Il lavoro
- di Roger Belbéoch -
Per tutti, il lavoro rappresenta la maggior preoccupazione, sia che gli si dedichino tutte le proprie energie, come vuole la morale, sia che si voglia sfuggirgli, in quanto attività faticosa e noiosa. Da diversi decenni "il bambino" è stato ritirato dal circuito produttivo, ma questo non significa che rimanga estraneo al lavoro. In definitiva, tutta l'istruzione rimane solo un apprendistato in quello che è il proprio ruolo di futuro produttore. Nei genitori, la preoccupazione dominante è quella di sapere quale posto occuperà il figlio nella produzione, senza preoccuparsi molto dello stato in cui ci arriverà. Ed è pertanto in relazione al lavoro che, per noi, si deve giudicare una società o un progetto di trasformazione sociale. La prima osservazione che va fatta riguarda le stesse parole che vengono usate. In tutte le società a noi vicine, esistono molte parole per designare questo genere di attività: fare, produrre, lavorare, costruire, ecc. A volte viene persino aggiunto il nome dell'oggetto trasformato, ma non sempre è necessario. Inoltre, man mano che le nostre società si sviluppano questo è diventato sempre meno necessario, poiché è solo l'attività che sembra avere un interesse, o un significato. Abbiamo pochissime parole che designino sia l'attività di trasformazione che l'oggetto trasformato, e queste parole tendono a scomparire dal linguaggio. La struttura analitica del nostro linguaggio riflette e rafforza la separazione del lavoro, ci mantiene in una condizione di pensare nella quale questa separazione viene ritenuta (quando non è semplicemente inconscia) come se fosse un fatto naturale, quasi biologico del genere umano. E' quindi per noi assai difficile uscire da un simile quadro e immaginare una società in cui tale separazione non esista. Tuttavia, non c'è nulla di naturale in questa separazione. Alcune società non l'hanno mai adottata come base per le loro strutture. In esse, non vi ritroviamo quelle parole generali che designano l'attività produttiva indipendentemente dagli oggetti prodotti. Il loro linguaggio riflette piuttosto una vita nella quale produzione e prodotti non sono separati. Naturalmente, si dice che queste società sarebbero primitive. Non si tratta di prendere questa o quella tribù indiana o africana come modello sociale perfetto. Quando ne parliamo, si tratta piuttosto di rendersi conto che gli uomini hanno creato un gran numero di strutture sociali assai diverse. Ragion per cui, non siamo perciò limitati da quelle che sarebbero leggi naturali fondamentali. Il lavoro, nella forma che conosciamo, è essenziale per il "buon" funzionamento della nostra società. L'ideologia, quali che siano i suoi aspetti, tende a convincerci della normalità di questa attività. Oggi, sta trovando sempre più difficile svolgere il suo ruolo, perché mentre la nostra società "migliora" e razionalizza questa attività, la reazione normale degli individui diventa sempre più quella di rifiutarla. Per molto tempo abbiamo cercato di convincere le persone che il lavoro era il fondamento della virtù, dell'onestà, della rispettabilità, dell'equilibrio. Era ed è sempre più spietatamente separato dal piacere. Pertanto, l'enorme desiderio che i bambini hanno dentro di sé di scoprire, di conoscere, di integrarsi con tutti i loro sensi negli oggetti che li circondano, di legare la loro attività utilitaristica alla totalità della loro vita quotidiana, questo desiderio deve essere rapidamente spezzato. Di questo, se i genitori non l'hanno già fatto, se ne occupa la scuola. Ma al momento i risultati non sono granché, e i problemi di rifiuto diventano sempre più evidenti; la società rischia di esaurire le pattumiere in cui infilare tutti i suoi squilibrati. Tuttavia, sebbene sia sempre più violenta, la rivolta non riesce ancora a liberarsi facilmente del quadro ideologico che per secoli abbiamo dovuto sopportare. E' pronta ad adattarsi all'illusione tecnocratica, a patto che quest'ultima ci metta un po' di buona volontà. Il godimento che il lavoro dispensa in tutte le società industriali - o in quelle che aspirano a diventarlo - può esistere solo attraverso l'intermediazione del denaro. L'operaio non beneficia mai direttamente del suo lavoro, egli può trarre profitto solo dalle merci che compra con il suo denaro. Più la società si perfeziona, più complicato e incomprensibile diventa il circuito tra il godimento e l'atto produttivo. I mestieri, con il loro cortocircuito, tendono a scomparire. Il divertimento viene sempre rimandato. Il presente è sempre meno interessante, conta solo il futuro. La vita è sempre più divisa in momenti il cui le uniche relazione si basano sul denaro. In questa società, godere di più significa lavorare di più, vale a dire, annoiarsi sempre più nel presente, per poi godere dopo, ma questo dopo non arriva mai a esistere. In tali condizioni, la reazione normale e salutare è quella di rifiutare ogni lavoro, a favore di quei godimenti immediati che escludono ogni sforzo produttivo. Ciò a cui assistiamo è una marginalizzazione totale o parziale rispetto al lavoro, che richiede uno sforzo produttivo sempre maggiore. Rispetto a questo, per prima cosa, va notato che non si tratta di un atteggiamento nuovo. In definitiva, in passato si è trattato della mentalità del rentier, il redditiere che, riducendo i propri bisogni, risparmiava il più possibile per poi poter trascorrere parte della propria vita senza lavorare. Solitamente, la parziale emarginazione dal lavoro viene accompagnata dallo sviluppo di un'ideologia che arriva alla convinzione secondo cui, nella nostra società (industriale), potremmo vivere lavorando molto meno, riducendo massicciamente gli sprechi ed eliminando le attività non necessarie (spese militari o altro). Alcuni immaginano che le macchine possono funzionare senza l'intervento umano, sotto il controllo dei computer, ma si tratta di una visione ultra-tecnocratica del mondo, la quale fa da cassa di risonanza a certi scienziati che, come se fossero dei banditori, chiedono qualche soldo in più promettendo di mostrare cos'è che sanno fare. È questo il programma di tutti i partiti politici di sinistra: sviluppare la tecnologia senza limiti (verrà presa qualche precauzione per non distruggere l'ambiente, sono moderni e conoscono i problemi ecologici!) e ridurre l'orario di lavoro. Queste idee si basano sul principio che ogni e qualsiasi lavoro, ogni sforzo produttivo, sia noioso (soddisfacendo così la nostra natura) e che possiamo produrre ciò di cui abbiamo bisogno solo in modo industriale (e così le fondamenta della nostra società vengono mantenute). In un equilibrio meraviglioso. Dal momento che non possiamo eliminare completamente il lavoro, allora lo ridurremo, e cercheremo anche di renderlo un po' meno noioso attraverso delle tecniche di rotazione delle attività. Ma tuttavia manterremo quello che è l'essenziale dell'attuale struttura industriale; anzi, meglio ancora, lo svilupperemo senza ostacoli (non ci sarà più lotta di classe). Tutto ciò presuppone che il male non provenga dal lavoro (industriale) in sé, ma dalla sua organizzazione e dal suo scopo (gli armamenti sono cattivi; i mulini, i computer, i telefoni possono invece essere buoni).
E se si trattasse di una malattia derivante dal lavoro (industriale) stesso? In questo caso, le rivoluzioni proposte dovrebbero porre fine al periodo di incubazione della nostra malattia; possiamo essere certi, quindi, che dopo queste rivoluzioni la nostra malattia si svilupperebbe in modo fulmineo. Si aprirebbe un futuro radioso per i guaritori di ogni tipo! Alla fine, ciò che è fastidioso del nostro lavoro non è lo sforzo fisico o intellettuale che esso implica, ma la nostra relazione con questo sforzo. Nel momento in cui ne traiamo un godimento immediato, senza che ci sia il denaro a confonderci, se questo lavoro appare intimamente legato agli altri nostri godimenti per tutti i nostri sensi, se usiamo ciò che produciamo via via che procediamo, non diciamo mai che stiamo lavorando. Se ciò che produciamo non viene integrato direttamente nella nostra vita, ma viene scambiato attraverso relazioni sociali dirette e piacevoli, allora lo scambio non ha nulla a che vedere con la compravendita di beni in un negozio (dove conta solo il denaro). Perciò, la soluzione radicale ai nostri mali non è quindi la riduzione dell'orario di lavoro, quanto piuttosto il suo cambiamento. E questo cambiamento non può essere previsto in nessuna forma in una società basata sulla tecnologia industriale, dal momento che essa implica sempre una divisione delle attività (che questa divisione sia spinta o meno fino all'assurdo, può conferirle vari aspetti senza tuttavia modificarne fondamentalmente le conseguenze). In ogni caso, la divisione del lavoro e la sua separazione dalla vita necessitano di meccanismi di misurazione dell'attività produttiva (il denaro è il più semplice) che non siano il piacere che il produttore trae dai prodotti, cosa che separa inesorabilmente il produttore dai suoi prodotti, gli uomini dagli oggetti. Le cosiddette tecniche soft, se sono interessanti, non è perché non inquinano, ma perché possono riguardare la scala delle conoscenze, del know-how e delle possibilità di un individuo o di un piccolo gruppo di individui legati da relazioni sociali solidali. Se invece una tecnologia, chiamata soft, richiede l'arrivo di specialisti per allestire l'impianto o migliorarne le prestazioni attraverso dei mezzi che la comunità non è stata in grado di concepire, se poi questi specialisti scompaiono una volta che l'impianto è in funzione, allora ecco che tutto questo non è più interessante di un filtro che è stato posto sulla ciminiera di una fabbrica al fine di evitare di sommergere di polvere le popolazioni del quartiere. È facile immaginare che la nostra società industriale, avendo esaurito le sue risorse energetiche (petrolio, carbone, uranio, ecc.), installi dei giganteschi impianti a gas metano (o energia solare), migliorando l'efficienza di questi impianti grazie a degli sviluppi sempre più complessi, dopo studi sempre più frammentari. Se l'agrobiologia si accontenta di produrre cibo senza impoverire il suolo e senza distruggere l'ambiente (l'ambiente turistico, è una compensazione necessaria per evitare uno squilibrio troppo brutale nelle nostre stupide vite), verrà rapidamente assorbita dalla nostra società. Gli uomini lavoreranno su una catena di montaggio nelle fabbriche biologiche, invece di lavorare su una catena di montaggio nelle fabbriche chimiche. Non c'è nulla di miracoloso nella biologia (o nella scienza biologia). Concepita in questo modo, è solo l'estensione dell'attitudine scientifica e tecnica che, esaurito il fascino della fisica e della chimica, ora è pronta ad adattarsi per poter setacciare altri campi. In tal modo la vita potrebbe essere "più sana", ma altrettanto noiosa. L'essenziale, è conciliare i desideri dell'individuo con gli sforzi che deve fare per ottenere i materiali necessari per la sua vita. Coltivare in modo diverso, senza cambiare il rapporto dell'individuo con la terra, non cambia molto riguardo le nostre difficoltà. In tutti i tempi e in tutte le società (anche nella nostra), gli uomini hanno cercato di avere relazioni di tipo non produttivo con i prodotti che essi fabbricano, o con gli strumenti che utilizzano. Ma questo genere di rapporto costituisce un freno alla produttività; la forza motrice essenziale di ogni società tecnica. Se il meccanico controlla la finitura del suo pezzo al tatto, sviluppando in tal modo dei rapporti sensuali immediati (senza intermediari) con il materiale, egli sta perdendo tempo (e sviluppa così delle cattive abitudini). Ecco che allora su di esso verrà incollato un dispositivo di misurazione: la finitura apparirà sotto forma di un numero, con il quale, qualunque sia la sua immaginazione, egli non avrà alcuna relazione concreta. Se l'agricoltore cerca di valutare la qualità della sua terra attraverso il tatto, l'olfatto e il gusto (non dobbiamo dimenticare che anche i nostri sensi sono potenti mezzi di analisi), dovrà aspettarsi una produttività inferiore rispetto a quella che avrebbe se affidasse tale operazione a un laboratorio di analisi. Ma, attraverso le analisi chimiche (o biologiche), egli rimarrà del tutto estraneo al suolo e alle piante che produce. Quando un contadino parlava una volta della "sua" terra, non intendeva solo un rapporto di proprietà privata. ed ecco che così, ora, invece di andare nei campi, va a lavorare. È diventato un estraneo alla sua terra, un lavoratore come tutti gli altri. A porre l'uomo, in un rapporto armonioso con gli oggetti e gli esseri che lo circondano sono le relazioni sensuali. È solo attraverso queste relazioni che possiamo comprendere il mondo esterno, cioè prendere coscienza, in questo mondo, della necessità di certe interazioni tra gli oggetti (e gli esseri). Le "spiegazioni" scientifiche che ci possono essere date non spiegano nulla, dal momento che esse sono astratte e non sono percepite dalla totalità del nostro corpo. Le leggi scientifiche possono essere solo accettate ma mai comprese, hanno solo un valore operativo tra oggetti (o esseri) che a noi sfuggono, perché la necessità delle interazioni che cercano di tradurre non è sensorialmente impressa nel nostro corpo. Non appena questa comprensione degli oggetti e degli esseri viene eseguita a partire dai nostri sensi, il nostro atteggiamento cambia completamente, diventiamo rispettosi nei loro confronti. Ovviamente, non si tratta di un sentimento di sottomissione agli oggetti, agli altri, ma del riconoscimento, da parte dei nostri sensi, delle proprietà proprie di un oggetto o di un essere. Come possiamo sperare di rispettare gli altri - di non essere in rapporti permanenti di competizione o di produttività con loro - se non abbiamo questi relazioni di rispetto e di adattamento con gli oggetti che ci circondano? Ciò che è essenziale, quindi non è ridurre lo sforzo, ma introdurre questo sforzo nella nostra vita sensuale e psicologica, senza intermediari astratti, siano essi il denaro (o qualsiasi altro mezzo di misurazione dell'attività produttiva), numeri o macchine, i cui meccanismi sono troppo complessi per poter essere appresi dai sensi di una sola persona. Ciò che rende la bicicletta così attraente è la straordinaria semplicità del suo design. Attraverso i propri muscoli, tutti sentono semplicemente quella che è la stabilità di questa macchina. La matematica che "spiegherebbe" questa stabilità e la facilità di guida, è terribilmente complicata, e non interessa a nessuno (tranne che ai matematici) perché una bici è direttamente comprensibile. La tecnologia ha le sue proprie dinamiche (attraverso l'intermediazione dei suoi tecnici). Se accettiamo una tecnologia molto complessa, che richieda un lungo apprendistato specialistico per poi acquisirne alla fine solo una piccola parte, è inimmaginabile che essa possa essere controllata dalla società nel suo insieme, se non per mezzo di relazioni gerarchiche, le quali avranno un forte impatto su tutte le relazioni sociali. E pertanto non sarà quindi in grado di svilupparsi in stretta corrispondenza con i desideri di tutti.
Non si tratta di proibire totalmente la tecnica, e di tornare alla vita naturale nelle grotte. Ma il rapporto tra uomo e tecnologia deve cambiare. Abbiamo bisogno di una tecnologia senza tecnologi, senza conoscenze specialistiche. Una tecnica dovrebbe essere sviluppata solo se viene percepita da tutta la comunità a cui viene collegata come una necessità vitale. Questo è possibile, naturalmente, solo se tutti gli individui della comunità ne possono controllare tutti gli aspetti. Tutti coloro che prendono parte a quello che è l'abbrutimento quotidiano e massiccio degli individui, tutti coloro che distruggono ciò che è vivo nei bambini per ridurli allo stato di animali domestici, coloro i quali non hanno nulla da trasmettere, se non dei riflessi condizionati; tutte queste persone vogliono farci credere che gli uomini possono vivere solo perché esistono alcune persone illuminate e dotte che si sono fatte carico dell'orda di cretini e di imbecilli incapaci che siamo. Le nostre società sembrano aver rinunciato ad avere certe strutture sociali non gerarchiche a favore di uno sviluppo rapido e incontrollabile della tecnologia che, fornendo certe comodità, le ha portate sempre più ad abbandonare le relazioni sociali libere e la vita collettiva. Ma c'è stato bisogno di molto tempo per liberarsi dalla nostalgia di queste relazioni con i materiali e gli esseri viventi. Ogni tanto (e sempre più raramente) troviamo ancora un gesto o un atteggiamento che ci rimanda a queste relazioni. Ma se questi gesti diventassero consapevoli, sarebbero altamente sovversivi. Bisogna svuotarli di ogni significato, indirizzandoli verso attività separate dalla vita quotidiana: il tempo libero, il bricolage, l'attivismo. Questo serve a mantenere l'equilibrio minimo necessario per la vita, e non costituisce un pericolo per le strutture sociali. Se si piantano fiori dopo la fabbrica o l'ufficio, lo si fa indossando guanti, perché la terra è sporca; se si costruiscono mobili, si ricopre sprezzantemente il legno con brutta plastica. Se l'organizzazione sociale rende loro la vita impossibile, troveranno posto nei partiti politici, nei sindacati e in ogni altro tipo di gruppo organizzato, dove potranno agitarsi, ma l'unica speranza che resterà loro è quella di sostituire un giorno i loro padroni che li fanno arrabbiare. Ma soprattutto, non abbiamo il desiderio di vivere una vita completa, integrata in tutto ciò che ci circonda, per trovare gesti di rispetto verso gli altri. Bisogna distruggere tutte le macchine, tranne quelle che possiamo rispettare, vale a dire, capire. Non avremmo più robot meccanici, elettronici o umani a nostra disposizione; probabilmente la fatica sarebbe maggiore, ma non saremmo più obbligati a lavorare. Affrontare questo tema del lavoro è assai difficile, dal momento che siamo talmente immersi nella mistica del lavoro che ora, nella nostra rivolta, rischiamo di far riapparire, sotto una nuova veste, la vecchia ideologia. Ed è forse proprio questo ciò che ho fatto scrivendo questo articolo con il pretesto di denunciare l'illusione tecnocratica, e ho ceduto alla tentazione di far rivivere, in una forma più nuova, la virtù del lavoro.
State attenti !
- Roger Belbéoch (Fisico antinucleare) (1928-2011) - Articolo pubblicato sulla rivista Survivre... e Vivre n°16, primavera-estate 1973, p. 16-22 -
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