma i problemi qui menzionati erano già sorti molto tempo fa, ed essenzialmente erano inerenti ai punti di partenza della critica del valore. Gli aspetti discutibili della critica del valore che ho evidenziato nel resto di questo articolo, sono sempre stati esposti e portati avanti con particolare zelo da Kurz, in tutte le fasi del suo sviluppo.

9 -  Robert Kurz (1994): "Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale" Mimesis

10 - Si veda, Robert Kurz (2003): "ONTOLOGIA NEGATIVA. Gli oscurantisti dell'Illuminismo e la metafisica storica della Modernità" in: Krisis 26; si può leggere, in italiano in:
     https://francosenia.blogspot.com/2015/02/individui-identici.html e segg.

11 - Ho omesso di menzionare l'intraducibilità della parola in altre lingue.

12 - Roswitha Scholz (1992): "Il valore è l'uomo. Tesi sulla socializzazione dei valori e delle relazioni di genere", in: Krisis 12;
Robert Kurz (1992): "Feticismo di genere. Cenni sulla logica della femminilità e della mascolinità", in: Krisis 12


13 - Ad esempio, Norbert Trenkle (2015): Damn Modern. Perché l'Islam non può essere spiegato con la religione", Krisis


fonte: UTOPIAS pòsCAPITALISTAS

mercoledì 11 settembre 2024

GENEALOGIA !!

Dalla "Marxistische Kritik" a "Krisis"

Se, all'inizio, il tandem teorico principale era quello formato da Robert Kurz e da Peter Klein - provenienti dal marxismo-leninismo e dai K-Gruppen - fu a metà degli anni Ottanta che a loro si unirono attivisti più giovani, provenienti dall'ambiente studentesco e autonomo, in particolare Ernst Lohoff e Johanna W Stahlmann. I diversi successivi raggruppamenti militanti e teorici, formati dai primi protagonisti della Wertkritik (attraverso riviste cone "Neue Strömung" nel 1980, "Initiative Marxistische Kritik" nel 1984, e infine "Krisis", nel 1990), ebbero come temi principali soprattutto quelli che ruotavano, da una parte, intorno alla "critica della falsa immediatezza" delle diverse lotte agitatorie nelle quali erano stati coinvolti per anni, e dall'altra una difesa intransigente della legittimità e dell'autonomia dello sviluppo teorico (in questo caso, in relazione ad Adorno). Tutto questo, a partire da una reinterpretazione critica dell'URSS e dei Paesi dell'Europa dell'Est, basata su una rilettura delle categorie fondamentali del capitalismo; dalla critica alla frammentazione e alla dissoluzione del movimento marxista-leninista tedesco, e della sinistra ereditata dalla SDS, in via di fusione con il partito dei Verdi, che aveva continuato a decollare negli anni Ottanta; l'opposizione virulenta all'accademismo del marxismo simboleggiata da riviste come "Prolka" e "Argument"; il ritorno alla critica delle categorie di base del capitalismo e alla teoria della crisi, attraverso il ritorno al Capitale di Marx e alla lettura critica dei marxismi eterodossi di Roubine, di Pashukanis, di Grossmann, di Mattick, ecc. in un confronto con la "Neue Marx-Lektüre" e la "Scuola di Francoforte".

lunedì 9 settembre 2024

Breviario

Nel suo libro "Caratteri filosofici. Da Platone a Foucault" (2010, Raffaello Cortina) - identificato nel sottotitolo dell'edizione portoghese come un «breviário», sebbene la parola non appaia nell'originale -, Sloterdijk fa uso della formula del breviario per comprendere un insieme di vite: cosa che gli permette di includere il suo progetto in quella linea associativa che include le Vite degli Artisti di Vasari, Le vite immaginarie di Marcel Schwob, la Storia Universale dell'Infamia di Borges, la Sinagoga degli Iconoclasti di Wilcock, la Letteratura Nazista in America di Bolaño, Vite minuscole di Pierre Michon, e così via… L'attenzione alla forma, vista come veicolo specifico del pensiero, non è estranea a Sloterdijk: parlando di Hegel, in quel libro sui «temperamenti» (nell'originale tedesco: "Philosophische Temperamente. Von Platon bis Foucault". Diederichs, Munich, 2009) scrive che la sua figura preferita del pensiero è la conclusione (la quale corrisponde a un ritmo e a una catena di idee, il tutto visto come se fosse la forma breve della «vita»). Ciò che Sloterdijk cerca di fare, è stabilire una sorta di modulazione instabile tra soggetto ed epoca, tra il posizionamento specifico di un pensiero individuale nel flusso del tempo e l'iscrizione generalizzata di quello stesso tempo/epoca nella capacità di scrittura del soggetto. Se qualcosa funziona da filo conduttore per i commenti che Sloterdijk fa a proposito di  figure così diverse, allora questo è il tentativo di descrivere criticamente il modo in cui i soggetti sono o non sono in sintonia con il loro tempo (il modo in cui Wittgenstein, per esempio, sollecita un ricorso alla figura medievale dell'eremita, allo stesso tempo in cui simultaneamente rifiuta la forma testuale completa a favore dell'aforisma; o di come Schelling sorprenda i suoi contemporanei in almeno due momenti: in gioventù, con la sua brillantezza inaspettata; in maturità, con il suo stile tardivo che lo rende incline all'incompleto e al malinconico). Le posizioni occupate dai filosofi commentati da Sloterdijk non si risolvono mai in una pura appartenenza al passato, o in un puro rimando al futuro (quando l'opera verrà finalmente compresa in tutte le sue possibilità). La riscoperta di Pascal, per esempio, viene esaltata come se fosse una conseguenza dell'educazione ricevuta a partire dalle Affinità elettive, con Goethe e Nietzsche; Schopenhauer, a sua volta, sarà invece sempre necessario per tutti coloro che decidono di avvicinarsi alla «rinuncia» («la parola più difficile del mondo» per i moderni); Leibniz, infine, può essere una delle principali fonti di ispirazione per le generazioni future che cercano di «rigenerare» un principio di «ottimismo» o, quantomeno, di «non pessimismo».

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 7 settembre 2024

Noi Zombie !!

Siamo zombie
- di Tomasz Konicz -
(Pubblicato nell’agosto 2017 in occasione della morte di George Andrew Romero)

Quasi 400 milioni di dollari USA: ecco quanto si dice abbia divorato la produzione e la commercializzazione dello spettacolo di zombie "World War Z". Se Hollywood investe una somma così generosa nello sfruttamento di un fenomeno culturale - che per decenni è stato marginale per decenni - allora è segno che esso dev'essere ormai arrivato nel mainstream dell'industria culturale occidentale. Soprattutto se si pensa che questo enorme investimento sembra abbia cominciato a dare i suoi frutti solo alla fine. Gli zombie sono ovunque. una vera e propria marea di prodotti culturali dei non morti si sta riversando su di noi, con dozzine di film e videogiochi infestati da zombie pubblicati ogni anno. La produzione annua di beni culturali corrispondenti al soggetto zombie, da tempo continua a raggiungere sempre nuovi massimi, persino superiori a quelli della prima grande ondata di zombie degli anni Settanta e Ottanta, quando George A. Romero, con i suoi classici La notte dei morti viventi (1968) e L'alba dei morti viventi (1978) diede ai non morti una prima spinta di popolarità. Se guardiamo l'elenco dei film di zombie prodotti in tutto il mondo, che si può consultare su Wikipedia, tra il 2010 e il 2012 sono stati prodotti in media 35 film all'anno dove i non morti svolgono un ruolo, secondario o principale. Inoltre, ci sono numerosi giochi per computer in cui i morti viventi devono essere fatti a pezzi in maniera più o meno efficace. Negli anni Settanta e Ottanta, invece, la produzione dell'industria zombie non aveva mai superato la soglia dei 12 film all'anno. Non solo c'è una rapida proliferazione di zombie nella cultura di massa, ma anche le caratteristiche dei non morti sono via via soggette a enormi cambiamenti. Da un lato, c'è una crescente tendenza a razionalizzare lo scenario dell'apocalisse zombie, attribuendolo ad esempio alla diffusione di un virus pericoloso, o a esperimenti militari fuori controllo (World War Z, 28 giorni dopo). Lo zombie di oggi, quello dell'inizio del 21° secolo, che vuole stare al passo con i tempi, difficilmente può permettersi la lentezza che i suoi lontani parenti hanno mostrato nella seconda metà del 20° secolo. A partire dal film britannico sugli zombie, 28 giorni dopo (2002), e dall'efficace e superficiale remake di Zack Snyder di "The Dawn of the Dead" del 2004, i non morti diventano sempre più veloci, più agili, e anche molto più aggressivi, anche come singoli esemplari. Romero, del resto, invece si affidava completamente all'effetto di massa: i suoi non morti sviluppano la loro pericolosità, solo in quanto si muovono grandi gruppi. Anziché trascinarsi tranquillamente, gli zombie del 21° secolo corrono per catturare le loro vittime non appena le localizzano. La fortunata serie di videogiochi "Left 4 Dead" costruisce tutto il suo gameplay proprio su questo elemento dei non morti che attaccano costantemente, e la cui esistenza illusoria tra la vita e la morte diventa probabilmente attribuibile a un consumo eccessivo di stimolanti. Naturalmente, questa iperattività dei non morti è stata portata all'estremo con "World War Z", dove gli zombie si trasformano in una sorta di diluvio umano che avanza rapidamente e divora tutto. Ci vogliono circa dodici secondi perché la vittima morsa da uno zombie si trasformi in un nuovo rappresentante di questa specie che si sta espandendo alla velocità di un incendio boschivo: questa è efficienza. "World War Z" illustra anche quali sono i compromessi che lo zombie ha dovuto fare nel corso della sua carriera culturale-industriale. Questo film di zombie, compatibile con il mainstream, deve fare quasi completamente a meno degli effetti splatter, in modo da raggiungere così il pubblico più ampio possibile. Tuttavia, questo genere cinematografico rimane tradizionalmente sede dell'uso eccessivo di scene splatter e gore, in cui i brandelli (umani) volano letteralmente. Hollywood ha creato un film d'intrattenimento sterile, quasi adatto alle famiglie, che è stato derubato di una forma di rappresentazione essenziale, e allo stesso tempo controversa e sovversiva. Gli "infetti" in "World War Z" non sembravano più mettere in pratica ciò che gli zombie avevano sempre fatto: divorare letteralmente, davanti agli occhi dello spettatore scioccato, tutto ciò che era rimasto(ancora) vivo. Tuttavia, la rottura decisiva con le tradizioni (sovversive) operata da questo genere cinematografico, realizzata con "World War Z", avviene a livello di contenuto. Da "La notte dei morti viventi", i gruppi di sopravvissuti esposti all'apocalisse zombie hanno cominciato a essere crivellati di conflitti e contraddizioni, la maggior parte dei quali si intensifica in parallelo agli attacchi zombie. Non è però più il caso dell'adattamento cinematografico di "World War Z", per quanto il libro di Max Brooks, in particolare, critichi esplicitamente quelle che negli Stati Uniti sono le tendenze allo stato di polizia. Il libro, pubblicato nel 2006, è strutturato come una serie di testimonianze oculari apparentemente reali, in cui vengono descritti non solo gli attacchi zombie, ma anche gli attacchi arbitrari e brutali degli organi statali contro i passanti innocenti. Questa immaginaria "storia orale" della guerra degli zombie, si può leggere in parte come un commento sarcastico a quelli che sono stati gli scandalosi eccessi dello stato di polizia nell'affrontare il disastro dell'alluvione a New Orleans. Nell'adattamento cinematografico, questo livello sovversivo è stato completamente cancellato, e nel film l'apparato di sicurezza fa uno sforzo di sacrificio per garantire la sicurezza. Inoltre, bisogna anche identificarsi con la tipica famiglia nucleare idilliaca - il proverbiale nucleo della società - la cui coesione era ovviamente drammaturgicamente assai più importante, per i registi, rispetto agli attacchi atomici che interrompono le fastidiosamente stereotipate conversazioni telefoniche tra Pitt e la moglie. Così facendo, "World War Z" depriva il film di zombie della sua dimensione sovversiva e critica. Gli zombie sono trasformati nell'Altro, lo straniero per eccellenza, che si nasconde al di fuori della società apparentemente non contraddittoria, e dell'idillio familiare – e pertanto incarna una loro minaccia proveniente da forze esterne che devono essere scoraggiate per mezzo di muri (israeliani, statunitensi, europei) e attraverso le fortificazioni del confine. Questa esternazione dello zombie, reso così una minaccia esterna, costituisce la rottura fondamentale e reazionaria che il film commette contro il genere cinematografico. Ciò perché, ovviamente, gli scontri tra i sopravvissuti, nel classico film di zombie, puntano solo al fatto che i non morti incarnano qualcosa che dorme profondamente nella nostra società – qualcosa che attualmente rimane in uno stato di latenza, ma che potrebbe anche diventare manifesto.

Gli Zombie siamo noi!
I conflitti nel gruppo sono l'espressione di una società carica di conflitti. Ed è l'escalation di questi conflitti che trasforma i sopravvissuti nei mostri che in realtà si nascondono al di fuori del gruppo sotto forma di zombie. Che si tratti della giusta strategia di difesa ne "La notte dei morti viventi", dell'imminente stupro di una minorenne da parte dei soldati in "28 giorni dopo", o dei combattimenti con bande di predoni in "Dawn of the Dead": l'escalation di conflitti all'interno dei sopravvissuti, porta sempre a far sì che gli zombie possano essere in grado di sfondare le loro difese. Nel gioco d'avventura "Telltale" - basato sulla popolare serie TV sugli zombie The Walking Dead - questi conflitti tra i "Sopravvissuti" vengono sviluppati in modo da diventare un elemento centrale del gioco: il giocatore deve schierarsi riguardo quelle che sono le continue liti tra i membri del gruppo, in cui a essere in gioco sono spesso delle vite umane. «Dove sono i veri mostri, qua dentro o là fuori?»; è questa la domanda che si pone uno dei sopravvissuti allorché i membri del gruppo trincerato in un negozio di alimentari vogliono liberarsi di un bambino consegnandolo agli zombie perché credono che sia stato morso. «Loro siamo noi!», dice uno dei protagonisti di "Dawn of the Dead" di Romero, riferendosi a tutti gli zombie che continuano incessantemente ad affluire davanti al centro commerciale chiuso a chiave dove i sopravvissuti si sono barricati. «Gli zombie, questi siamo noi». Così, ecco che alla fine, il non morto visualizza tutte le mutilazioni che la vita nel tardo capitalismo ha inflitto all'individuo, fino a che tutto è entrato in dissoluzione, spazzato via dal costante bombardamento dell'industria culturale. Come diceva Adorno, riferendosi al soggetto deforme nel teatro dell'assurdo di Beckett, lo zombie visualizza solo «ciò che il mondo ha fatto di noi». Qui, attraverso i non morti, vengono resi visibili quelli che sono dei «monconi di persone, queste persone che hanno effettivamente perso il loro ego» (Adorno), culturalmente deformati. L'interiorità danneggiata dell'essere umano moderno, "ridotto", mutilato dai mass media e che confonde il consumo con la libertà, trova la sua espressione e la sua realizzazione nell'immagine dello zombie. Lo zombie, rappresenta ciò che il sistema fa di noi. Il protagonista di "Land of the Dead" (2005) di Romero esprime questa dimensione zombie della vita, espressa negli atomi sociali postmoderni del tardo capitalismo, quando osserva le attività quotidiane degli zombie: «Non è quello che facciamo anche noi, fingendo di essere vivi?». Questa sensazione di totale alienazione, di vuota "vita illusoria" nel tardo capitalismo, la si ritrova anche nella letteratura contemporanea, per esempio in un romanzo di recente pubblicazione di Thomas Martini, "Clown ohne Ort":   «I tempi sono così devastantemente vuoti che ci manca l'aria per respirare, figuriamoci per urlare o protestare. Tutto è solo una facciata, una squallida e sbrilluccicante necessità.». Non è forse questa una descrizione adeguata della vita interiore di una persona morta vivente? Nella forma delle sue caratteristiche esterne, quelle espresse dallo zombie, sono le nostre mutilazioni interiori. In "Dawn of the Dead" (1978) di Romero, questo potenziale sovversivo del film di zombie, nel quale, in ultima analisi, lo specchio riflette lo spettatore, è stato sfruttato con una perfezione senza precedenti. In molte scene, il film traccia chiari parallelismi tra i non morti nel centro commerciale e i normali consumatori, ciò soprattutto a partire dal fatto che anche quelli che nel film sono sopravvissuti entrano in una vera e propria frenesia di shopping. Il consumo dissennato a cui siamo incoraggiati quotidianamente trova la sua perfetta parodia negli zombie dei centri commerciali.

Zombie consumatori
Lo zombie qui funziona come un'allegoria ambulante del consumatore alienato, "svuotato" e mentalmente mutilato. Lo "zombie consumatore" che crede di poter esprimere la sua individualità attraverso la corretta scelta del marchio. Questo momento sovversivo emerge anche nel gioco per computer di "The Walking Dead", dove c'è un puzzle che consiste nell'accendere i televisori di un negozio di elettronica per distrarre gli zombie per strada. Tuttavia, la figura dello zombie non trasmette solo una critica dei mass media, dell'onnipotenza dell'onnipresente industria culturale e al consumismo disinibito. Tuttavia, la figura dello zombie non si limita solo a veicolare una critica ai mass media, all'onnipotenza dell'onnipresente industria culturale e al consumismo sfrenato. In molti film di zombie, vengono tracciati dei paralleli tra i non-morti e le dinamiche di potere nei gruppi autoritari e nelle aree della società nelle quali gli individui rimangono letteralmente intrappolati, in una dialettica di sottomissione e di eccesso autoritario: da un lato, nei film di zombie, i membri dell'apparato militare e di polizia si lasciano spesso andare a bestiali atti di violenza (Dawn of the Dead, 28 Days Later); mentre dall'altro, negli stessi film di zombie, le bande e le comunità agiscono continuamente in maniera particolarmente brutale (Dawn of the Dead, Land of the Dead). È significativo che l'unico sopravvissuto nero della "Notte dei morti viventi" venga colpito da un membro della milizia bianca. I soldati che in "28 giorni dopo"mettono in sicurezza una fattoria contro l'avanzata dei non morti, dopo vogliono ricostruire la "civiltà", trasformando le donne presenti in schiave sessuali. All'inizio de "L'alba dei morti viventi", mentre i membri della milizia danno la caccia agli zombie, un membro razzista della SWAT impazzisce. Negli zombie movie, perciò, non c'è solo la critica allo "zombie consumatore", ma anche al soggetto in divisa, allo zombie poliziesco e militare, il quale cerca di compensare la propria sottomissione a un rigido regime di ordini attraverso eccessi nei confronti dei subordinati. Ed è proprio questo riflettersi delle strutture di potere scatenate ad essere di grande attualità alla luce dell'erosione permanente degli standard democratici a opera dello Stato di polizia e del rapido proliferare di “Stati falliti”. Il film sugli zombie descrive l'imminente erosione, indotta dalla crisi, del processo di civilizzazione che si svolge tra le rovine di uno Stato di polizia e di sorveglianza in fase di degenerazione, da un lato, e il dominio delle bande e del racket che si diffonde in tempi di crisi nelle aree di guerra civile e di collasso economico, dall'altro. Lo zombie può così esprimere l'impotenza degli individui nelle strutture sociali autoritarie o eteronome che li rendono all'apparenza privi di volontà. Vediamo come, in molti "stati falliti", alcuni membri delle milizie e delle bande senza speranza stabiliscano un regno anomico di terrore, mostrando una brutalità decisamente zombie. È noto il caso del "Cannibale di Qusayr", un leader islamista nella guerra civile siriana che davanti alla telecamere ha mangiato il cuore di un nemico ucciso. In questo atto perverso, che nella scia del crollo dello Stato siriano segna il punto più basso dell'abbrutimento, il film dell'orrore sembra fondersi con l'orrore della crisi sistemica capitalistica.

Zombie e lotta di classe
A tutto questo si aggiunge la paura dell'insurrezione, la rabbia cieca delle masse di persone, declassate ed emarginate nel tardo capitalismo, che viene elaborata nel film sugli zombie. Lo zombie rappresenta così anche l'odio di tutti coloro che sono effettivamente esclusi dai centri commerciali, e la cui frustrazione vediamo sporadicamente articolarsi in rivolte e saccheggi nei ghetti. Là fuori è «come in 28 giorni dopo» - durante le rivolte giovanili del 2011 in Gran Bretagna, quando i bambini emarginati molestati dalle forze di sicurezza hanno iniziato a prendere semplicemente tutti i prodotti di consumo irraggiungibili che vengono loro inculcati ogni giorno su tutti i canali - era diventato un detto popolare. Nello zombie, quindi, possono essere personificate anche tutte le paure retrograde e reazionarie delle classi medie relative al rovesciamento delle condizioni esistenti, messe in atto dalle masse dei declassati e degli emarginati. «È iniziato con le rivolte»: ecco come viene descritta, in "28 giorni dopo", la fase iniziale dell'apocalisse zombie innescata da un'infezione. Tuttavia, in quella che è la sua ambivalenza simbolica, lo zombie può anche essere stilizzato come soggetto rivoluzionario. Il progressivo confronto con le contraddizioni di classe e le crescenti contraddizioni sociali nel tardo capitalismo, viene portato agli estremi in "Land of the Dead" (2005) di Romero. In nessun altro film gli zombie appaiono così "umani" come in "Land of the Dead". Sono in grado di usare strumenti, svolgere la loro occupazione originaria, comunicare, riescono a imparare e possono organizzarsi per poter rovesciare il sistema oligarchico che è stato costruito dalla ricca classe superiore di una città circondata da fiumi e protetta da recinzioni elettriche. In quello che appare come un appello, solo superficialmente celato, alla lotta di classe e alla solidarietà antimperialista, la ricca borghesia viene divorata, mentre i sopravvissuti dei ghetti della città concludono una sorta di tregua con gli zombie, trovando una convivenza: «Vogliono solo vivere in pace, da qualche parte, proprio come noi», spiega un sopravvissuto che si rifiuta di lanciare razzi contro i non morti che si stanno ritirando.

Gli zombie nazisti devono morire!
Lo zombie, non solo può fungere da allegoria della crescente divisione sociale e dell'inasprimento della lotta di classe nel tardo capitalismo, ma con la figura dello zombie nazista il genere ha creato un perfetto commento cinematografico riguardo l'ascesa, indotta dalla crisi, del neofascismo e dell'estremismo di destra. Niente simboleggia la rinascita di un'ideologia nazista arcaica e disumana meglio di quei cadaveri ambulanti di SS e di soldati nazisti in decomposizione come quelli che, per esempio, in un remoto capanno nella foresta, si avventano su un gruppo di giovani studenti, nel film norvegese "Dead Snow". Oltre al film norvegese "Dead Snow", in cui gli zombie nazisti vengono associati all'occupazione tedesca della Norvegia, c'è anche lo sparatutto "Sniper Elite – Nazi Zombie Army" in cui, contro il giocatore, viene scatenata una tempesta di nazisti. Naturalmente, i film di zombie sono un genere apocalittico dove appare la premonizione che ci mette in guardia sul fatto che l'ordine sociale dato non può più durare, e sta per raggiungere quelli che sono i suoi limiti di sviluppo. La prima grande ondata di zombie aveva travolto l'industria culturale occidentale durante il periodo di crisi degli anni '70, quando si era conclusa "l'età dell'oro" del capitalismo del dopoguerra, caratterizzato dalla piena occupazione e dai consumi di massa. L'apocalisse zombie veniva così a far parte di una crescente produzione di beni culturali apocalittici e distopici in tempi di crisi, nei quali venivano elaborati i crescenti sconvolgimenti sociali causati dalla crisi stessa: questo è il caso, tanto di questi ultimi anni, quanto degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta del XX secolo.

L'apocalisse zombie
Tuttavia, lo scoppio dell'apocalisse zombie evoca anche il timore della perdita della capacità di integrazione da parte del capitalismo, ovvero della scomparsa di quei vincoli libidici (Freud) che tengono insieme la formazione sociale e che sono costantemente minati dall'attuale sistema tardo-capitalistico. L'attacco zombie rappresenta il momento di panico nel quale scompaiono tutti i legami sociali tra l'individuo e il gruppo e ciò si trasforma in disintegrazione - ad esempio, quando si scatena il panico su un aereo in fase di atterraggio d'emergenza, o quando le persone in uno stadio affollato iniziano a calpestarsi a vicenda fino alla morte. Momenti o periodi di panico possono verificarsi anche in seguito a disastri naturali, come l'alluvione di New Orleans.Il sistema capitalista, in agonia, produce costantemente panico - non solo attraverso l'abbondanza di film apocalittici e di altri prodotti culturali catastrofici. Il sistema si sforza costantemente di sradicare tutti quei legami tra le persone che non sono basati sulla concorrenza e sulle relazioni di mercato tra soggetti merceologici. Le riforme Hartz IV ne sono un esempio lampante. Il costrutto Hartz della “comunità di bisogno”, antisociale, è stato introdotto con l'intento specifico di forzare l'atomizzazione sociale dei lavoratori salariati, i quali in futuro dovranno stare attenti a non entrare in relazione con qualcuno appartenente alla “comunità di bisogno” e che potrebbe diventare un peso finanziario. Questi atomi sociali, spinti alla concorrenza a 360 gradi, perdono gradualmente i loro legami libidici con una società che è stata trasformata in un sistema spietatamente competitivo; diventano suscettibili al panico che si manifesta nel momento in cui tutti i legami sociali interiorizzati si dissolvono e i membri della società si trasformano in una fuga cieca, in una lotta cieca di tutti contro tutti.

Gli zombie e l'industria culturale
Nel caso dell'analisi dei prodotti dell'industria culturale, l'aspetto più interessante consiste proprio nel fatto che essi rimandano in ultima analisi alla società in cui sono stati creati. Le contraddizioni, le paure e le ossessioni che il capitalismo in crisi produce, si manifestano nei prodotti dell'industria culturale, sebbene in una forma non riflessa e frammentata che necessita di essere decodificata. Le buone recensioni di un film, si occupano proprio di questo sottotesto sociale. La trama può sembrare noiosa, l'estetica scialba e gli attori legnosi; eppure, tuttavia le opere dell'industria culturale esprimono inconsciamente le condizioni di produzione in cui sono state realizzate.  Un esempio: il ritmo frenetico o l'iperattività che abbiamo descritto all'inizio, di cui attualmente soffrono molti “zombie”, è espressione di una tendenza generale all'accelerazione sociale nel tardo capitalismo, come descritto dal sociologo Hartmut Rosa: «Rosa, distingue tra l'accelerazione tecnica, l'accelerazione del cambiamento sociale e l'accelerazione del ritmo di vita», spiega Spiegel-Online. Ovviamente, la crescente “accelerazione” del metabolismo della società che il sociologo rileva è solo un'espressione della crescente concorrenza provocata dalla crisi, in cui vengono aumentati orari di lavoro e intensità della manodopera, mentre si abbreviano i cicli dei prodotti. I ritmi frenetici e la corsa al lavoro, che inducono un numero sempre maggiore di dipendenti al burnout, hanno pertanto colpito anche gli “zombie”, ai quali l'industria culturale non vuole più concedere un attimo di respiro, né una pausa, neppure dopo la loro fine. Lo “zombie” degli anni '70 poteva ancora essere fermato dal consumo e dal commercio, mentre gli “zombie” del XXI secolo sono segnati da una crescente concorrenza di crisi.

Lo zombie in quanto fenomeno di crisi
Il non-morto, con le sue caratteristiche mutevoli, rappresenta pertanto una concretizzazione di fenomeni sociali astratti e di contraddizioni che di solito non vengono trattati dai mass media. Il genere del film sugli zombie non solo può riflettere alcune aberrazioni e contraddizioni sociali specifiche che attualmente dilagano a causa della crisi, come la de-individualizzazione, l'alienazione, il razzismo, l'inasprimento degli antagonismi di classe o le tendenze alla disgregazione sociale. La figura dello zombie possiede una qualità che la rende una perfetta rappresentazione allegorica dello stato attuale della formazione sociale tardo-capitalista, proprio per il suo stato di apparente sopravvivenza. Anche gli zombie “sterili”, che appaiono in massa in World War Z, veicolano un commento sarcastico circa la situazione attuale dell'intero sistema mondiale capitalistico. Gli zombie abitano spontaneamente in un sistema di zombie apparentemente vivente. Analogamente al rapido moltiplicarsi delle banche zombie, le quali vanno tranquillamente avanti nonostante siano di fatto insolventi, essendo che è il sistema, nel suo complesso, ad aver perso da tempo la propria base imprenditoriale. Il fondamento del capitalismo - della “società del lavoro” capitalistica - è il lavoro salariato. Ma è proprio questa sostanza del capitale che sta sempre più venendo meno per il sistema nel suo complesso, come è dimostrato dall'esplosione della disoccupazione nell'Europa meridionale. È come se il lavoro salariato stesse prosciugando la linfa vitale del sistema, che si sta rompendo a causa delle sue crescenti contraddizioni, provocate da un livello di produttività che sta facendo esplodere i rapporti di produzione capitalistici, lasciando dietro di sé un'immensa miseria e barbarie. Eppure, nonostante il crollo, sembra esistere anche la normalità. Mentre nel mondo arabo infuriano le guerre civili, e quasi due terzi dei giovani in Spagna o in Grecia sono disoccupati, in Germania, per esempio, si mantiene ancora la facciata di una società lavorativa intatta. Questa vita precaria e illusoria, che il capitalismo conduce ancora nei centri del sistema, è dovuta all'aumento del debito degli ultimi decenni. Il credito, la valorizzazione fittizia del capitale sui mercati finanziari, ha sostituito l'accumulazione reale di capitale nella produzione di beni in quanto motore centrale del sistema. Le montagne di debito che si accumulano ovunque, non sono altro che l'espressione di questa crisi della società del lavoro capitalista, in cui il sistema non morto divora nel presente, a colpi di credito, il suo futuro , perché non ne ha più uno. Lo zombie incarna alla lettera questo stato di crisi, dove il sistema basato sullo sfruttamento della forza lavoro è ormai già morto, e tuttavia può ancora fingere di essere vivo grazie al credito; l'anticipazione di un futuro immaginario. L'industria culturale sta sfruttando l'idea secondo la quale, nell'attuale inflazione zombie, viviamo in un mondo apparentemente vivo, e di zombie. Questa sorta di natura zombie del tardo capitalismo, viene portata all'estremo nella Repubblica Federale Tedesca, che ha esternalizzato all'estero i processi di indebitamento necessari a mantenere la facciata sana della società del lavoro in questo Paese, grazie agli enormi surplus commerciali e delle partite correnti della Germania. Senza le montagne di debito che rendono possibili le eccedenze delle spese correnti tedesche, la Repubblica Federale sarebbe già sprofondata già da anni nella recessione. In nessun altro luogo gli zombie della società del lavoro in decomposizione sono più vivi che in Germania.

- Tomasz Konicz - Pubblicato su Streifzüge, 03.08.2017 -