L'intreccio di crisi economiche, finanziarie, sociali ed ecologiche
- di Benoit Bohy-Bunel -
a) - Crisi economiche, finanziarie e sociali
La critica del valore, è una teoria critica originale delle crisi del capitalismo, a partire dal Marx «esoterico», visto in opposizione al Marx «essoterico».
Il Marx «essoterico» è il Marx che tutti conosciamo, quello che ha tematizzato la lotta di classe in quanto lotta per la ripartizione del denaro e del valore, senza mai rimettere in discussione, in quanto tali, queste categorie. Ha promosso la realizzazione del proletariato e ha sviluppato una critica dal punto di vista del lavoro, e non per l'abolizione del lavoro.
Il Marx «esoterico», invece, tematizza nei Grundrisse e ne Il Capitale le categorie di base del capitalismo, della merce, del lavoro astratto, del valore, e del denaro e mostra quello che è il loro carattere, storicamente determinato, nonché la necessità di superarlo in modo da superare il capitalismo.
Nel I capitolo del Capitale, Marx mostra che ogni merce possiede una duplice natura: essa è allo stesso tempo sia valore d'uso che valore. In quanto valore d'uso, consiste in una ricchezza materiale, la quale ha un corpo concreto che soddisfa a dei bisogni concreti. In quanto valore, essa consiste in tutto ciò che è comune alle merci, in maniera tale da renderle scambiabili tra di esse; si tratta di una determinazione astratta e quantitativa. La sostanza del valore, è il lavoro astratto, vale a dire, il lavoro che si riduce ad essere una determinazione sintetica e astratta, il lavoro «in generale», il lavoro indistinto e indifferenziato.
Ciò che determina la grandezza del valore, è il «tempo di lavoro socialmente necessario», ossia, il tempo in media necessario - in una data società - a produrre una determinata merce. Il lavoro concreto, invece, nel contesto di una determinata divisione del lavoro, crea il valore d'uso delle merci. Merce e lavoro, pertanto, si trovano ad essere duplicati e raddoppiati; cosa che comporta una vera e propria inversione tra il lavoro concreto e quello astratto: il lavoro concreto è solamente il portatore del lavoro astratto, così come il valore d'uso e il lavoro concreto non sono altro che dei pretesti che permettono l'auto-valorizzazione del valore.
Il denaro diventa la manifestazione fenomenica del valore, e la radicalizzazione della forma valore, che come prima cosa rende equivalenti le merci tra di esse.
Alla fine, la dinamica del capitale si trova contenuta nella formula: D - M - D' ( denaro-merce-più denaro ). La vendita delle merci prodotte permette di ottenere una somma di denaro superiore al valore iniziale, poiché esiste un bene produttivo - la forza lavoro - che produce più valore di quanto costi. Il lavoratore, o la lavoratrice al servizio del capitale, infatti, svolge un plus-lavoro, a partire dal quale si genera un plusvalore, permettendo l'aumento del capitale nella sua circolazione.
Ciò che in questo processo conta, è quindi l'astrazione del valore, del denaro, o del lavoro astratto. Il valore si auto-valorizza indefinitamente. Il lavoro concreto e il valore d'uso non sono altro che dei mezzi per il fine dell'auto-valorizzazione del valore astratto, senza alcuna prospettiva che ci possa essere un farsi carico consapevole dei desideri e dei bisogni degli individui. Pertanto, il valore diventa autonomo come «soggetto autonomo» (Marx), vale a dire, come sostanza dotata di auto-movimento che rende i soggetti produttori dei semplici oggetti di un processo di produzione separato dai loro desideri e aspirazioni concrete.
Si tratta di una dinamica di crisi. E come ci ricorda Nuno Machado (Nuno Machado, in «La "première version" de la théorie de la crise chez Marx», in : Jaggernaut 2, Crise et critique, 2020), nel marxismo tradizionale esistono tre teorie dominanti riguardo la crisi:
La teoria della Sproporzionalità, che spiega la crisi a partire dalla sproporzione tra i diversi rami di attività che compongono l'economia capitalista.
La teoria del Sottoconsumo, che spiega la crisi a partire dallo scarto esistente tra la produzione e il consumo da parte della massa della popolazione.
La teoria della Sovraccumulazione, che giustifica la crisi partendo dalla caduta del saggio di profitto, causato dall'aumento della composizione organica del capitale, vale a dire, attraverso l'adozione di una tecnologia di produzione che impiega sempre più capitale.
Ma come dice Nuno Machado, «in Marx, abbiamo anche un'altra lettura possibile della crisi, basata sulla dinamica della produzione e dell'accumulazione del capitale. Questa teoria indica, come causa fondamentale della crisi capitalistica secolare, la caduta assoluta della massa globale di plusvalore, derivante dalla riduzione assoluta della forza lavoro impiegata. Lo sviluppo delle forze produttive materiali, entra in un'insormontabile contraddizione con la forma borghese della ricchezza: il valore.»
Riprendiamo l'argomentazione di Machado. Per prima cosa, dobbiamo tenere in mente quali sono i limiti del plusvalore assoluto, e quali i limiti del plusvalore relativo, Marx suddivide la giornata lavorativa in due parti: il tempo di lavoro necessario e il plus-lavoro. Durante il primo periodo, i lavoratori producono il valore necessario alla riproduzione della forza lavoro. Nel corso del secondo periodo, producono il plusvalore. Il plusvalore assoluto consiste nel prolungare la giornata lavorativa, facendo aumentare il plus-lavoro. Marx ci spiega come per questo plusvalore assoluto esistano dei limiti fisici e morali.
Dopo il plusvalore assoluto, segue il plusvalore relativo. Machado ci ricorda che esso può essere estratto in due modi:
- attraverso l'intensificazione del ritmo lavorativo, che implica il miglioramento del macchinario, l'accelerazione del suo funzionamento e l'obbligo per il lavoratore di accompagnarlo. In un tale contesto, la sussunzione del lavoro sotto il capitale diventa reale.
- Il plusvalore relativo, può essere estratto anche attraverso l'aumento del tempo di plus-lavoro rispetto al tempo di lavoro necessario. Questo significa abbassare il valore del lavoro, aumentando la produttività in quei settori che forniscono il paniere dei beni che vengono acquistati dai lavoratori con il loro salario.
Il problema con il plusvalore relativo, riguarda il fatto che tanto più si riduce quella parte del lavoro necessario prima dell'aumento della produttività, tanto più piccolo sarà l'aumento della parte di plus-lavoro. Più il capitale viene valorizzato, più diventa difficile perseguire questa valorizzazione a causa dei limiti del plusvalore relativo. Tuttavia, Machado fa notare che qui interviene un secondo problema: la massa di plusvalore viene determinata dal numero de lavoratori simultaneamente occupati. Infatti, la massa di plusvalore prodotto è uguale alla giornata lavorativa del lavoratore individuale, moltiplicata per il numero dei lavoratori occupati (Marx, Il Capitale, I). La logica del plusvalore relativo, implica uno sviluppo tecnologico e scientifico che si traduce nella contrazione del contingente dei lavoratori salariati: e ciò porta ad una contrazione della massa del plusvalore. Inoltre, va sottolineata la contrapposizione tra ricchezza concreta e ricchezza astratta, tra valore d'uso e valore. Lo sviluppo delle forze produttive significa che la massa del valore d'uso aumenti sempre più, ma che allo stesso tempo la grandezza del valore delle singole merci diminuisca, dal momento che il tempo di lavoro socialmente necessario tende anch'esso a diminuire. Nel capitalismo, i valori d'uso sono solamente i portatori dell'astrazione del valore. Lo sviluppo della produttività implica che il valore, alla fine, si contrapponga alla ricchezza concreta. Secondo Marx, tale opposizione può causare il collasso del sistema della valorizzazione: «Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo: da una parte, si sforza di ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre dall’altra pone il tempo di lavoro come la sola fonte e l'unica misura della sua ricchezza. (...) Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza indipendente (...) dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali (...) figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per far saltare in aria questa base.» (Grundrisse).
D'altra parte, il sovrasviluppo delle forze produttive può significare la diminuzione assoluta del lavoro vivo, e quindi la contrazione della massa di plusvalore, fino al collasso. Sempre nei Grundrisse, Marx scrive: « Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità del lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta (...) non è minimamente in rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso tecnologico, in altre parole, dall’applicazione di questa scienza alla produzione. (...) La ricchezza reale si manifesta (...) nell'enorme sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto.(...) L’uomo stesso si pone in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore. (...) Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore deve cessare di essere la misura del valore d’uso. (...) Ciò significa che la produzione basata sul valore (...) e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.» (Grundrisse).
Ad un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive abolisce il capitale stesso, abolendone la sua sostanza, che è il lavoro astratto. Kurz evoca un fenomeno di desostanzializzazione del valore. Il modo di produzione capitalistico è vittima «di una riduzione, non solo relativa ma anche assoluta del numero di lavoratori utilizzati» (Il Capitale, I). Ciò causa una contrazione della massa di plusvalore.
Machado pertanto afferma che la rivoluzione microelettronica (terza rivoluzione industriale) conferma il fallimento sistemico del capitalismo. Fin dall'inizio, esso espelle fuori dalle zone produttive, una massa considerevole di lavoro produttivo. Come sostiene Jappe, questa rivoluzione «non introduce un nuovo modello di accumulazione: da subito, rende inutile, "non redditizio", un'enorme quantità di lavoro. A differenza del fordismo, lo fa a un ritmo tale che nessuna estensione dei mercati può essere in grado di compensare la riduzione della parte di lavoro contenuta in ciascuna merce. La micro-informatica, taglia definitivamente il legame esistente tra la produttività e il dispendio di lavoro astratto incarnato nel valore» (Jappe, Les aventures de la marchandises, pp. 156-157).
La terza rivoluzione industriale conferma l'esistenza di un limite interno assoluto alla valorizzazione capitalista, e allo stesso tempo implica anche lo sviluppo di un esercito di superflui.
Il fatto che un simile limite interno assoluto rimanga nascosto agli stessi capitalisti, dipende dal loro focalizzarsi sul concetto mistificante di profitto. Il profitto è il plusvalore una volta dedotti i costi di produzione (capitale costante; macchinario e materie prime; capitale variabile; forza lavoro). Il legame esistente tra plusvalore e plus-lavoro, non viene percepito dai capitalisti. I costi di produzione dipendono dal tasso medio di profitto. Non sono identici al valore. È per questo che perciò i costi di produzione possono rappresentare una mistificazione che impedisce ai capitalisti di rendersi conto che stanno distruggendo, globalmente, il loro stesso sistema di valorizzazione. Del resto, un capitalista individuale, se investe in tecnologia avanzata, può effettivamente ottenere dei profitti addizionali. Ma a livello globale di sistema, la generalizzazione di tale comportamento, indotto dalla concorrenza, determina una massiccia contrazione della massa del plusvalore.
Nel capitalismo neoliberista, dopo la terza rivoluzione industriale, è stato iniettato nell'economia, in dosi massicce, del capitale finanziario privato, al fine di compensare la contraddizione interna che imperversa nell'economia reale. La finanza deve anticipare la creazione di valore futuro. La finanza ha cessato di essere una mera appendice del capitale produttivo, ma è diventata il motore dell'economia. Stavamo assistendo a un vero e proprio «capitalismo a rovescio» (cfr . Trenkle, Lohoff, La grande dévalorisation). Ma, alla fine, la massiccia desustanzializzazione del valore doveva rendere impossibile il rimborso di questo debito. Perciò, la crisi del 2007-2008 si spiega così più a partire dalla contraddizione presente nell'economia reale, definita da Marx nei Grundrisse, piuttosto che per mezzo del debito degli Stati o di qualche «follia» della finanza; in quanto questo sono solo effetti derivati.
Bisogna anche dire che la diminuzione assoluta del lavoro vivo significa diminuzione del lavoro produttivo. Solo il lavoro produttivo produce il plusvalore, e consente il processo di valorizzazione. Come ci ricorda Machado, il lavoro produttivo si trova inserito nella produzione di merci, è lavoro salariato, consiste di forza lavoro venduta a un capitalista, è un lavoro che viene impiegato nella produzione nel trasporto di beni e di servizi, che è coinvolto direttamente nel processo produttivo, e che produce un plusvalore a partire dalla fornitura di un plus-lavoro. Nella categoria dei lavoratori produttivi troviamo, per esempio, operai, tecnici, specialisti, ingegneri, dirigenti, ecc. Al contrario, i lavoratori improduttivi sono quelli che forniscono servizi personali in cambio di un reddito (governanti, giardinieri, ecc.); li troviamo nel settore pubblico; e nella sfera della circolazione (banche, assicurazioni, consulenza, contabilità, ecc.); li troviamo nella sfera della produzione e del trasporto, ma non sono direttamente coinvolti nel processo produttivo (pubblicità, marketing, pulizia, ristorazione, servizio clienti, ecc.) Negli ultimi 30 o 40 anni, mentre il numero di lavoratori produttivi è diminuito, il numero di lavoratori improduttivi è relativamente aumentato. Come ci ricorda Machado, è vero che il capitale improduttivo realizza un profitto, ma questo profitto è una deduzione della massa di plusvalore sociale creato dal lavoro produttivo. È così che la massa di plusvalore si contrae, che si forma un capitalismo «rovesciato» e finanziarizzato, che si sviluppa un esercito di superflui e che si manifestano le crisi economiche, finanziarie e sociali, tanto più violente perché il capitalismo è un sistema autodistruttivo.
b) - Crisi economica e Crisi ecologica
Per comprendere come si intreccia la crisi ecologica con la crisi economica, possiamo seguire l'argomentazione svolta nell'articolo di Daniel Cunha «La nature dans la "contradiction en procès"» (in : Jaggernaut 2, Crise et critique, 2020).
Bisogna innanzitutto partire dal problema dei limiti naturali. In «Crisi del valore di scambio», Kurz afferma: «Tuttavia, il concetto di questo processo di espansione del capitale rimane vuoto e confuso se viene esaminato solamente rispetto alla sua forma valore, e non viene sistematicamente correlato al contenuto materiale della sua espansione. Il processo di accumulazione può essere compreso come infinito solo in assenza di una relazione sistematica fra l'accumulazione ed il suo substrato materiale. Dopo tutto, la ricchezza astratta nella forma del denaro è per sua natura illimitata ed interminabile, e soltanto il suo contenuto materiale è soggetto ad un limite storico assoluto. Tuttavia, non ci può essere nessuna accumulazione senza il suo portatore materiale, per quanto l'ideale del capitale sarebbe l'assenza di tale portatore. L'assorbimento prolungato di lavoro vivente immediatamente produttivo deve riferirsi ad un tale contenuto materiale e ad un tale portatore, il quale può essere tracciato sia storicamente che concretamente sotto diversi aspetti.» Kurz aggiunge che una delle conseguenze dell'accumulazione di capitale basata sul plusvalore relativo è «un'escalation della produzione materiale di prodotti, che a sua volta spinge ad un'espansione dei mercati e ad un'accelerazione dell'accumulazione. (...) Il mercato mondiale, in quanto teatro economico della guerra per i mercati di merci e capitale, della guerra per le fonti di materie prime, per le sfere di influenza, e così via, viene trasformato in un'arena politica globale».
Ma, secondo Cunha, in Postone la relazione tra crisi ecologica e accumulazione di capitale sarebbe ancora più esplicita. Postone afferma: «Quella che si crea, è una tensione di fondo tra le considerazione ecologiche e gli imperativi del valore in quanto forma di ricchezza e di mediazione sociale. Ciò implica anche che ogni tentativo di rispondere veramente, nel quadro della società capitalista, alla crescente distruzione ambientale, facendo ricorso alla moderazione del modo di espansione di questa stessa società, con ogni probabilità a lungo termine si rivelerebbe efficace; e questo non solo a causa degli interessi dei capitalisti o dei capi di Stato, ma anche perché l'incapacità a incrementare il plusvalore comporterebbe gravi difficoltà economiche e giganteschi costi sociali. Per Marx, la necessaria accumulazione di capitale e la creazione di ricchezza nella società capitalistica sono intrinsecamente legate. Non solo (...) dal momento che, sotto il capitalismo, il lavoro è determinato come un mezzo necessario alla produzione individuale, i lavoratori salariati rimangono dipendenti dalla «crescita» del capitale, perfino anche quando le conseguenze di quello che è il loro lavoro, ecologiche o meno, sono nocive per loro stessi o per gli altri. Con l'aumentare della produttività, la tensione esistente tra le esigenze della forma merce e le necessità ecologiche peggiora, e pone un serio dilemma, specialmente durante i periodi di crisi economica e di disoccupazione di massa. Tale dilemma e la tensione in cui si radica sono immanenti al capitalismo; e finché il valore rimarrà la forma determinante della ricchezza sociale, la loro risoluzione definitiva rimarrà impossibile» (Postone, Time, Labour and Social Domination, pp. 693-694).
Nel suo articolo «Sulle catastrofi socio-naturali» (lignes, 2005), Kurz approfondisce la questione della crisi ecologica, basandosi sui concetti di degrado della natura e di esternalizzazione: «Il moderno sistema di produzione di merci, basato sulla valorizzazione del capitale-denaro in quanto fine in sé, rivela il suo carattere irrazionale in due modi: tanto a livello macro dell'economia nazionale e globale, quanto a livello micro dell'economia di impresa.»
Il macro-livello, vale a dire la somma sociale di tutti i processi di valorizzazione e di mercato, genera l'imperativo di far crescere in maniera permanente e astratta tutta la massa dei valori. Ne risultano delle forme e dei contenuti di produzioni e di modi di vita distruttori, incompatibili con i bisogni sociali e con l'ecologia delle interrelazioni naturali (trasporto individuale, urbanizzazione incontrollata, distruzione del paesaggio, agglomerati urbani mostruosi, turismo di massa, ecc.). Al micro-livello dell'economia di impresa, gli imperativi della crescita e della concorrenza implicano una politica di «riduzione dei costi» in qualsiasi modo; poco importa che il contenuto della produzione sia utile o distruttivo. Ma, nella più parte dei casi, i costi non scendono in maniera oggettiva, essi vengono semplicemente dislocati verso l'esterno; verso la società nel suo insieme, verso la natura, o verso il futuro. Questa «esternalizzazione» dei costi appare perciò, da un lato, sotto forma di «disoccupazione» e di povertà, e dall'altro sotto forma di inquinamento dell'aria e dell'acqua, dell'impoverimento e dell'erosione del suolo, della trasformazione distruttiva delle condizioni climatiche, ecc.
Ortlieb riassumerà benissimo tutte queste questioni nel suo articolo «Una contraddizione tra materia e forma»: «La questione non è quindi sapere se l'ambiente viene distrutto in nome della valorizzazione del valore, ma piuttosto quella di sapere in che misura ciò avviene. E da questa prospettiva, l'aumento della produttività, finché rimane - sotto forma di produzione di plusvalore relativo - strettamente legato al valore come forma predominante della ricchezza, gioca un ruolo del tutto mortale, dal momento che la realizzazione di quella stessa massa di plusvalore richiede una produzione materiale sempre più grande, e un consumo di risorse ancora più grande: infatti, la realizzazione di nuove tecnologie col fine di ridurre il tempo di lavoro necessario, in genere avviene sostituendo o accelerando il lavoro umano per mezzo di macchine.»
In generale, il processo di valorizzazione implica un aumento della composizione organica del capitale: il capitale costante (e soprattutto le macchine, il capitale fisso) aumenta rispetto al capitale variabile (forza lavoro). L'espansione della meccanizzazione implica il sovrasviluppo dei combustibili fossili (gas, petrolio, carbone); cosa che aggrava la crisi climatica. La spinta capitalistica alla produttività è pertanto all'origine della crisi climatica, ed è per questo motivo che si deve parlare di capitalocene. più che di antropocene (ad essere responsabile di questa crisi, non è affatto «l'uomo in generale», ma piuttosto uno specifico sistema di valorizzazione, gestito da una classe profittatrice cieca e contradditoria).
Inoltre, Cunha insiste sulla natura vista come capitale circolante (materie prime e materie accessorie). Cunha spiega come la caduta del valore del capitale circolante sia un ulteriore meccanismo di compensazione nel contesto della crescita. La diminuzione del valore del capitale circolante può ritardare l'effetto della contraddizione interna legata all'aumento della composizione organica del capitale. Per fare diminuire il valore del capitale circolante - afferma Cunha -, il capitale può allargare sempre più le frontiere delle materie prime (sfruttamento di nuove miniere, di nuovo suolo, di nuovi territori di pesca, ecc.). Alla fine, l'esaurimento delle risorse sarà uno dei fattori delle crisi economiche, poiché significa la scomparsa di un fenomeno che serve a compensare la contraddizione interna.
Pertanto, in questo modo, la logica contraddittoria dell'accumulazione capitalista, l'opposizione tra ricchezza materiale e ricchezza astratta, la compulsione alla produttività, le crisi economiche e sociali, sono tutte sottilmente intrecciate all'attuale crisi ecologica: crisi climatica, esaurimento delle risorse naturali, erosione del suolo, estinzione di massa delle specie.
c) - La critica del valore non è attendista
Ecco un pregiudizio comune circa la critica del valore (proveniente da coloro che non l'hanno mai letta). Ecco che così viene detto che la critica del valore sarebbe attendista, in quanto si limiterebbe semplicemente ad attendere che si sviluppino le contraddizioni interne al capitalismo, fino al suo «fatale» collasso. Una semplice citazione di Kurz, ci consente di mettere le cose in chiaro. È evidente che la critica del valore non è un atteggiamento di attesa. Oggi, la vera corrente attendista, massicciamente diffusa, è la «Collassologia».
Pertanto, ne «La sostanza del capitale», Kurz sostiene: « Così, infatti, ciascuno può seguire in televisione la progressione delle "catastrofi naturali" sociali, fino a quando non arriva la sua, rimanendo tuttavia impotente ad emanciparsi nel contesto che genera tali catastrofi. Al contrario, gli esseri umani in linea di principio potrebbero emanciparsi anche senza dover aspettare che il capitalismo collassi. Questo famoso crollo non è in alcun modo una precondizione sociale indispensabile per l'emancipazione, ma invece può, nella sua cieca oggettività, costituire un ambito propizio per il pensiero e per l'azione emancipatrice, nel caso che la trasformazione emancipatrice dovesse tardare troppo, dando così al capitalismo l'occasione di un pieno sviluppo delle sue contraddizioni interne. »
La formula «gli esseri umani in linea di principio potrebbero emanciparsi anche senza dover aspettare che il capitalismo collassi», costituisce l'opposto dell'attendismo. Nell'espressione «nel caso che la trasformazione emancipatrice dovesse tardare troppo», la parola «troppo» sottolinea come Kurz intenda assolutamente riferirsi a una trasformazione emancipatrice che abbia luogo il meno tardi possibile. Non sta affatto dicendo, cinicamente, che le contraddizioni interne devono svilupparsi al massimo, per far sì che si sviluppino i potenziali di emancipazione. La parola «troppo», sembra addirittura indicare che Kurz è soprattutto favorevole alla trasformazione emancipatrice più immediata possibile; persino se, purtroppo, è possibile che questa emancipazione verrebbe maggiormente favorita in una situazione in cui il capitalismo ha già sviluppato tutte le sue aberrazioni. Kurz, e la critica del valore in generale sono al di là dell'attendismo e dello spontaneismo.
- Benoit Bohy-Bunel - Pubblicato il 20 aprile 2021 -
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