Capitalismo avvoltoio
- di Michael Roberts -
Grace Blakeley è una star mediatica della sinistra radicale del movimento operaio britannico. È editorialista per il giornale di sinistra, Tribune, e partecipa regolarmente ai dibattiti politici nelle trasmissioni radiotelevisive, ed è spesso l'unica portavoce a sinistra che sostiene alternative socialiste. Il suo profilo e la sua popolarità hanno portato il suo ultimo libro, "Stolen: How to Save the World from Financialisation", direttamente nella top 50 di tutti i libri su Amazon. Il suo nuovo libro, intitolato "Vulture Capitalism: Corporate Crimes, Backdoor Bailouts and the Death of Freedom" (Bloomsbury 2024), ha raggiunto una popolarità ancora maggiore, «per molto tempo» nella lista dei libri di saggistica femminile dell'anno, e la rivista "Glamour" lo ha persino fatto diventare un libro essenziale da leggere per le giovani fashioniste.
In "Vulture Capitalism", il tema principale di Blakeley è quello di sfatare uno dei concetti di lunga data dell'economia neoclassica mainstream, secondo cui il capitalismo sarebbe un sistema di "libero mercato" e di concorrenza. Se nel capitalismo c'è mai stato il "libero mercato" - e la competizione tra le imprese nella loro lotta per ottenere i profitti creati dal lavoro (e Blakeley dubita che l'abbia mai avuto) - allora se c'è una cosa certa, è che non ce l'ha ora. Il capitalismo oggi, sostiene, è in realtà un'economia pianificata, controllata da alcuni grandi monopoli, e sostenuta dallo Stato. I monopoli pianificano sia la strategia che gli investimenti, in collaborazione con i governi; mentre le piccole imprese e i lavoratori devono obbedire: «Di fatto, le economie capitalistiche esistenti sono dei sistemi ibridi, basati su un attento equilibrio tra mercati e pianificazione. Questo non è un problema tecnico che deriva da un'attuazione incompleta del capitalismo, o dalla sua corruzione da parte di un'élite malvagia e onnipotente. Ma si tratta semplicemente del modo in cui il capitalismo funziona». Intendo dire che oggi i grandi monopoli, la finanza e lo Stato pianificano il mondo, ed evitano l'impatto degli alti e bassi dei mercati (liberi o meno che siano), i quali sono ora fondamentalmente irrilevanti. Come spiega Blakeley, le forze di mercato non operano all'interno delle aziende (il primo ad aver delineato il modo in cui le aziende operano sulla pianificazione interna, è stato l'economista mainstream Ronald Coase). Non ci sono mercati o contratti tra le sezioni, o tra i lavoratori e la direzione all'interno delle imprese. Ci sono i piani di gestione, e i lavoratori li applicano. Solo che, come sostiene Blakeley, questo meccanismo di pianificazione ora si applica alle relazioni tra le imprese, o quanto meno alle grandi imprese "monopolistiche". «Le grandi imprese sono in grado, in misura significativa, di ignorare la pressione esercitata dal mercato, e agire invece per modellare esse stesse le condizioni di mercato». Se qualcosa va storto e c'è una crisi, ecco che allora i grandi monopoli e lo Stato lavorano insieme per risolverla, in modo che abbia uno scarso impatto su sé stessi. «All'interno del capitalismo realmente esistente – consistente in un ibrido di mercati e di pianificazione centrale – le istituzioni più grandi e potenti del settore pubblico e privato possono lavorare insieme per riuscire a salvarsi la pelle. Anziché sopportare le conseguenze delle crisi che essi hanno creato, questi attori rovesciano i costi della loro avidità su coloro che hanno meno potere: i lavoratori, e in particolare quelli che si trovano nelle parti più povere del mondo....Nel frattempo, i monopoli si combinano con lo Stato al fine di risolvere tali crisi. Ogni crisi recente – dalla crisi finanziaria alla pandemia, alla crisi del costo della vita – ha sempre comportato, nel risolvere i problemi dell'azione collettiva del capitale, un ruolo chiave per lo Stato. E anche se i capitalisti si sono spesso lamentati del dolore inflitto loro all'epoca, ne sono sempre usciti vincitori».
Blakeley sostiene che le crisi del capitalismo non vengono più risolte attraverso ciò che Joseph Schumpeter (e Marx, se è per questo) chiamava "distruzione creatrice". Crisi del capitalismo, vale a dire, collassi che portano alla liquidazione delle imprese: la disoccupazione di massa e i crolli finanziari sono stati, sempre più, superati grazie alla "pianificazione" messa in atto dai grandi monopoli e dallo Stato. «L'evidenza suggerisce che i monopoli temporanei di Schumpeter stanno diventando sempre più permanenti. Quindi, non solo le relazioni all'interno dell'impresa sono basate sull'autorità piuttosto che sullo scambio di mercato, ma, a sua volta, l'autorità del capo è anche relativamente libera dalla disciplina del mercato. I capi sono sempre più in grado di agire come se fossero dei potenti pianificatori all'interno del loro dominio. Così facendo sono in grado di esercitare un potere significativo sulla società nel suo complesso». Su questa tesi, per me, qui sorgono due dubbi. In primo luogo, anche se all'interno dei paesi può darsi che non si siano mercati o concorrenza, stiamo davvero dicendo che non c'è più concorrenza tra le imprese per la quota di profitti ottenuti grazie allo sfruttamento del lavoro dei lavoratori? E che i mercati (liberi o meno) non esercitano davvero più alcuna influenza sull'accumulazione capitalistica? Tanto per cominciare, la concorrenza a livello internazionale tra le imprese multinazionali è assai intensa: nel commercio e negli investimenti internazionali, i cartelli non operano con convinzione. La guerra commerciale e degli investimenti tra Stati Uniti e Cina, non sembra essere un buon esempio di pianificazione globale. Inoltre, nella produzione capitalistica, la ricerca del profitto porta a sua volta a un'incessante ricerca, da parte delle aziende, volta a ottenere un vantaggio tecnologico rispetto ai rivali. Le aziende che sembrano avere il "monopolio" in un particolare settore o mercato, si trovano sempre sotto la minaccia di perdere quell'egemonia; e ciò vale anche per le aziende più grandi. In realtà, la competizione tecnologica non è mai stata così grande. E questo vale sia per la concorrenza all'interno dello Stato nazionale che per quella a livello internazionale.
Nel 2020, la vita media di un'azienda, secondo l'indice Standard and Poor's 500, è stata di poco superiore ai 21 anni; rispetto ai 32 anni del 1965. Vediamo che a lungo termine c'è una chiara tendenza al calo della longevità aziendale, per quel che riguarda le società dell'indice S&P 500, con la previsione di un ulteriore calo nel corso del 2020. Blakeley sostiene la sua tesi adducendo le prove relative alla crescita del potere di mercato e alla concentrazione del monopolio, fornite da studi recenti. Tuttavia, a mio avviso, questi studi non sono convincenti. In secondo luogo, se i monopoli e lo Stato possono ora pianificare ed evitare le vicissitudini del mercato, perché nella produzione capitalistica ci sono ancora grandi crisi a intervalli regolari e ricorrenti? Nel 2008 e nel 2020 abbiamo avuto le due più grandi crisi della storia del capitalismo. Il capitalismo li ha evitati attraverso la "pianificazione"? Blakeley fa a meno della "obsoleta" spiegazione marxista delle crisi, che sosteneva Marx, secondo cui la redditività del capitale e la produttività del lavoro porterebbe a crisi regolari e ricorrenti degli investimenti e della produzione. Per Blakeley, invece il capitalismo può effettivamente evitare, o almeno risolvere tali crisi "pianificando" e ricevendo sussidi dallo Stato. Così i monopoli potranno evitare la "distruzione creativa", continuando a muoversi a spese delle piccole imprese e del resto di noi. Certo, per Blakeley, le crisi si verificano, ma esse non sono più il «risultato naturale di un libero mercato sfrenato, o di avidi lavoratori sindacalizzati» né sembra derivare da una contraddizione economica intrinseca all'accumulazione capitalistica. Ora le crisi sono il risultato «di scelte politiche, fatte dagli Stati e dalle imprese, in risposta ai cambiamenti di potere e di ricchezza in corso nell'economia mondiale. Naturalmente, queste scelte tendono a consolidare lo status quo e a favorire i potenti».
Ma se le crisi sono ora il risultato di scelte politiche sbagliate fatte da chi è al potere, allora delle decisioni migliori potrebbero funzionare in modo da riuscire a mantenere il capitalismo non solo libero dai mercati, ma anche libero dalle crisi. Il capitalismo "pianificato" può così funzionare, se non ci sono più linee di frattura intrinseche nella produzione capitalista. Blakeley ha fondamentalmente resuscitato la teoria del "capitalismo monopolistico di Stato", un vecchio concetto sovietico/stalinista/maoista, il quale sostiene che le crisi del capitalismo "competitivo" sono state risolte a spese della stagnazione. La democrazia è stata sostituita dal potere monopolistico (ammesso che sia mai esistita una vera democrazia economica). Blakeley ci insegna che bisogna rendersi conto che, sotto il capitalismo, i lavoratori sono considerati solo come delle api che eseguono gli ordini della Regina e dei suoi droni. Ma «ciò che ci differenzia dagli altri animali è la nostra capacità di reimmaginare e ricreare il mondo che ci circonda. Come scriveva Marx, gli esseri umani sono architetti, non api». A quanto pare, c'è stato un tempo in cui i lavoratori avevano voce in capitolo nella pianificazione. Cito Blakeley da una recente intervista sul suo libro: «Quindi la pianificazione è continuata come prima, per tutta la storia del capitalismo, solo che invece di lavoratori, padroni e politici, i lavoratori sono stati cacciati e sono stati così solo i padroni e i politici che hanno finito per pianificare». Davvero? I lavoratori avevano voce in capitolo nella pianificazione delle economie in un'epoca pre-monopolistica, e non erano sempre api? Se Blakeley intende dire che prima del periodo neoliberista il sindacato era più forte, e quindi poteva esercitare una certa influenza nella pianificazione monopolistica, o che i consigli operai tedeschi potevano fare lo stesso; be' quelli di noi che hanno vissuto gli anni '60 e '70 sanno che non è stato affatto così.
La risposta data da Blakeley, a questa "morte della libertà" per i lavoratori, non è quella di sostituire i mercati - come noi vecchi socialisti sostenevamo - ma è invece quella delle imprese locali dei lavoratori. E per questo Blakeley ci presenta un pacchetto di esempi di quando i lavoratori hanno sviluppato le proprie cooperative e attività autogestite, le quali dimostrano che è possibile organizzare la società senza mercati, senza lo Stato (e senza pianificazione?). Il miglior esempio di Blakeley è il Piano Lucas degli anni '70, che ha visto i lavoratori sviluppare proposte per trasformare una multinazionale produttrice di armi in un'impresa sociale di proprietà dei lavoratori. «Il Piano Lucas era un documento straordinariamente ambizioso che sfidava le fondamenta del capitalismo. Al posto di un'istituzione progettata per generare profitti attraverso il dominio del lavoro da parte del capitale, i lavoratori della Lucas Aerospace avevano sviluppato un modello completamente nuovo per l'azienda, basato sulla produzione democratica di beni socialmente utili. Era quasi come se gli operai non avessero mai avuto bisogno di essere gestiti, come se fossero architetti creativi piuttosto che api obbedienti». E poi c'è stato il "movimento di bilancio partecipativo" in Brasile, «nel quale i cittadini hanno preso il controllo della spesa pubblica con risultati sorprendenti». Altri esempi sono tratti dall'Argentina e dal Cile. Blakeley conclude che «l'evidenza è chiara: quando si dà alle persone il potere reale, lo usano per costruire il socialismo». Ma è anche evidente che tutti questi progetti fantasiosi dei lavoratori a livello locale alla fine sono crollati; o sono stati consumati dal capitale (Lucas); o continuano senza avere alcun effetto più ampio sul controllo capitalista dell'economia; in Brasile, il "bilancio partecipativo" ha portato forse a un Brasile socialista? I progetti in Argentina hanno fermato l'orrenda serie di crisi economiche in quel paese? Blakeley ne è consapevole: «senza riforme della struttura delle società capitaliste, tali innovazioni sono destinate a rimanere piccole. A meno che non socializziamo e democratizziamo la proprietà delle risorse più importanti della società, a meno che non dissolviamo la divisione di classe tra capitale e lavoro stesso, non ci può essere vera democrazia.» Blakeley, chiede giustamente la fine delle restrizioni sindacali, la settimana lavorativa di quattro giorni e i servizi di base universali. «Una proposta di gran lunga migliore sarebbe quella di demercificare tutto ciò di cui le persone hanno bisogno per sopravvivere, fornendo un programma di servizi di base universali, in cui tutti i servizi essenziali come l'assistenza sanitaria, l'istruzione (compresa l'istruzione superiore), l'assistenza sociale e persino il cibo, l'alloggio e i trasporti sono forniti gratuitamente o a prezzi sovvenzionati. E garantire che questi servizi siano governati democraticamente aiuterebbe anche a costruire la solidarietà sociale a livello locale, qualcosa che un RBI difficilmente raggiungerebbe». Infatti. Ma come si possono realizzare queste misure necessarie, nell'interesse dei lavoratori, senza la proprietà pubblica dei mezzi di produzione? Come possiamo demercificare i servizi essenziali senza la proprietà pubblica delle compagnie energetiche, dei servizi sanitari e dell'istruzione di proprietà pubblica, dei trasporti e delle comunicazioni di proprietà pubblica o della produzione e distribuzione di alimenti di base? Qui, le proposte di Blakeley sembrano molto scarse. Citando un programma per il Regno Unito, vuole che siano nazionalizzate le "banche al dettaglio"; e vuole democratizzare la Banca Centrale. Questa è la finanza. Ma non vedo alcuna richiesta di nazionalizzazione dei grandi monopoli che, secondo Blakeley, controllano impunemente la nostra società. E le grandi compagnie di combustibili fossili? le grandi case farmaceutiche (che hanno tratto profitto dal COVID) o le grandi aziende alimentari (che hanno tratto profitto dalla spirale inflazionistica)? E che dire dei mega social media e delle aziende tecnologiche che succhiano trilioni di profitti? Non dovrebbero essere di proprietà pubblica?
Quando si parla dell'economia mondiale e del Sud del mondo, Blakeley fa riferimento a quello che definisce "l'approccio sviluppista" adottato da alcuni paesi in cui si presume «che lo Stato possa agire come una forza autonoma all'interno della società». Per lei, la Cina è un esempio in cui «il risultato è stato la costruzione di un modello di sviluppo di sorprendente successo». Ma questo successo, dice Blakeley, è stato ottenuto solo grazie allo sfruttamento dei lavoratori cinesi, proprio come accade nel mondo ricco: «è stata proprio la capacità dei pianificatori cinesi di promuovere la crescita economica, sopprimendo le richieste dei lavoratori, che ha sostenuto il "miracolo" cinese». Quindi, per Blakeley, la Cina non è diversa dalle economie "sviluppiste" del Giappone o della Corea. Ma è giusto? In Occidente, la "pianificazione monopolistica statale" non ha evitato le crisi economiche successive, e ha portato a una crescita economica e a investimenti sempre più lenti, come in Giappone e nel resto del G7. Ma in Cina, la "pianificazione monopolistica statale" ha portato a una crescita senza precedenti, senza alcun crollo, come sperimentato invece in Occidente o in altre "economie emergenti" come l'India o il Brasile. E contrariamente all'affermazione di Blakeley, tra tutte le principali economie, la Cina ha raggiunto la crescita più rapida dei salari reali. Possiamo spiegare questo diverso risultato solo perché c'è una differenza: l'economia cinese si basa su una pianificazione degli investimenti guidata dallo Stato che domina le imprese non capitaliste e il mercato, a differenza dell'Occidente. Prendiamo la questione del cambiamento climatico e del riscaldamento globale. Sicuramente, è abbondantemente chiaro che i mercati e le soluzioni di prezzo non possono affrontare la crisi climatica. Ciò di cui c'è bisogno è una pianificazione globale basata sulla proprietà pubblica dell'industria dei combustibili fossili e su investimenti pubblici su larga scala da parte degli Stati in cooperazione. Non può essere risolto dalle imprese operaie locali. Blakeley afferma che "espandere" la proprietà pubblica delle imprese - sia a livello locale che nazionale - è «un altro elemento chiave nella democratizzazione dell'economia, perché sfida il potere del capitale sugli investimenti». Ma porre fine al potere capitalista (monopolistico o meno) attraverso la proprietà pubblica, non è solo "un altro elemento chiave", ma è l'elemento chiave. Senza di essa, la pianificazione democratica e il controllo da parte dei lavoratori della loro economia e della loro società sono impossibili.
Blakeley antepone la "democrazia" alla proprietà pubblica e alla pianificazione, il carro davanti ai buoi. Per viaggiare verso il socialismo, abbiamo bisogno del cavallo e del carro insieme. Il capitalismo non ha superato le crisi internazionali attraverso la pianificazione monopolistica statale. Le crisi continuano a verificarsi a intervalli regolari, causate dalla contraddizione tra la ricerca di un maggiore profitto e la crescente difficoltà di realizzare tale profitto. Le crisi sono ancora inerenti al processo di accumulazione capitalista e non sono il risultato di "scelte sbagliate" fatte dai politici che eseguono gli ordini dei monopoli. Solo la fine del capitale privato e della legge del valore attraverso la proprietà pubblica e la pianificazione possono fermare tali crisi. L'analisi di Blakeley del capitalismo moderno, visto come un "capitalismo pianificato", è confusa. Il leopardo capitalista, che è emerso come il modo di produzione dominante a livello globale nel 19esimo secolo, ha davvero cambiato le sue macchie? Il precedente libro di Blakeley, Stolen, aveva come sottotitolo «come salvare il mondo dalla finanziarizzazione»; si noti, non il capitalismo in quanto tale, ma il capitale finanziario. E anche il titolo di questo nuovo libro è confuso. Il nostro nemico questa volta non è la "finanziarizzazione" ma il "capitalismo avvoltoio". Ma cos'è il capitalismo avvoltoio? Ho cercato nel libro per scoprirlo. Non c'è alcuna spiegazione di questo termine nel libro, a parte il riferimento breve agli hedge fund avvoltoio che fanno pressione sui governi dei paesi poveri per il rimborso del debito. Il termine capitalismo avvoltoio sembra non avere alcuna attinenza con il contesto del tema di Blakeley nel libro. Presumo che fosse solo un titolo di marketing intelligente sognato dagli editori. Ha funzionato nella vendita del libro; ma non funziona nello spiegare nulla del capitalismo del 21° secolo.
- Michael Roberts - Pubblicato l'8 maggio 2024 su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist -
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