domenica 5 maggio 2024

Leggere Marx - I testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo - 9-

Consumo di forza lavoro come nutrimento vivente del capitale

« Torniamo al nostro capitalista in spe [in erba]. Lo abbiamo lasciato dopo che aveva acquistato sul mercato tutti i fattori necessari al processo lavorativo: i fattori oggettivi, ossia i mezzi di produzione, e il fattore personale o soggettivo, ossia la forza di lavoro.Egli ha scelto, con l’occhio scaltro di chi sa il suo mestiere, i mezzi di produzione e le forze di lavoro adatte al suo particolare esercizio: filatura, calzoleria, ecc. Poi il nostro capitalista si mette a consumare la merce speciale che ha appena comprato, la forza di lavoro, ossia attraverso il lavoro dell’operaio –il detentore  della forza di lavoro– mette in azione (e consuma) i mezzi di produzione (...) Ora, il processo lavorativo nel suo svolgimento, come processo di consumo della forza di lavoro da parte del capitalista, ci rivela due fenomeni peculiari. In primo luogo, l’operaio lavora sotto il controllo del capitalista, al quale appartiene il tempo di lavoro dell’operaio. Il capitalista vigila accuratamente a che il lavoro sia eseguito in modo appropriato e che i mezzi di produzione vengano impiegati in modo conforme al loro scopo, e quindi che non si sprechi materia prima, e che si abbia cura dello strumento di lavoro affinché non si danneggi, ovvero che il suo logoramento non superi di quel tanto necessario all’uso nel lavoro. In secondo luogo, però, il prodotto è proprietà del capitalista, non del produttore immediato e diretto, dell’operaio. Il capitalista paga il valore della forza di lavoro, p. es. giornaliero.  Di conseguenza, per quella giornata, l’uso di essa gli appartiene, come di ogni altra sua merce, p. es. di un cavallo noleggiato per tutta la durata di quella giornata di lavoro. Al compratore della merce appartiene l’uso della merce. E il possessore della forza di lavoro, quando dà il suo lavoro al capitalista, non dà altro, in realtà, che il valore di uso da lui venduto. Dal momento che egli è entrato nell’officina del capitalista, il valore di uso della sua forza lavorativa, e quindi l’uso di essa, il lavoro, appartiene al capitalista. Questi, mediante la compera della forza di lavoro, ha incorporato il lavoro stesso, come lievito di vita, agli elementi morti e passivi costitutivi del prodotto [finale], che pure appartengono a lui. Dal suo punto di vista, il processo lavorativo è semplicemente il consumo della merce forza di lavoro, da lui acquistata, merce che tuttavia egli può consumare soltanto a patto di aggiungerle mezzi di produzione. Il processo lavorativo è un processo svolgentesi fra le cose che il capitalista ha comprato, fra cose che possiede in uso esclusivo. Perciò, il prodotto di questo processo gli appartiene, proprio come gli appartiene il prodotto del processo di fermentazione nella sua cantina. (...)

Il prodotto –proprietà del capitalista– è un valore di uso, come filati, tela, refe stivali, ecc. Ma sebbene gli stivali, p. es., {facciano camminare il mondo}, e costituiscano, in un certo senso, la base del progresso sociale, e quindi il nostro capitalista sia un incontestabile «progressista», egli non fabbrica stivali per amor degli stivali. Il valore di uso non è affatto, nella produzione mercantile, l’oggetto «qu’on aime pour lui-même» [«che si ama per sé stesso», cioè fine a sé stesso]. Qui, in generale, i valori di uso vengono prodotti soltanto perché e in quanto essi sono sostrato materiale, depositari del valore di scambio. E il nostro capitalista mira a due cose: in primo luogo, la produzione di un valore di uso che abbia un valore di scambio, un articolo destinato alla vendita, una merce; in secondo luogo, la produzione di una merce il cui valore sia maggiore della somma dei valori delle merci necessarie alla sua produzione, ossia la somma dei valori dei mezzi di produzione e della forza di lavoro, per i quali egli ha anticipato sul mercato il suo amato denaro. Egli vuol produrre non soltanto un valore di uso, ma una merce, non soltanto valore di uso, ma valore, e non soltanto valore, ma anche plusvalore. (...)

Consideriamo ora il processo di produzione anche come processo di formazione di valore. Noi sappiamo che il valore di ogni merce è determinato dal quantum di lavoro materializzato nel suo valore di uso, ossia dal tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione di essa. Questo vale anche per il prodotto che il nostro capitalista ha ottenuto come risultato del processo lavorativo. Si deve quindi calcolare per prima cosa il lavoro oggettivato in questo prodotto. Si consideri, p. es., il filato. Per la preparazione del refe è stata, prima di tutto, necessaria la sua materia prima, p. es. 10 libbre di cotone. È inutile per ora stabilire il valore del cotone, assumiamo che il capitalista lo ha comprato sul mercato al suo valore, p. es. a 10 scellini. Nel prezzo del cotone, il lavoro richiesto per la sua produzione è rappresentato già come lavoro generalmente sociale. Ammettiamo inoltre che la massa di fusi logoratisi nella lavorazione del cotone, in cui si rappresentano per noi anche tutti gli altri mezzi di lavoro utilizzati, abbia un valore di 2 scellini. Se una massa di oro di 12 scellini è il prodotto di 24 ore lavorative, ossia di 2 giornate lavorative [di 12 ore], ne segue, come primo risultato, che nel refe sono oggettivate 2 giornate lavorative. (...) A proposito della vendita della forza di lavoro, si era presupposto che il suo valore giornaliero fosse uguale a 3 scellini, somma in oro nella quale erano incorporate 6 ore lavorative, e quindi che tale fosse la quantità di lavoro richiesta per la produzione della somma media dei mezzi di sussistenza giornalieri del lavoratore. Ora, se il nostro filatore, in 1 ora di lavoro, trasforma 1, 2/3 libbre di cotone in 1, 2/3 libbre di refe, in 6 ore trasformerà 10 libbre di cotone in 10 libbre di refe. Perciò, durante il processo di filatura, il cotone assorbe 6 ore lavorative. Lo stesso tempo di lavoro si rappresenta in una massa di oro di 3 scellini. (...) Facciamo ora il conto del valore complessivo del prodotto, cioè delle 10 libbre di refe. In queste 10 libbre sono oggettivate 2½ giornate lavorative: 2 contenute nel cotone e nella massa dei fusi, ½ di lavoro assorbito durante il processo di filatura. Il medesimo tempo di lavoro è rappresentato in una massa di oro di 15 scellini. Quindi il prezzo di 15 scellini esprime in modo adeguato il valore {esatto} di 10 libbre di refe e il prezzo di 1 scellino e 6 pence il valore di 1 libbra di refe. Il nostro capitalista rimane interdetto: il valore del prodotto è uguale al valore del capitale anticipato. Il valore anticipato non si è valorizzato, non ha generato alcun plusvalore, e di conseguenza il denaro non si è trasformato in capitale. Il prezzo delle 10 libbre di refe è di 15 scellini, e 15 scellini è la spesa sul mercato per gli elementi costitutivi del prodotto. Non serve a niente che il valore del refe sia gonfiato, poiché questo suo valore non è che la somma dei valori in precedenza distribuiti fra il cotone, i fusi e la forza di lavoro, e da tale semplice addizione di valori esistenti non può sprigionarsi, né ora né mai, un plusvalore. (...)

Vediamo la faccenda un po’ più da vicino. Il valore giornaliero della forza di lavoro ammontava a 3 scellini, perché in esso è oggettivata una mezza giornata lavorativa, ossia perché i mezzi di sussistenza necessari giornalmente per la riproduzione della forza di lavoro costano una mezza giornata lavorativa. Ma il lavoro passato, latente ma contenuto in sé nella forza di lavoro, e il lavoro vivo che può fornire per sé la forza di lavoro, ossia i costi giornalieri di mantenimento della forza di lavoro e il dispendio giornaliero di questa, sono due grandezze del tutto distinte. Il primo determina il suo valore di scambio, il secondo costituisce il suo valore di uso. Il fatto che, per mantenere in vita l’operaio durante 24 ore, sia necessaria una mezza giornata lavorativa, non è affatto un impedimento perché l’operaio stesso lavori per una giornata intera. Dunque, il valore della forza di lavoro e il valore che la forza di lavoro valorizza (cioè la valorizzazione) nel processo lavorativo sono due grandezze differenti. A questa differenza di valore mirava il capitalista, quando comperava la forza di lavoro. La proprietà utile di produrre refe e stivali, propria della forza lavorativa, era per il capitalista soltanto la conditio sine qua non del processo lavorativo, in quanto per la creazione di valore, il lavoro deve essere speso in forma utile. Ma l’elemento decisivo è stato il valore di uso specifico di questa merce sui generis, di essere la fonte del valore, e di più valore di quanto essa stessa ne possieda ab origine in sé. È questo il servizio speciale che il capitalista si aspetta dalla forza di lavoro. E in questa transazione egli procede secondo le «eternal laws»  dello scambio di merci. In realtà, come ogni altro venditore di merci, il venditore della forza di lavoro realizza il suo valore di scambio e, al contempo, aliena il suo valore di uso. Egli non può ottenere l’uno senza cedere l’altro. Il valore di uso della forza di lavoro, il lavoro stesso, non appartiene affatto al venditore di essa, come non appartiene al negoziante di olio il valore di uso dell’olio da lui venduto. Il possessore di denaro ha pagato il valore giornaliero della forza di lavoro, e quindi a lui appartiene l’uso di essa durante la giornata, il lavoro di un intero giorno. La circostanza che il mantenimento giornaliero della forza di lavoro costi soltanto una mezza giornata lavorativa, benché la forza di lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta una giornata, e quindi che il valore creato dall’uso di essa durante una giornata sia grande il doppio del suo proprio valore giornaliero, è un colpo di fortuna particolarmente felice per il compratore, ma non è in alcun modo una ingiustizia sociale né una lesione dei diritti del venditore.

II nostro capitalista ha previsto questo caso e dice: «Der Kasus macht mich lachen»! [«Com’è divertente questo fatto»!]. Non per nulla il lavoratore trova predisposti nell’officina i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di 12 ore, anziché quelli per 6 ore. Se 10 libbre di cotone hanno assorbito 6 ore lavorative e si sono trasformate in 10 libbre di refe, 20 libbre di cotone assorbiranno 12 ore di lavoro e si trasformeranno in 20 libbre di refe. Esaminiamo ora il prodotto del processo di lavoro prolungato. Adesso, nelle 20 libbre di refe sono oggettivate 5 giornate lavorative: 4 nella massa di cotone e di fusi consumata; 1 assorbita dal cotone durante il processo di filatura. Però l’espressione in oro di 5 giornate lavorative è 30 scellini, cioè 1 lira sterlina e 10 scellini. E questo è, ora, il prezzo delle 20 libbre di refe. La libbra di filati costa, come prima, 1 scellino e 6 pence. Ma il totale del valore delle merci immesse nel processo ammontava a 27 scellini. Il valore del refe ammonta a 30 scellini. Quindi il valore del prodotto è cresciuto di 1-9 rispetto al valore anticipato per la sua produzione. E così 27 scellini si sono trasformati in 30 scellini. Hanno figliato un plusvalore di 3 scellini.  Il colpo di prestigio è riuscito, finalmente. Il denaro si è convertito in capitale. Il problema è risolto in tutti i suoi termini e le leggi dello scambio di merci non sono state affatto violate. Equivalente è stato scambiato contro equivalente. Il capitalista, come compratore, ha pagato ogni merce – cotone, massa dei fusi, forza di lavoro– al suo valore. Poi, egli ha fatto quel che fa ogni altro compratore di merci: ha consumato il loro valore di uso. Il processo di consumo della forza di lavoro, che nello stesso tempo è processo di produzione della merce, ha fornito un prodotto di 20 libbre di refe del valore di 30 scellini. Allora il capitalista ritorna sul mercato come venditore. Egli vende merce dopo che aveva comprato merce. Egli vende la libbra di cotone a 1 scellino e 6 pence, non un soldo in più o in meno del suo valore esatto. Eppure, trae dalla circolazione 3 scellini in più di quanti ne aveva immessi inizialmente.Tutto questo svolgimento – la metamorfosi del denaro del nostro capitalista in capitale–, avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Avviene attraverso la mediazione della circolazione, perché ha la sua condizione nella compera della forza di lavoro sul mercato delle merci; non avviene attraverso la mediazione della circolazione, perché la circolazione è il punto di avvio e di arrivo del processo di valorizzazione, il quale si svolge nella sfera della produzione.(...)
Se ora confrontiamo il processo di creazione di valore e il processo di valorizzazione, quest’ultimo non è altro che il processo di creazione di valore prolungato al di là di un certo limite. Se il processo di creazione di valore dura soltanto fino al punto nel quale il valore della forza di lavoro pagato dal capitalista è sostituito da un nuovo equivalente, esso è processo semplice di creazione di valore, ma se il processo di creazione di valore dura al di là di quel punto, esso diventa processo di valorizzazione.(...) Il processo di produzione, in quanto unità di processo lavorativo e di processo di creazione di valore, è processo di produzione di merci; in quanto unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione, è processo di produzione capitalistico, ossia forma capitalistica della produzione di merci.

- Karl Marx, "Il Capitale. Critica dell'Economia Politica”, Libro I, Quarta edizione, 1890 -

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