mercoledì 6 settembre 2023

La Cina è vicina ?!!??

Il socialismo che crea mercati: «Come ha fatto la Cina a sfuggire alla terapia d'urto»
- di Maurilio Botelho e Marcos Barreira -

La spiegazione più comune del "miracolo cinese" di questi ultimi decenni, mette in evidenza quella che sarebbe stata l'apertura economica guidata dallo Stato, vedendola come se fosse stata questa la chiave per riuscire a trasformare il Paese in una potenza industriale globale. Isabella M. Weber radicalizza questa interpretazione, e così facendo affronta una dimensione che viene difficilmente riconosciuta allorché si parla di storia del "socialismo reale": la sua tesi è quella secondo cui  l'apparato statale - concentrato nelle mani del Partito Comunista - non solo abbia favorito il consolidamento di un'economia di mercato, ma che sia stato esso stesso ad aver creato il mercato in quelle che erano le condizioni rurali della Cina. [*1] L'obiettivo principale del libro, è quello di dimostrare in che modo aver optato per una graduale liberalizzazione dei prezzi, abbia consentito alla Cina di sfuggire alla "terapia d'urto", propugnata dagli ideologi del monetarismo, e che ha avuto nella Russia post-sovietica un tragico esempio di regressione economica e di iperinflazione. Sebbene sintetizzi la "terapia d'urto" nei suoi cosiddetti quattro aspetti (liberazione unica di tutti i prezzi, privatizzazione, liberalizzazione del commercio e austerità fiscale e monetaria), l'economista tuttavia, per dimostrare che la Cina non ha seguito la "ricetta neoliberista", si concentra solamente sulla prima  delle quattro caratteristiche. Una simile focalizzazione, alla fine, finisce per apparire solo come un espediente per convalidare il percorso che viene proposto; vale a dire, una «storia di come la Cina sia sfuggita alla terapia d'urto degli anni '80, e della sua riluttanza ad adottare indiscriminatamente la versione neoliberista del capitalismo» (p. 14). Il percorso alternativo intrapreso dalla Cina, secondo Isabella M. Weber, sarebbe stato formulato a partire da una combinazione di prezzi, amministrati dallo Stato e determinati dal mercato: un «sistema di prezzi bidirezionale [che] ha trasformato le unità produttive socialiste in delle imprese orientate al profitto, e ha aperto lo spazio per la fioritura delle relazioni di mercato» (p. 29-30). Qui lo Stato cinese avrebbe dato vita a delle «imprese orientate al profitto», ossia «le forze di mercato sarebbero state create e controllate dallo Stato» (p. 386). La combinazione di Stato e mercato appare come un assunto fondamentale dell'argomentazione del libro, ma in nessun punto viene però problematizzato il carattere «socialista» di queste «imprese orientate al profitto». Pertanto, il libro elogia il percorso di commercializzazione «senza shock» guidato dalla burocrazia cinese. Così, invece di avere una «transizione socialista» che sarebbe andata oltre il mercato, dall'autrice viene elogiata la transizione verso l'economia di mercato. Comunque sia - secondo la Weber - una simile osservazione non rivela alcuna strategia originale degli economisti del partito, ma piuttosto una «prospettiva a lungo termine», che si basa sul «retaggio istituzionale cinese della regolamentazione dei prezzi grazie alla partecipazione dello Stato al mercato» (p. 35).

Una "terapia d'urto" negata
La precedente e più vicina esperienza di gestione dei prezzi, risale all'indomani della Rivoluzione del 1949, allorché l'inflazione venne messa sotto controllo in quello che era un turbolento contesto di grandi trasformazioni; ma la stabilità monetaria venne raggiunta solo attraverso una gigantesca instabilità sociale: il contenimento diretto di quelli che erano i prezzi dei principali prodotti agricoli, divergeva dall'aumento dei beni industriali, cosa che portò a una disastrosa disorganizzazione della produzione agricola. I processi forzati di urbanizzazione e di industrializzazione, fecero sì che il peso di tale asimmetria ricadesse sull'immensa popolazione di contadini, i cui prodotti furono prezzati dallo Stato (e acquistati direttamente da esso), ponendoli al di sotto del loro valore. Di conseguenza, «i contadini che lavoravano le medesime ore dei lavoratori urbani ottenevano un tenore di vita materiale inferiore» (p. 149). Nelle città si verificava una concentrazione di risorse a scapito delle campagne: «il sistema dei prezzi dell'era Mao aveva funzionato come meccanismo che serviva a estrarre risorse dalle campagne, per l'industrializzazione urbana» (p. 149). Nel testo, il riferimento all'«era Mao» appare in modo piuttosto impreciso, senza che vi sia alcuna spiegazione più dettagliata dei conflitti tra le "linee" rivali all'interno del Partito Comunista Cinese. Tuttavia, la Weber nota come, in generale, durante i primi decenni della rivoluzione cinese, ci sia stata una vera e propria «economia di guerra» (p. 174) finalizzata alla creazione di mercati urbani, sebbene non riconosca esplicitamente che tale guerra è stata condotta contro i contadini: «(i rivoluzionari) impiegarono una strategia di guerra economica, la quale si basava sul ricreare dei mercati attraverso il commercio statale, per ristabilire il valore del denaro» (p. 36). Anche la linea del partito, che sosteneva un rapporto più equilibrato tra città e campagna, si tradusse in degli enormi spostamenti di forza lavoro e in un modello fallimentare di industrializzazione delle campagne, il quale distrusse le condizioni di sopravvivenza di milioni di contadini. È qui che, nell'esposizione dell'autrice, un movimento storico fondamentale diventa chiaro in termini fattuali, ma tuttavia rimane impreciso da un punto di vista teorico: inizialmente, la rivoluzione cinese ha svolto un ruolo di modernizzazione della società rurale, attuando, attraverso la concentrazione del potere statale, un processo di accumulazione originaria (o "primitiva"). La sistematica mobilitazione dei contadini, che li ha trasformati in fornitori di merci per lo Stato, è dipesa da ampi processi di espropriazione, di spostamento forzato e di sotto-remunerazione della maggior parte della forza lavoro. Questa espropriazione, era ancora più evidente per quel che riguardava il lavoro femminile: «la strategia, per affrontare la tendenza all'eccesso di domanda aggregata e all'inflazione, consisteva nel sopprimere il reddito in contanti dei contadini, per mezzo dei bassi prezzi di acquisto dei beni agricoli, spostando spesso sul lavoro femminile - nelle famiglie contadine - l'onere della produzione di beni di prima necessità, come l'abbigliamento» (p. 152) [*2]. La difficoltà, che ha la Weber nel riconoscere la singolarità di questa rottura storica, rimane legata alla sua posizione per cui prova simpatia nei confronti del processo di affermazione della società di mercato: nonostante tutte le contraddizioni, «il sistema dei prezzi, come strumento per facilitare la redistribuzione intersettoriale, ha giocato un ruolo fondamentale nell'economia dell'era Mao; in particolare nel trasferimento dalla maggioranza contadina all'industria pesante» (p. 174-175). L'autrice registra alcuni aspetti tragici di queste decisioni, come quando la leadership comunista fece delle «proiezioni irrealistiche sulla produzione di grano» (146), in un periodo di spostamento di milioni di produttori agricoli verso le industrie create nelle campagne, con il risultato di «almeno 16 milioni - e forse più di 40 milioni - di contadini [che] morirono di fame» (p. 146). Questo movimento, tuttavia, appare come un qualcosa di necessario, dal punto di vista della transizione promossa dallo Stato cinese: «il raggiungimento della stabilità dei prezzi, dopo una prolungata iperinflazione, ha dato legittimità al governo rivoluzionario, rimasto in carica, con poche eccezioni, per tutto il periodo di Mao» (p. 174). Qui abbiamo la definizione pura e semplice di un'autentica "terapia d'urto" - sebbene non ammessa dall'autrice - nella quale rispetto alla vita sociale, erano prioritari gli indicatori economici, e questo è il motivo per cui «la Cina di Mao può vantare un record impressionante in un aspetto economico improbabile: la stabilità dei prezzi, cosa normalmente attribuita a un'economia piuttosto conservatrice» (p. 141).

Il dilemma dei mercati pianificati
Sebbene l'intero studio della Weber sia dedicato al "sistema dei prezzi", non vi è alcuna teoria monetaria sottostante; a parte la consueta interpretazione secondo cui i prezzi fungono da meccanismo di mediazione tra tutti gli agenti economici e la "decisione" microeconomica: «poiché la produzione era regolata principalmente con mezzi politici, per le decisioni sulla produzione, i segnali dei prezzi divennero largamente inefficaci» (p. 174). In una "economia di comando", secondo l'autrice, «i prezzi non influivano direttamente sulle imprese» (p. 161), dal momento che i prezzi sono determinati dallo Stato, e le imprese vengono rifornite di risorse in base alla volontà politica. Ne consegue che il sistema di pianificazione nelle economie del "socialismo reale", non potrebbe veicolare e diffondere né  "responsabilità" né "incentivo economico individuale" (p. 173 e 175). Questa fantasmagorica funzione dei prezzi visti come "pannello informativo", il quale sollecita gli individui ad agire secondo le opportunità del mercato, riproduce una visione tecnocratica della struttura del mercato, la quale rimane totalmente fissata nella sfera della circolazione. Il "sistema dei prezzi" non è altro che l'espressione superficiale della "muta" coercizione che la concorrenza esercita sugli individui; li mette gli uni contro gli altri e "confronta" il loro lavoro, selezionando il più produttivo. La visione superficiale del prezzo in quanto meccanismo fondamentale di "informazione" nel mercato - in ultima analisi, una visione liberale - ignora del tutto il ruolo di questa coercizione impersonale che agisce alle spalle degli agenti economici. Senza una visione coerente del funzionamento del mercato, tutti questi agenti possono essere trattati solo come delle monadi che vengono pagate in base alla loro "volontà" e alla loro "responsabilità". È anche questo il motivo per cui Isabella M. Weber trascura la contraddizione interna nel rapporto di capitale, vale a dire, come questo meccanismo coercitivo di concorrenza si confronta con il diverso lavoro privato, e come questo faccia  leva sull'economia del tempo. Nelle condizioni del processo di modernizzazione in Cina, tuttavia, questa coercizione economica che seleziona e sceglie quelli che sono i più "redditizi" - ed espelle i "perdenti" e i "superflui" - ha operato sempre attraverso la mediazione dell'amministrazione burocratica, la quale ha "selezionato" i contadini considerati in anticipo come dei perdenti. In questa economia di comando, il meccanismo competitivo dell'economia di mercato rimaneva bloccato, visto che i prezzi venivano determinati dallo Stato, sulla base di criteri esterni, cosa che portava a una progressiva erosione della produttività. Il denominatore comune ai mercati pianificati dell'Est e al capitalismo occidentale, era proprio il fatto che la socializzazione poteva avvenire, in ogni caso e comunque, solo tra soggetti in competizione, attraverso la produzione di merci, vale a dire, in relazioni di mercato indirette; sebbene nel primo caso il suo elemento propulsivo fosse assente. La Weber non ha nulla da dire al riguardo, perché non ha un concetto coerente di socializzazione capitalistica. Si limita a identificare le categorie della moderna relazione di mercato - come il valore e il prezzo - vedendole come delle categorie universali della società umana. Il valore viene qui ridotto a essere una metrica "naturale" per misurare la remunerazione altrettanto naturale delle unità economiche. Weber è anche convinta che i prezzi possano essere determinati a priori dallo Stato, purché questo si lasci progressivamente mediare a partire dai "segnali" del mercato. Tutto ciò porta direttamente a lodare la "riforma del mercato" controllata politicamente. Così, nell'analisi di Isabella Weber, il dibattito marxista sul rapporto tra valore e prezzo, cioè il problema di come la quantità di tempo di lavoro (sfera della produzione) presente in ogni merce venga convertita in una misura monetaria sul mercato (sfera della circolazione) - confrontando il contributo individuale con il livello di produzione più avanzato - si trasforma in un problema di come lo Stato possa "premiare" le diverse unità produttive. Ancora una volta, la nozione di "pianificazione" si riduce a una nozione amministrativa di correzione esterna del movimento delle monadi sociali private: «un problema fondamentale relativo al passaggio a un sistema basato sulla responsabilità, aveva a che fare con il fatto che la struttura dei prezzi non era stata impostata per fornire incentivi alle singole unità produttive. Al contrario, il sistema dipendeva da una consapevole ridistribuzione tra i settori e all'interno di essi. (...) Per quanto i prezzi potessero essere allineati ai valori, le condizioni di produzione drammaticamente diverse nel Paese suggerivano che le rispettive ricompense, nelle diverse unità produttive, sarebbero state molto ingiuste» (p. 173). Questa serie di formulazioni seguono una tendenza ideologica generale di adattamento permanente alle condizioni del mercato globale, che corrisponde al margine di manovra sempre più ridotto di quella che è la politica statale nel contesto della globalizzazione.

Nell'interpretazione storica, tutto è possibile
Dal momento che le categorie sociali moderne, come il valore e i prezzi di mercato, vengono prontamente naturalizzate e proiettate nell'orizzonte socialista, non c'è niente di più logico che riproiettare queste categorie sull'intera storia umana. Isabella M. Weber trova nel passaggio dalla dinastia Zhou alla dinastia Qin - 2500 anni fa - un intenso "dibattito economico" circa la «regolazione dei prezzi e la gestione del mercato» (p. 42). Seguendo gli insegnamenti di Deng Xiaoping, per il quale «è sbagliato sostenere che l'economia di mercato esiste solo nella società capitalista, e che esiste solamente l'economia di mercato "capitalista"» (cit. da Weber, p. 181), è riuscita a trovare il mercato e l'«economia monetaria» (p. 63) financo nel più remoto passato cinese. Il classico dibattito della letteratura cinese sul controllo imperiale del sale e del ferro, si trasforma allora in un'importante lezione sulla «regolazione dei prezzi attraverso l'attività commerciale dello Stato», la quale consentirebbe di comprendere come «l'interazione tra agenti privati e burocratici crei congiuntamente il mercato e l'economia» (p. 44). Pertanto, la storia millenaria della Cina ci insegnerebbe a non «inquadrare il cambiamento del mercato come se fosse solo una semplice tendenza importata dall'Occidente» (p. 43): il successo dell'integrazione della Cina nell'economia di mercato globale, è quindi merito di una secolare «tradizione cinese di concettualizzare e praticare il rapporto tra mercato e Stato» (p. 73), un millenario «attivismo statale» caratterizzato da una «governance economica» (p. 72). Weber si guarda bene dall'«analizzare il percorso e il pensiero riformatore» degli anni Ottanta vedendolo come se fosse stata una "occidentalizzazione", «attraverso i concetti dell'economia contemporanea, la cui origine è la tradizione occidentale dell'economia politica» (p. 43); d'altra parte, le antiche società agrarie dell'Oriente sembrano dominate dalle moderne relazioni capitalistiche. Nell'antica Cina imperiale, "burocrati intraprendenti" (p. 67) vedevano quale fosse l'importanza del mercato per la crescita economica; ma erano ugualmente preoccupati di mantenere il controllo statale sulla «produzione di beni strategici, sul commercio e sul denaro», cosa che «avrebbe permesso allo Stato di bilanciare prezzi e offerta in tutto l'impero» (p. 65). In quel dimenticato passato cinese, c'erano però anche «le merci richieste in quanto riserva di valore» (p. 49), e la preoccupazione degli economisti di oggi per l'equilibrio, visto che «il valore relativo dipende dalla domanda e dall'offerta» (p. 49). Anche i ritmi tipici dell'economia moderna dettavano la vita sociale: il controllo dello Stato era importante per poter «proteggere la maggioranza della popolazione (contadina) dalle fluttuazioni, dai cicli e dalle speculazioni, in un contesto di liberazione dei poteri del mercato...» (p. 72). [*3]

Questo modo, del tutto inadeguato di affrontare i diversi contesti storici, potrebbe essere tralasciato, nonostante il suo aspetto francamente caricaturale, e lo si potrebbe scusare, vedendolo come se fosse solo un'incursione maldestra in un territorio sconosciuto; solo se l'argomentazione principale del libro fosse stata debitamente motivata. Ma l'idea secondo cui la Cina sarebbe già sfuggita alla "terapia d'urto", grazie all'apertura promossa dai riformatori degli anni Ottanta, non regge. Come abbiamo visto, Isabella M. Weber circoscrive ingegnosamente il suo studio agli anni Ottanta (più precisamente al periodo 1978-1988). Tuttavia, un'apertura economica completa e sistematica avrebbe comunque avuto luogo in Cina durante gli anni '90. Gli altri aspetti della "terapia d'urto", che non sono stati affrontati, dovrebbero essere analizzati alla luce di questo cambiamento di direzione dell'economia cinese - che è stato accompagnato da importanti cambiamenti istituzionali e giuridici, ad esempio l'adesione della classe imprenditoriale al Partito Comunista e da un'enfatica difesa della proprietà privata. È stato soprattutto a partire dagli anni '90 che tutte le principali aziende giapponesi, sudcoreane, tedesche e statunitensi, responsabili della diffusione del Made in China, hanno avviato le loro attività produttive in Cina attraverso joint venture. Questo movimento di capitali era direttamente collegato alla crisi dell'economia giapponese e alla riconfigurazione del "circuito del deficit del Pacifico".[*4] Sempre alla fine di questo decennio, il governo cinese ha avviato un gigantesco processo di privatizzazione delle piccole e medie imprese e ha licenziato decine di milioni di dipendenti, selezionando alcune grandi aziende statali come "campione". [*5] Nel 1998 c'è stata anche una riforma del settore immobiliare che ha aperto il mercato fondiario. Questa combinazione di apertura economica e privatizzazione è stata seguita dall'ingresso della Cina nell'OMC nel 2001, dopo una forte mediazione dell'amministrazione Clinton. Anche l'argomentazione principale del libro, quella sulla gestione dei prezzi, alla luce delle principali tendenze dell'economia cinese nei decenni successivi, diventa poco convincente: i grafici a pagina 30-31 mostrano un'improvvisa liberalizzazione dei prezzi a partire dal 1990 - i prezzi diretti dal governo e/o fissati dal governo sono ora meno di un decimo dei mercati fondamentali. Per quasi due decenni, il controllo monetario in Cina non si è più basato principalmente sulla gestione diretta dei prezzi, ma sulla gestione dell'immensa riserva di valuta estera e della sua diversità di investimenti (un aspetto questo, ancora assai poco discusso del "miracolo"). In questo caso, le misure adottate negli anni '80 hanno semplicemente posticipato di un decennio lo "shock". Ciò che è stato realmente evitato, è stato il crollo del regime politico. La terapia d'urto è stata poi adottata, in dosi controllate, dallo stesso partito al potere. Per capirlo, basta concentrare l'analisi sul periodo in cui la Cina è diventata «profondamente integrata nel capitalismo globale» (p. 19).[*6] Lo ammette perfino la stessa Isabella M. Weber, quando all'inizio del libro afferma che: «Quando, nel 1992, la Cina ha ripreso la commercializzazione, l'agenda della terapia d'urto non era affatto scomparsa. Al contrario, in Cina, negli anni '90 i neoliberali hanno ottenuto importanti vittorie.» (p. 38). Va da sé che il modello di transizione cinese non è quello del "neoliberismo rigoroso", ma grazie a un provvidenziale montaggio storico, per le successive quattrocento pagine, i lettori del libro possono rimanere all'oscuro di queste "vittorie neoliberali".

- Maurilio Botelho e Marcos Barreira - Pubblicato il 1/9/2023 su Zero à Esquerda -

NOTE:

[*1] - Isabella M. Weber - Como a China escapou da terapia do choque: o debate da reforma de mercado. São Paulo: Boitempo, 2023.

[*2] - La riduzione della circolazione monetaria nelle campagne non è stata affatto una "demonetizzazione", come sostiene l'autrice, ma la pura e semplice violenza della creazione del mercato da parte dello Stato - da un lato -  e, dall'altro, la fissazione di momenti riproduttivi al di fuori del rapporto di merce, assegnati alla forza lavoro femminile. Lungi da un ritorno all'«economia naturale», c'è stata una "creazione di mercato", come chiarisce la stessa autrice in un altro punto: «quando, nell'ambito del sistema di acquisti unificati, lo Stato divenne un acquirente monopolista, improvvisamente gli acquisti statali iniettarono denaro nell'economia rurale al momento del raccolto, cosa che portò alla speculazione e alla creazione di mercati neri» (p. 153). Inoltre, da parte sua, l'adozione del sistema hukou di controllo territoriale della forza lavoro, impediva ai contadini di migrare in città, ragion per cui questa contraddizione esplose in ondate di violente rivolte, che però l'autrice cita solo come se si fosse trattato solo di un «alto livello di tensione tra i contadini e lo Stato» (p. 151).

[*3] - Nell'introduzione all'edizione brasiliana, c'è un'ulteriore confusione quando il «controllo strategico dei prezzi da parte dello Stato» viene invece attribuito alla nozione di "modo di produzione asiatico".

[*4] - Marcos Barreira e Maurilio Lima Botelho. “Capitalismo asiático” e crise global”, Margem Esquerda, no. 37, 2021, p. 59-69. In italiano su: https://francosenia.blogspot.com/2021/10/arrivano-i-cinesi.html

[*5] - Su questo si veda:  Ralf Ruckus e Timo Bartholl (orgs.). China: avanço do capital e revolta na nova fábrica do mundo. Rio de Janeiro: Consequência, 2014.

[*6] - La Weber è indecisa anche sul livello di questa "integrazione economica globale". Dopo aver affermato che la Cina è "profondamente integrata", insiste anche sul fatto che lo Stato ha «mantenuto la capacità di isolare settori strategici dell'economia dal capitalismo globale» (p. 23), e che «questo garantisce un grado di sovranità economica che protegge la sua economia "contro" il mercato globale» (p. 22) (virgolettato aggiunto).

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