Efficienti, dinamici, creativi. Ma anche: sovraccarichi, avviliti, depressi. Stanchissimi. Pieni di lavoro. Divisi fra call, impegni familiari e pubbliche relazioni, la luce blu degli smartphone che ci illumina il viso, la notte. Oppressi dal lavoro ma anche del lavoro innamorati, rapiti, vittime di una sindrome di Stoccolma aziendale. Perché oggi il lavoro è tutto e tutto è lavoro. Eppure, mai come oggi, la sensazione è che questo lavoro non basti. Mai come oggi, in un mondo post-pandemico che continua a cantare le magnifiche sorti del neoliberismo, lavorare è sembrato altrettanto privo di senso. Una domanda spettrale, allora, ha cominciato ad aggirarsi fra noi: ma chi me lo fa fare? Chi me lo fa fare di continuare a credere che il lavoro dei sogni arriverà e non mi sembrerà nemmeno più di lavorare? Chi me lo fa fare di continuare a pensare che se mi impegno, prima o poi ce la farò? Chi me lo fa fare di ritenere che non esista un’alternativa? Attraverso esplorazioni storiche e accurate ricognizioni del presente, Maura Gancitano e Andrea Colamedici ci spingono a riflettere sulle origini e gli sviluppi di un concetto, quello di lavoro, sfaccettato e controverso, mettendone in luce i legami con ciò che abbiamo di più sacro, come la religione o la moralità. Ma ci invitano anche a ribaltare la prospettiva sulle retoriche del privilegio o del merito. E soprattutto ci spingono a immaginare: una soluzione, un mondo in cui sia possibile cambiare. Ma chi me lo fa fare? diventa allora un atto d’amore verso la nostra finitezza e umanità, verso la nostra stanchezza e la nostra voglia di resistere. Una coraggiosa presa di coscienza per capire finalmente che il lavoro – per quello che oggi l’abbiamo fatto diventare – è una trappola, una a cui dobbiamo a tutti i costi sottrarci. Ma magari a passo di danza.
«Che il lavoro sia un valore in sé è una forma di superstizione moderna, molto più recente di quanto pensiamo e strettamente legata alla società di mercato. È una storia a cui abbiamo creduto e che sembra assurdo mettere in dubbio, ma che ogni giorno rivela sempre di più la propria inconsistenza. Del resto, è una bugia utile prevalentemente a chi si appropria della fatica altrui.»
(dal risvolto di copertina di: Andrea Colamedici e Maura Gancitano, "Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell'incantesimo". Harper Collins, pp256, €18,50)
Per spezzare l'incantesimo che ci ingabbia diciamo insieme: «C'é vita oltre il lavoro!»
- di Andrea Colamedici e Maura Gancitano -
L'idea che dal lavoro derivi il senso della vita non ha niente di naturale, ma è più recente di quanto pensiamo. Sono giusto un paio di secoli, infatti, che il lavoro occupa quasi tutto il tempo di veglia nella vita delle persone, a beneficio dei modelli di produzione e consumo della società industriale. Oltre he al livello ambientale ed economico, è sempre più chiaro che questo sistema sia insostenibile anche a livello umano. Una società tutta orientata alla produttività ha modificato il modo in cui gli esseri umani si percepiscono e ha spinto a sviluppare un'ossessione nei confronti del tempo - che è sempre poco, ci sfugge, va capitalizzato, va vissuto attimo per attimo - insegnando a misurare il proprio valore sulla base di quanto si è in grado di «performare».
Chi non riesce a reggere il ritmo, sta semplicemente dimostrando di non essere in grado di stare al mondo. Qualche anno fa abbiamo iniziato a parlare di «società della performance» nel tentativo di spiegare il dilagante malessere sociale legato all'ansia della produttività: a scuola, nelle relazioni personali, nello storytelling sui social bisogna dimostrare di essere proattivi, avere tutto sotto controllo, essere resilienti, in grado di attutire ogni urto. Questo, ovviamente, crea nelle persone un senso crescente di inadeguatezza, ansia, sindrome dell'impostore. Ciò accade in particolare nell'ambito lavorativo, che più di ogni altro è fatto di ruoli, convenzioni, verità non dette, ambizioni e necessità di sopravvivenza. Per questa ragione, ci è sembrato importante indagare quello che è accaduto al rapporto con il lavoro: come siamo arrivati a dargli un'importanza centrale nelle nostre vite, a definire il valore di una persona sulla basa del suo job title, di quanto lavora, di quanto guadagna? Perché sempre più persone - anche quelle che occupano un posto privilegiato - si ritrovano oggi stanche, frustrate e infelici? Si continua a raccontare il lavoro come leva di riscatto e progresso, come strumento aspirazionale che ci permetterà di realizzare i nostri sogni e di raggiungere benessere e sicurezze, oppure ci confrontiamo ogni giorno con un a realtà che del lavoro ci restituisce la sensazione di essere ostaggi di forze che non controlliamo che sono del tutto distanti dai nostri desideri e dal nostro percorso di fioritura.
In "Ma chi me lo fa fare?" parliamo di chi fa lavorare senza tutele e senza diritti, di chi nasce in una condizione di povertà o difficoltà economica e si sente dire che la ricchezza è a portata di mano, perché «se vuoi puoi» e «se ti impegni ce la fai». Parliamo anche di chi, al contrario, sulla base dei criteri collettivi ce l'ha fatta, eppure vive in costante burnout e non è felice. Ci interessava spiegare la ragione di questo malessere collettivo, che sta causando una vera e propria emergenza psicologica, e delineare la storia del rapporto con il lavoro che è diventata progressivamente sempre più asfittica e malsano. Abbiamo indagato l'idea culturale del lavoro perché forma la nostra visione del mondo e la adatta alla narrazione della meritocrazia - se ti impegni al massimo l'ascensore sociale sarà pronto a portarti in alto, fin dove meriti - e all'idea che si debba sempre dimostrare di essere forti, di avere il giusto mindset, e che ogni disuguaglianza si possa colmare con la sola forza della volontà. Non volevamo scrivere un libro distante dalla realtà, che dicesse alle persone di lasciare il lavoro e di non fare niente, perché quasi nessuno può farlo. Volevamo dare dignità, però, a chi non può permettersi di lasciare un lavoro sfiancante con una paga da fame, e finisce col sentirsi in colpa o accumulare livore e sfinimento, lavorando sempre di più e rinunciando a ogni pausa, ritrovandosi ogni mattina come nel giorno della marmotta a domandarsi davanti allo specchio: «ma chi me lo fa fare?»
È una fortuna che il mito della crescita e il sogno del successo stiano diventando idee sempre più vecchie a cui tante persone stanno smettendo di credere, e non è un caso che questo stia accadendo a tre anni dall'inizio della pandemia in poi: la paura e le restrizioni causate dal Covid19 non ci hanno resi migliori, ma hanno spinto molte persone a rimettere in discussione le proprie priorità. In tanti settori è stato chiesto un ritmo di lavoro ancora più veloce, tanti hanno finito col lavorare giorno e notte e non avere tempo e spazio davvero liberi dal lavoro, ma questo ha permesso all'incantesimo di rompersi, e come se la scenografia del reale si fosse mostrata per quello che è: finta, senza senso, insostenibile. Che senso ha correre come matti e non avere mai un momento di riposo, produrre e consumare senza fermarsi mai? Oggi sarebbe possibile avere un lavoro dignitoso senza che questo determini ciò che siamo e ciò che valiamo, cooperando e godendo di più diritti. La narrazione del lavoro come via del successo funziona ancora in gran parte per due ragioni. Perché ci tiene disuniti e intrappolati in dinamiche individualmente sono difficili da cambiare, e perché mettere in dubbio quell'idea culturale rischia di farti sembrare una persona privilegiata, che non ha voglia di fare niente, o un fannullone che vuole vivere sulle spalle di chi fatica, o un sognatore che crede alle utopie. Al contrario, mettere in dubbio l'idea del lavoro come centro della vita è importante soprattutto per migliorare la vita di chi non è nato in una condizione di privilegio e di chi negli ultimi tre anni ha visto peggiorare la propria condizione economica. Vivere tutti un po' meglio economicamente e psicologicamente - non è mai stato così facile, eppure chi lo dice rischia di sentirsi rispondere che sta chiedendo troppo. Al contrario, il benessere non è mai stato così vicino, eppure è visto attraverso una sorta di parete di cristallo: evidente ma irraggiungibile. L'unico modo per distruggere l'incantesimo in via definitiva è la cooperazione: iniziare a dire insieme, senza paura, che c'è vita oltre il lavoro.
- Andrea Colamedici e Maura Gancitano - Pubblicato su TuttoLibri il 20/5/2023 -
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