La forza-lavoro come merce sul mercato
Prendiamo il processo di circolazione in una forma nella quale esso si presenti come puro e semplice scambio di merci. Questo caso si verifica ogni volta che i due possessori di merci comprano l’uno dall’altro e la bilancia dei loro reciproci crediti si pareggia il giorno dei pagamenti. Qui il denaro serve da moneta di conto, per esprimere i valori delle merci nei loro prezzi, ma non si contrappone fisicamente {nella figura del denaro sonante}, come cosa {in sé}, alle merci stesse. Ora, per quanto riguarda il valore di uso, è chiaro che entrambi i permutanti possono guadagnare. Tutti e due alienano merci che, in quanto valori di uso, sono per loro inutili e ricevono merci di cui hanno bisogno per uso proprio. E questo vantaggio può non essere l’unico. A, che vende vino e compera granaglie, produce forse più vino di quanto il contadino coltivatore di cereali B potrebbe produrre nello stesso tempo di lavoro, e il coltivatore di cereali B produce forse più granaglie nello stesso tempo di lavoro di quanto il vignaiolo A potrebbe produrre. Dunque, per lo stesso valore di scambio, A riceve più granaglie, e B più vino, che se ognuno dei due, senza scambio, fosse costretto a produrre vino e granaglie per sé stesso. Così, in riferimento al valore di uso, [e quindi pure all’utilità], si può dire che «lo scambio è una transazione nella quale i due contraenti guadagnano». Diversamente invece stanno le cose per il valore di scambio. [«Un uomo che dispone di molto vino e non ha punto grano, commercia con un altro uomo che possiede molto frumento e non ha vino: tra di loro si scambiano 50 quantità di grano per 50 quantità di vino. Questo scambio non rappresenta un aumento di ricchezza per nessuno dei due; perché ognuno di loro possedeva già prima dello scambio un valore uguale a quello che ha ottenuto con questa operazione» (PIERREPAUL [LE]MERCIER DE LA RIVIÈRE, L’ordre naturel … [1767], in Physiocrates … [1846], a cura di Eugène Daire, parte II, cit., pag. pag. 544).]
La faccenda non cambia, qualora il denaro, come mezzo di circolazione, si inserisca fra le merci e gli atti della compera e della vendita siano così separati l’uno dall’altro in modo sensibile. Il valore delle merci è espresso nei loro prezzi, prima che esse entrino nella circolazione, e quindi è il presupposto e non il risultato di questa. Da un punto di vista astratto, cioè a prescindere da circostanze accidentali, che non scaturiscano dalle leggi immanenti della circolazione mercantile semplice, oltre la sostituzione di un valore di uso con un altro, avviene in essa circolazione nient’altro che una metamorfosi, ossia un mero cambiamento di forma della merce. In mano allo stesso possessore di merci rimane lo stesso valore, cioè la stessa quantità di lavoro sociale oggettivato (o incorporato), prima nella figura sua propria di merce, poi nella forma di denaro in cui essa si converte, infine nella forma di prodotto altrui (merce) in cui questo denaro si ritrasmuta. Questo cambiamento di forma della merce non implica una mutazione alcuna della grandezza di valore. (...) Se, dunque, rispetto al valore di uso, entrambi i permutanti possono trarre un guadagno, invece, rispetto al valore di scambio, entrambi non possono ottenerlo. Anzi, qui vale l'antico detto italiano: «Dove vi è egualità, non è lucro». È vero che le merci possono esser vendute a prezzi che divergono dai loro valori, ma questo divario si manifesta come una infrazione della legge dello scambio delle merci. Nella sua forma pura, lo scambio delle merci è uno scambio di equivalenti, e quindi non è un mezzo per l’incremento di valore e per l’arricchimento individuale. Perciò, dietro ai vani tentativi di rappresentazione della circolazione delle merci come fonte di plusvalore, sta in agguato perlopiù un quid pro quo, una confusione tra valore di uso e valore di scambio... Se, dunque, si scambiano merci, oppure merci e denaro, di uguale valore di scambio, cioè equivalenti, evidentemente nessuno estrae dalla circolazione più valore di quanto ve ne immetta. Quindi nella circolazione non ha luogo alcuna formazione di plusvalore. Nella sua forma pura, il processo di circolazione delle merci, determina uno scambio di equivalenti. Nella realtà, tuttavia, le cose non si svolgono allo stato puro. Supponiamo, perciò, uno scambio di non-equivalenti. In ogni caso, sul mercato delle merci si trovano di fronte solo possessore di una merce e possessore di un’altra merce; il potere che queste persone esercitano l’una sull’altra è soltanto il potere delle loro merci. La diversità materiale delle merci è il movente materiale dello scambio e rende i possessori di merci reciprocamente dipendenti l’uno dall’altro, in quanto nessuno di loro tiene in pugno l’oggetto del proprio bisogno e ognuno tiene in pugno l’oggetto del bisogno dell’altro. Oltre questa differenza materiale fra i loro valori di uso, alle merci non resta che un’altra sola differenza: la differenza tra la loro forma naturale e la loro forma trasmutata, la differenza tra merce e denaro. E così i possessori di merci si distinguono solo come venditore (possessore di merce) e compratore (possessore di denaro).
Supponiamo ora che, per un qualche inspiegabile privilegio, il venditore possa vendere la sua merce al di sopra del suo valore, p. es. a 110 lire sterline quando essa vale 100, ossia con un aumento nominale di prezzo del 10%. Dunque, il venditore incassa un valore in più di 10 lire sterline. Ma, dopo esser stato venditore, egli diventa compratore. Ora, sul mercato egli incontra un terzo possessore di merci, un altro venditore, il quale si appella a sua volta al privilegio di poter vendere la propria merce con un rincaro del 10%. Il nostro personaggio ha guadagnato prima 10 come venditore e ha perduto poi 10 come compratore. Il risultato definitivo si riduce, in realtà, al fatto che tutti i possessori di merci si vendono l’uno all’altro le loro merci il 10% al di sopra del loro valore, il che è esattamente la stessa cosa se tutti vendessero le merci al loro valore reale. Un tale rialzo di prezzo delle merci, nominale e generale, produce lo stesso effetto se, p.es., i valori delle merci fossero stimati in argento anziché in oro. I nomi monetari, cioè i prezzi nominali delle merci, si gonfierebbero, ma i loro rapporti di valore rimarrebbero invariati. Supponiamo, viceversa, per un altro ancora inspiegabile privilegio, il compratore possa comperare le merci al di sotto del loro valore. Qui non è neppur necessario ricordare che il compratore diventa in séguito di nuovo venditore. Egli era venditore, prima di diventare compratore. Ha perduto già il 10% come venditore, prima di guadagnare il 10% come compratore Tutto rimane come prima. La formazione di plusvalore, e quindi la trasformazione di denaro in capitale, non può spiegarsi né con il fatto che i venditori vendano le merci al di sopra del loro valore, né con il fatto che i compratori le comperino al di sotto del loro valore... Dunque, gira e rigira, il risultato è sempre lo stesso. Se si scambiano equivalenti, non si genera alcun plusvalore; se si scambiano non-equivalenti, neppur in tal caso si genera plusvalore. La circolazione, ossia lo scambio di merci, non crea valore alcuno... Si è visto che il plusvalore non può sorgere dalla circolazione, e quindi che nella sua genesi deve accadere qualcosa, prima e al di fuori della circolazione, qualcosa che è invisibile nella circolazione stessa. Ma il plusvalore può scaturire da qualcosa al di fuori della circolazione stessa? Dopotutto, la circolazione è la somma di tutti i rapporti di scambio reciproci fra i possessori di merci. Al di fuori della circolazione, il possessore di merce rimane solo ed è in relazione ormai soltanto con la propria merce. Per quel che riguarda il valore della merce, il rapporto si limita al fatto che essa contiene una quantum di lavoro del possessore stesso, misurata secondo determinate leggi sociali. Tale quantità di lavoro si esprime nella grandezza di valore della sua merce, e, siccome la grandezza di valore si rappresenta in moneta di conto, si esprime in un prezzo, p. es., di 10 lire sterline. Ma il lavoro del suo possessore non si rappresenta nel valore della merce e insieme in un’eccedenza sul valore proprio di questa, non si rappresenta cioè in un prezzo di 10, che è simultaneamente un prezzo di 11, non si rappresenta in un valore più grande di se stesso. Il produttore (e possessore) di merci può, con il suo lavoro, creare valori, ma non valori che si valorizzano. Egli può elevare il valore di una merce, con l’aggiunta al valore esistente di nuovo valore, mediante nuovo lavoro, p. es. la fabbricazione degli stivali con il cuoio, la merce di una precedente produzione. La medesima materia ha ora più valore, perché contiene una quantità più grande di lavoro. Quindi lo stivale ha più valore del cuoio, ma il valore del cuoio è rimasto quel che era. Non si è valorizzato, non si è aggiunto un plusvalore durante la fabbricazione degli stivali. Dunque, è impossibile che il produttore di merci, al di fuori della sfera della circolazione e senza entrare in contatto con altri possessori di merci, possa valorizzare il valore, e quindi trasformare il suo denaro o la sua merce in capitale. In breve, il capitale non può scaturire dalla circolazione, ma non può neppure non scaturire dalla circolazione. Deve necessariamente scaturire in essa e, al contempo, non nascere in essa. In conclusione, si ha un duplice risultato. La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti alla circolazione delle merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equivalenti. Il nostro possessore di denaro, che per ora esiste soltanto come capitalista allo stato embrionale di bruco, deve prima comperare le merci al loro giusto valore, poi le deve vendere al loro valore, eppure alla fine del processo deve estrarre più valore di quanto ne avesse anticipato. La metamorfosi {dell’uomo dei talleri in capitalista}, da bruco in farfalla, deve avvenire entro la sfera della circolazione e, al contempo, non deve avvenire entro la sfera della circolazione. Ecco i termini del problema. «Hic Rhodus, hic salta!»
Il cambiamento {e accrescimento} di valore del denaro, mediante il quale il denaro si deve trasformare in capitale, non può provenire da questo stesso denaro, poiché esso, come mezzo di acquisto e come mezzo di pagamento, non fa che realizzare il prezzo della merce che compera o paga, mentre, se rimane tale e quale, se mantiene la sua propria forma di denaro puro e semplice, si solidifica con la pietrificazione in grandezza di valore invariabile. Il cambiamento non può neppure scaturire dal secondo atto della circolazione, la rivendita della merce, poiché questo atto si limita a far ritornare la merce dalla sua forma naturale alla sua forma di denaro. Dunque, il cambiamento deve verificarsi nella merce comprata nel primo atto, D - M, ma non nel valore di essa, poiché qui vengono scambiati equivalenti, cioè la merce viene pagata al suo valore. In altri termini, il cambiamento può derivare soltanto dal valore di uso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal consumo di una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe aver la fortuna di scoprire, all’interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato stesso, una merce il cui valore di uso possedesse la peculiare proprietà di essere fonte di valore, tale che il suo stesso consumo fosse, in realtà, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova effettivamente sul mercato una tale merce speciale: è la capacità di lavoro, ossia, la forza di lavoro. Per forza di lavoro (forza lavorativa) o capacità di lavoro (capacità lavorativa) io, proprio io, intendo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali, che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori di uso di qualsiasi specie. Tuttavia, affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza di lavoro come merce, è necessario il soddisfacimento di diverse condizioni. In sé e per sé, lo scambio di merci non include altri rapporti di dipendenza oltre a quelli derivanti dalla sua propria natura. Con questi presupposti, la forza di lavoro può comparire sul mercato come merce soltanto in quanto e perché offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza di lavoro. Affinché il possessore della forza di lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, e quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Il possessore della forza di lavoro si incontra sul mercato con il possessore di denaro, e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, con diritti uguali, unicamente distinti dal fatto che l’uno è compratore e l’altro venditore, e quindi entrambi, come persone, sono giuridicamente eguali.
La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza di lavoro la venda sempre e soltanto per un tempo limitato e determinato, poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da uomo libero in schiavo, da possessore di merce in merce. Il proprietario di forza di lavoro, in quanto persona, deve riferirsi costantemente alla propria forza di lavoro come a sua proprietà, e quindi come a sua propria merce. Il che può farlo solo in quanto mette la sua forza di lavoro a disposizione del compratore sempre e soltanto in via transitoria, per un periodo di tempo determinato, e gliela lascia temporaneamente in uso, per il consumo, in modo che, mediante l’alienazione di essa, non rinuncia alla sua proprietà su di essa. La seconda condizione essenziale, affinché il possessore del denaro trovi la forza di lavoro sul mercato già pronta come merce, è che il possessore di questa non abbia la possibilità di vendere merci nelle quali il suo lavoro si è oggettivato, ma anzi, sia costretto a offrire in vendita, come merce, la sua stessa forza lavorativa, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente. Chiunque voglia vendere merci distinte dalla propria forza di lavoro, deve, com’è ovvio, possedere mezzi di produzione, p. es. materie prime, strumenti di lavoro, ecc. Egli non può fabbricare, p. es., stivali senza cuoio. Inoltre, ha bisogno di mezzi di sussistenza. Nessuno, neppure un «musicista dell’avvenire», può campare dei prodotti della posterità, e quindi nemmeno di valori di uso la cui produzione è ancora incompiuta. E, come il primo giorno della sua comparsa sulla crosta terrestre, l’uomo è costretto ancora a consumare, giorno per giorno, prima della produzione e anche durante la produzione. I prodotti debbono essere venduti dopo, come merci, dopo la loro produzione, e quindi possono soddisfare i bisogni del produttore soltanto dopo la vendita. Al tempo di produzione si aggiunge il tempo necessario per la vendita. Dunque, per trasformare il denaro in capitale, il possessore del denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore «libero»; «libero» nel duplice senso che, nei suoi nessi giuridici di persona libera, dispone della propria forza lavorativa come sua propria merce e che, d’altra parte, non ha da altre merci vendere, e quindi, per così dire, è nudo e spoglio, libero da tutto, completamente sprovvisto delle cose necessarie alla vita e alla conservazione della sua forza di lavoro. Perché questo lavoratore libero si trova nella sfera della circolazione? È una domanda che non ha alcun interesse per il possessore di denaro, il quale si trova davanti il mercato del lavoro come sezione particolare del mercato delle merci. E per il momento, non ha interesse neppure per noi. Ci atteniamo, sul piano teorico, al dato di fatto, così come il possessore di denaro fa sul piano pratico. Una cosa è evidente, però. La natura non produce, da una parte, possessori di denaro o di merci e, dall’altra, puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto fra possessore di denaro e possessore di forza lavorativa non ha alcun fondamento naturale, e quindi non appartiene alla storia naturale, né, tanto meno, è un rapporto sociale comune a tutti i periodi della storia umana. Esso stesso è, evidentemente, il risultato di uno sviluppo storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale [Non esistono, di converso, né società né modi di produzione immutabili].
Anche le categorie economiche, precedentemente considerate, portano le tracce della loro storia. Nell’esistenza del prodotto come merce, sono racchiuse determinate condizioni storiche. Per divenire merce, il prodotto non deve essere generato come mezzo immediato di sussistenza per colui che lo produce. Se avessimo indagato più a fondo in quali circostanze tutti i prodotti, o anche soltanto la maggior parte, assumono la forma di merce, avremmo trovato che ciò avviene soltanto sulla base di un modo di produzione del tutto peculiare, cioè il modo di produzione capitalistico. Ma tale ricerca era estranea all’analisi della merce. Una produzione e una circolazione di merci possono aver luogo anche se la massa dei prodotti, di gran lunga prevalente, destinati alla soddisfazione di bisogni immediati del produttore, non si trasforma in merce, e quindi molto prima che il processo sociale di produzione sia dominato in tutta la sua ampiezza e in tutta la sua profondità dal valore di scambio. La rappresentazione del prodotto come merce presuppone una divisione del lavoro all’interno della società, talmente sviluppata che la separazione fra valore di uso e valore di scambio, il cui primo inizio è nel baratto, cioè nel commercio di permuta diretta, sia compiuta. Però un tale grado di sviluppo è comune a molte formazioni economiche della società, diversissime l’una dall’altra come dimostra la storia. Oppure consideriamo il denaro. La sua esistenza presuppone un certo livello dello scambio di merci. Le forme particolari del denaro –puro e semplice equivalente della merce, mezzo di circolazione, mezzo di pagamento, tesoro e denaro mondiale– indicano, di volta in volta, a seconda della diversa estensione e della preponderanza relativa di questa o quella funzione, fasi e gradi differentissimi del processo sociale di produzione. Eppure, l’esperienza stessa, mostra che una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata è sufficiente per la genesi di tutte quelle forme. Non così per il capitale. Le sue condizioni storiche di esistenza non sono affatto date, di per se stesse, con la circolazione delle merci e del denaro. Esso prende vita soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova, sul mercato, il libero lavoratore come venditore della sua forza di lavoro, sic et simpliciter. E questa sola condizione storica comprende in nuce l’intero sviluppo della storia universale. Quindi il capitale annuncia fin dal suo principio un’epoca nuova del processo sociale di produzione.
Si tratta ormai di considerare più da vicino la forza di lavoro. Questa merce peculiare, come tutte le altre, ha un valore. Come viene determinato? Il valore della forza di lavoro, come quello di ogni altra merce, è determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione, e quindi anche alla riproduzione, di questo articolo specifico. In quanto valore, anche la forza di lavoro rappresenta soltanto un quantumdi lavoro sociale medio oggettivato in essa. La forza di lavoro esiste soltanto come capacità o attitudine naturale dell’individuo vivente. Quindi la produzione di essa presuppone l’esistenza dell’individuo di carne e ossa. Data l’esistenza dell’individuo, la produzione della forza di lavoro consiste nella riproduzione, ossia nella conservazione, di esso. Per la propria conservazione, l’individuo vivente ha bisogno di una certa somma di mezzi di sussistenza. Dunque, il tempo di lavoro necessario per la produzione della forza di lavoro si risolve nel tempo di lavoro necessario per la produzione di quei mezzi di sussistenza, ovvero: il valore della forza di lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del suo possessore. Però, la forza di lavoro diventa una realtà e si realizza soltanto per mezzo della sua estrinsecazione, e quindi si afferma e si realizza soltanto nel lavoro. Ora nell’estrinsecazione della forza di lavoro, nel lavoro, si ha dispendio di una certa quantità di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani, la quale deve, a sua volta, esser reintegrata. Questo aumento in uscita esige un aumento in entrata. Se il possessore di forza di lavoro ha lavorato oggi, deve poter ricominciare e ripetere domani lo stesso processo, nelle stesse condizioni di vigore e salute. La somma dei mezzi di sussistenza deve, dunque, bastare al mantenimento dell’individuo che lavora nel suo stato di vita normale di individuo che lavora. Ora, i bisogni naturali, come il nutrimento, il vestiario, il riscaldamento, l’alloggio, ecc., sono differenti, di volta in volta, a seconda delle condizioni climatiche e delle altre caratteristiche naturali di un Paese, mentre, il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfazione, è a sua volta un prodotto della storia, e quindi dipende in larga misura dal grado di civiltà di un Paese e, più in particolare, dalle origini della sua classe dei liberi lavoratori. Contrariamente alle altre merci, la determinazione del valore della forza di lavoro include, dunque, un elemento storico e morale. Per un determinato paese, ma anche in un determinato periodo storico, il volume medio dei mezzi di sussistenza necessari è, dunque, prestabilito.
Il proprietario della forza di lavoro è mortale. Perciò, se la sua presenza sul mercato deve essere continuativa, così come lo richiede la continua trasformazione del denaro in capitale, il venditore della forza di lavoro si deve perpetuare, come si perpetua ogni individuo vivente, «con la procreazione» (Petty). Le forze di lavoro sottratte al mercato dal logoramento e dalla morte debbono esser continuamente reintegrate da un numero perlomeno uguale di nuove forze di lavoro. Dunque, la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza di lavoro include i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè uomini, i figli dei lavoratori, in modo che questa razza di singolari possessori di merci si perpetui sul mercato del lavoro. Inoltre, per la modifica dell’organismo umano, nelle sue caratteristiche generalmente umane, in modo tale che raggiunga un grado di abilità, precisione e celerità in un dato ramo di lavoro, e divenga una forza di lavoro competente in un senso specifico, occorre una certa preparazione e istruzione, che costa, a sua volta, una somma equivalente di merci, in una quantità più o meno grande. Le spese di formazione professionale della forza di lavoro variano a seconda del suo carattere più o meno complesso, e quindi evoluto. Queste spese di preparazione e istruzione – insignificanti per la forza di lavoro ordinaria, ossia semplice – rientrano pro tanto nel totale dei valori spesi per la produzione della forza di lavoro. Il valore della forza di lavoro si risolve nel valore di una certa somma di mezzi di sussistenza. Quindi, esso varia con il valore di quei mezzi di sussistenza, cioè con la grandezza del tempo di lavoro richiesto per la loro produzione. Una parte dei mezzi di sussistenza, p. es. generi alimentari, combustibili, ecc., vengono consumati di giorno in giorno, e debbono essere sostituiti di giorno in giorno. Altri mezzi di sussistenza, come il vestiario, il mobilio, ecc., si logorano in periodi più lunghi, e quindi debbono essere sostituiti solo a scadenze più lontane. Certe merci debbono essere comprate e pagate giornalmente, altre settimanalmente, altre ancora mensilmente, trimestralmente, ecc. Ma, comunque la somma di quelle spese si distribuisca, p. es., nel corso di un anno, essa deve sempre esser coperta con l’entrata media giornaliera, giorno per giorno. Se la massa delle merci richieste giornalmente per la produzione della forza di lavoro fosse uguale ad A, quella delle merci richieste settimanalmente fosse uguale a B, quella delle merci richieste mensilmente fosse uguale a C, quella delle merci richieste trimestralmente fosse uguale a D, ecc., la media giornaliera di quelle merci sarebbe data, in generale, da:
(365A+52B+4C+etc.)/365.
Posto che in questa massa di merci necessaria per la giornata media siano incorporate 6 ore di lavoro sociale, allora nella forza di lavoro si oggettiva, giornalmente, una mezza giornata di lavoro sociale medio, in altre parole, per la produzione giornaliera della forza di lavoro si richiede una mezza giornata lavorativa. Tale quantum di lavoro richiesto per la sua produzione giornaliera costituisce il valore giornaliero della forza di lavoro, ossia il valore della forza di lavoro giornalmente riprodotta. E così, se una mezza giornata di lavoro sociale medio si rappresenta in una massa aurea di 3 scellini – ossia, , di 1 tallero – il prezzo corrispondente al valore giornaliero della forza di lavoro è di 1 tallero. Se il possessore della forza lavorativa la offre in vendita per 1 tallero al giorno, allora il suo prezzo di vendita è uguale al suo valore, e secondo la nostra ipotesi, il possessore di denaro, smanioso di convertire i propri talleri in capitale, si adegua e paga questo valore. Il limite minimo, o minimum, del valore della forza di lavoro è costituito dal valore di un paniere di merci –senza la cui fornitura giornaliera, il depositario della forza di lavoro, l’uomo, non può rinnovare il suo processo vitale, e quindi dal valore dei mezzi di sussistenza fisiologicamente indispensabili. Se il prezzo della forza di lavoro scende a questo minimum, cade al di sotto del suo valore, e in questo caso quindi la forza di lavoro si conserva e si sviluppa –se si conserva e si sviluppa– in uno stato menomato e inumano. Ma il valore di ogni singola merce è determinato dal tempo di lavoro necessario per la sua venuta al mondo nell’aspetto normale...
La natura peculiare di questa merce specifica, la forza di lavoro, ha per conseguenza che, una volta concluso il contratto fra compratore e venditore, il suo valore di uso non è ancora passato realmente nelle mani del compratore. Il suo valore era già determinato, come quello di ogni altra merce, prima che entrasse in circolazione, poiché la produzione di forza lavorativa aveva richiesto la spesa una di una determinata quantità di lavoro sociale, ma il suo valore di uso consiste e si manifesta unicamente nella estrinsecazione di tale forza. L’estraneazione della forza di lavoro e la sua effettiva estrinsecazione, cioè la sua esistenza come valore di uso, in realtà non coincidono nel tempo. Ora, nel caso delle merci per le quali l’alienazione formale del valore di uso, mediante la vendita, è separata nel tempo dalla consegna effettiva al compratore, il denaro di quest’ultimo funziona perlopiù come mezzo di pagamento. In tutti i Paesi, nei quali predomina il modo di produzione capitalistico, la forza di lavoro viene pagata soltanto dopo che si è già esplicata per il periodo fisso stabilito nel contratto, p. es. alla fine di ogni settimana. Dunque, l’operaio anticipa in ogni dove al capitalista il valore di uso della sua forza di lavoro e la lascia consumare dal compratore prima del pagamento del suo prezzo, e quindi, in breve, l’operaio fa credito in ogni dove al capitalista. E che questo far credito non sia una vuota fantasticheria, è provato non soltanto dall’occasionale perdita del salario, di cui l’operaio ha fatto credito, quando il capitalista fa bancarotta, ma anche da una serie di conseguenze più a lunga scadenza. Però, che il denaro funzioni come mezzo di acquisto o come mezzo di pagamento, non cambia in alcun modo la natura dello scambio di merci in sé e per sé. Il prezzo della forza di lavoro è stabilito per contratto, benché venga realizzato solo in un secondo tempo, come il canone di locazione di una casa. La forza di lavoro è venduta, benché venga pagata soltanto in un secondo tempo. Tuttavia, per una comprensione più chiara del rapporto, è utile presupporre, in via provvisoria, che il possessore della forza lavorativa, al momento della sua vendita, riceva subito il prezzo stabilito per contratto. Ora conosciamo il modo di determinazione del valore che il possessore del denaro paga al possessore di quella merce sui generis, la forza di lavoro. Il valore di uso che il possessore del denaro riceve, per parte sua, nello scambio, si manifesta soltanto nel processo di consumo della forza di lavoro, ossia nel suo impiego effettivo. Tutte le cose necessarie alla realizzazione di questo processo, come le materie prime, ecc., il possessore del denaro le compera sul mercato e le paga al loro prezzo intero. Il processo di consumo della forza di lavoro è, nello stesso tempo, il processo di produzione di merce e di plusvalore. Il consumo della forza di lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori del mercato, ossia della sfera della circolazione.
Abbandoniamo quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza di lavoro, questa sfera chiassosa, superficiale e accessibile agli occhi di tutti, e seguiamo l’uno e l’altro nel segreto e recondito laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto: «No admittance except on business» ["Vietato l'ingresso se non per motivi di lavoro"]. Qui si vedrà non solo come il capitale produce, ma anche come il capitale viene prodotto. Verrà finalmente svelato il grande arcano della società moderna, la creazione di plusvalore. Ossia la sua fattura dovrà finalmente svelarsi.
- Karl Marx - Il Capitale, Libro I - Quarta edizione, 1890 -
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