La tragedia è il regno dell’irrazionale, il trionfo degli istinti che si traducono in atti estremi, per questo Platone la temeva e la avversava; perché fa emergere la materia informe e oscura della mente e la concretizza non in parole, ma in personaggi che agiscono e somigliano così tanto a veri esseri umani. Tutto nella tragedia avviene qui, nel mondo degli uomini e delle donne. Per le nostre sofferenze non c’è una spiegazione, né sono giustificate da una colpa o da un piano divino, esistono, esiste questo groviglio in cui siamo legati: sono una parte inevitabile del gioco e in fondo a tutto c’è il mistero. Giulio Guidorizzi ci rivela, con l’acribia del grecista, i segreti del mondo degli antichi, e ci mostra, con lo sguardo appassionato del narratore, quanto di noi ancora sopravvive di un tempo tanto lontano eppure vicinissimo. Le eroine e gli eroi del dramma greco portano infatti alla luce i mille volti che ci abitano, svelandoci ciò che eravamo, ciò che siamo e ciò che, malgrado i tempi che cambiano, continueremo a essere. Aristotele osserva che la tragedia comporta il passaggio tra una condizione e l’altra, dalla gioia alla sofferenza, e questa è la catastrofe. Tutto in poche ore, perché le convenzioni tragiche impongono che la sventura attacchi d’improvviso un uomo nell’arco di una sola giornata: Edipo era re la mattina e miserabile alla sera, Eracle trionfatore ma subito dopo folle e massacratore dei figli, Agamennone arriva in patria vittorioso ma nel momento del trionfo viene ucciso nella sua stessa reggia, persino Serse, il gran re persiano, convinto di essere invincibile, in una mattinata vede la sua flotta distrutta e si scontra con i limiti del suo potere. Ci può essere un ordine in questo caos? O non ce n’è alcuno? Eschilo si sforza di individuare una legge; il suo Zeus guarda dall’alto e dirige il timone della nave del mondo. Ma anche ammesso che esista una giustizia, e una regola che un uomo nella sua piccolezza non comprende, resta il fatto che noi non sappiamo dove vada la nave del mondo, o anche solo il nostro piccolo naviglio, perché il timoniere non lo dice. Forse il motivo che rende la tragedia così vicina all’uomo moderno è che, anche se ammettiamo che un essere umano decida quale via scegliere, o che un occhio guardi dall’alto le nostre cose e difenda la giustizia (ma, dice Euripide, non è vero che lo fa), possiamo comunque essere spinti alla rovina dalle energie irrazionali che ci agitano dentro, e di cui non abbiamo il controllo.
(dal risvolto di copertina di: Giulio Guidorizzi, "Pietà e terrore. La tragedia greca". Einaudi, pagg. 220, € 14,50)
Tragedia greca, così l'occidente scoprì l'interiorità
- di Piero Boitani -
Nell’ultimo libro della "Periegesi, la Guida della Grecia" che Pausania redasse nel II secolo della nostra era, viene ricordato un trivio sulla grande strada Schiste che conduce a Delfi. Al centro del trivio, dice Pausania, si trovano ancora le tombe di due protagonisti del mito, sovrastate da pietre scelte. È il luogo dove Edipo, senza conoscerne l’identità, uccise il padre Laio, e i due sepolcri sormontati da pietre sono quelli di Laio e del servitore che l’accompagnava. È l’incrocio più famoso dell’antica Grecia e della sua tragedia, quello dove si incontrano e si scontrano il caso e la necessità, la libertà e il destino. Ed è anche il luogo dal quale parte il libro di Giulio Guidorizzi: un volume nel quale l’autore fa critica narrando con vigore, chiarezza e concisione nonostante le biblioteche intere dedicate alla tragedia greca. Non per nulla, il titolo viene proprio dalla Poetica di Aristotele. «La tragedia è una forma mimetica di un’azione di carattere elevato, che ha un’estensione definita, in un linguaggio alto, divisa in varie e definite parti, di persone che agiscono e non raccontano, che attraverso la pietà e il terrore porta alla purificazione (kátharsis) da queste passioni». Eleos e phobos, pietà e terrore: se queste emozioni non vengono destate, non si dà tragedia, né tantomeno «purificazione» finale. Che non vuol dire «redenzione», perché nella tragedia greca, ancor più che in quella shakespeariana, la redenzione è del tutto assente. Il Libro di Giobbe, per quattro quinti il più tragico della Bibbia, conosce una redenzione finale, dopo che il patriarca si pente dinanzi a Dio. Nella stessa Heilsgeschichte umana, tragica dopo il Peccato Originale, ha luogo a un certo punto la Redenzione per eccellenza. Nulla del genere è consentito ad Agamennone, a Prometeo, a Edipo – non, almeno, a quello di Edipo re.
Gli eroi e le eroine della tragedia greca sono vittime, spesso inconsapevoli (perciò il «riconoscimento» ha un valore drammatico così forte), di una hamartía: la parola, che nel greco biblico vorrà dire «peccato», qui significa semplicemente «errore», accompagnato probabilmente da una «colpa» che è la generale fallibilità umana. Ecco perché Guidorizzi, nel primo capitolo del libro, che funge da introduzione generale su «Il tragico», parla di «ineluttabilità», di eventi concentrati nello spazio di un giorno, di «male oscuro», della differenza fra passioni epiche e passioni tragiche. Il contributo maggiore che la tragedia greca dà alla civiltà occidentale consiste, secondo Guidorizzi, nella «scoperta del mondo interiore». È certamente vero, ma la stessa cosa si verifica, in maniera diversa, nelle storie bibliche, dove proprio il rapporto col Dio unico costringe il personaggio a piegarsi su sé stesso e conoscersi. «Conoscere il bene e fare il male» è invece caratteristica saliente della tragedia greca, e Medea ne è l’esempio precipuo. Ma il paragrafo che Guidorizzi dedica al tema, nel quale in poche righe passa da Platone a Nietzsche, da Esiodo ad Aristotele sino allo spesso ignorato Gorgia, e da hamartía a hýbris, è uno dei migliori del libro. La seconda parte del quale, «La tragedia in azione», verte su sedici delle trentatré tragedie che ci sono rimaste dopo il cataclisma che ha sconvolto il mondo antico (il solo Sofocle aveva firmato un centinaio di plays). Tutta la discussione è qui illuminante ed elegante, talvolta commovente e straziante. Per esempio, sulle Supplici di Eschilo, tragedia «arcaica e strana» il cui protagonista è il coro, «e per di più un coro di donne egiziane»; oppure sull’Orestea, la trilogia più celebre dell’antichità, sovrastata dall’Inno a Zeus dell’Agamennone e tutta dominata dalla giustizia secondo vendetta o secondo la legge; o infine sui Persiani, la più antica, composta dopo la battaglia di Salamina, che ha al centro non i vincitori, coloro che hanno salvato la Grecia, ma gli sconfitti, Serse e i suoi, con il suo punto culminante, davvero straordinariamente emozionante, del racconto della battaglia fatto da un soldato persiano.
Tesa e intensa la sezione su Sofocle, cui fa da epigrafe il celebre discorso di Antigone, «Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo». Edipo re, Filottete, Aiace, Antigone, Edipo a Colono: qui sì che pietà e terrore la fanno da padroni, in particolare nella trilogia tebana, con i due drammi su Edipo e l’Antigone. Coinvolgenti le pagine sugli ultimi due, insuperabile il racconto dell’«incontro con la morte» dell’Edipo a Colono, scritto da Sofocle a novant’anni quando egli stesso doveva sentirsi sul punto di morire, dramma unico tra tutti quelli che abbiamo in cui il protagonista muore semplicemente sparendo alla vista e aprendo un mistero: «l’hanno afferrato», commenta Antigone, «plaghe occulte in una sorte arcana».
Se la tragedia greca terminasse qui, la nostra purificazione si potrebbe dire compiuta. Invece, occorre fare ancora i conti con Euripide, verso il quale Guidorizzi, come Aristotele, ha un debole. Da Alcesti in poi, passando tra le altre per le storie tremende di Medea e di Eracle, «il più tragico» dei tragici, come lo chiamava proprio Aristotele, si rivela il più paradossale, passionale, irrazionale, intellettuale, sperimentale e rivoluzionario dei tre, uno che arriva a domandarsi, quasi fosse sospeso tra Parmenide e Amleto, «che cos’è, poi, un dio, cosa non lo è, e cosa c’è nel mezzo?». È colui, infine, che conclude la propria carriera, e tutta la grande tragedia del V secolo, con le Baccanti, nelle quali compare Dioniso stesso, il dio all’origine della tragedia, a sconvolgere le menti delle sue seguaci sino al punto che Agave uccide il figlio Penteo e il Coro di baccanti si interroga: «Cos’è mai la saggezza? quale il dono più bello degli dèi ai mortali?». E si rispondono: «Non è sapienza il sapere».
- Piero Boitani - Pubblicato su Domenica del 4/6/2023 -
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