Per generale consenso, Vertigo [La donna che visse due volte] è il più inestricabile tra i film di Hitchcock – e per alcuni il più bello (o uno dei due o tre supremi). Questo libro si propone di dire perché. E perché Vertigo abbia un film gemello: Rear Window [La finestra sul cortile], che invece è usualmente considerato molto più semplice e immediato, mentre si potrebbe rivelare altrettanto vertiginoso.
Ma parlare di questi due film è come parlare del cinema in sé, quindi anche di Max Ophuls, di Rita Hayworth, dell’epifania della «diva» e di un romanzo di Kafka che è innervato dal cinema da capo a fondo: Il disperso [America].
(dal risvolto di copertina di: Roberto Calasso, "Allucinazioni americane". Piccola Biblioteca Adelphi, 765 € 14,00)
Lo Zen e l’arte del cinema
- di Alberto Anile -
C'è stato un tempo in cui la critica cinematografica più che i film indagava la loro essenza. Il tempo di Sadoul, di Chiarini, del Bazin che interrogava: Qu’est-ce que le cinéma? «Il cinema è un fenomeno idealista», si rispondeva, addì 1946. «L’idea che gli uomini se ne erano fatti esisteva ben salda nel loro cervello, come nel cielo platonico, e ciò che ci colpisce è piuttosto la resistenza tenace della materia all’idea che non le suggestioni della tecnica sull’immaginazione dei ricercatori». Voci lontane, sempre presenti. Perché nell’epoca delle immagini numeriche, delle piattaforme digitali in ascesa, della moltiplicazione e dissoluzione del cosiddetto “film”, qualcuno riprende a investigare, a cercare di capire di cosa parliamo quando parliamo di cinema, magari tornando come Bazin alle radici ideali ed esoteriche di un’arte inafferrabile.
Antico spettatore di pellicole («avevo quattordici anni e provavo ad andare al cinema, se possibile, ogni giorno, anche due volte») Roberto Calasso ha raccolto in un nuovo libretto Adelphi riflessioni vecchie e nuove, intitolandole Allucinazioni americane. La più parte è dedicata a due capolavori di Hitchcock, La donna che visse due volte e La finestra sul cortile, ma il nocciolo rimane la ricerca sulla natura del cinema, inteso come teatro del simulacro, dell’immagine mentale — Calasso preferisce il vocabolo latino figmentum — o come «ballo dei fosfeni», allucinazioni erratiche e imprevedibili alla base delle immagini mentali. Ripescando un’intervista radiofonica a Max Ophuls, il cinema diventa ancora il riverbero di una finestra illuminata, apparizione protetta dietro un vetro; e quindi allucinazione e iperrealtà, come nello stile del Disperso di Kafka, più conosciuto come America, il romanzo in cui Calasso individua fra l’altro suggestioni dei musical di Busby Berkeley.
Per Calasso il cinema è teatro mentale e dubbio in espansione, stato alterato della coscienza, sospetto d’inganno ed esaltazione del falso. Il cinema come produzione e pedinamento di copie, di simulacri, di fantasmi. Come “sogno”? Calasso non usa mai questo termine. La dimensione del sogno attraversa in fondo molto cinema, Hitchcock e poi Lynch, Malick, Gilliam, Davies, Bellocchio, Moretti, Sorrentino, Garrone; e Fellini, ovviamente, che in Intervista mise in scena il suo tentativo di girare un film proprio dall’incompiuto America di Kafka (un sogno dentro un sogno, entrambi interrotti). Ma Calasso evita l’aggettivo onirico, forse lo reputa generico: il suo cuore batte per i miti classici e per le antiche saggezze indiane. La donna che visse due volte metterebbe in scena un patto strategico fra “idolo” biblico e “copia” platonica, mentre la metafisica della Finestra sul cortile si può leggere anche attraverso il Bhagavadgita.
A due terzi abbondanti del libretto, Calasso si gioca il tutto per tutto: ha la visione della faccia di «Hitchcock, protetta dall’imponente baluardo del suo labbro inferiore, incastonata nella cornice proliferante di un tempio indù». L’immagine è talmente spericolata che il lettore può essere portato a malignare: l’aria compassata di sir Alfred, quel suo labbro sporgente e sdegnoso, manifestano anche un giudizio dell’artista nei confronti del suo esegeta più temerario? Forse è venuto in mente anche a Calasso, che aggiunge «è un po’ come guardare un film di Mizoguchi attraverso Plotino», e subito dopo si giustifica: «Perché no, dopo tutto? Che altro fare se la psicologia e la psicoanalisi occidentali sono così rudimentali e inadeguate rispetto a Hitchcock?».
Il fatto è che l’espressione artistica più popolare consente anche la più elitaria delle interpretazioni. Il cinema, fra le sue tante caratteristiche, ha pure questa: che assai più che per altri argomenti — l’astronomia, la culinaria, il calcio... — se ne parla e lo si analizza a partire innanzitutto dalla soggettività dello spettatore, dalla sua intelligenza peculiare, dalle proprie inclinazioni personali. I paralleli di Calasso con il mondo dei fosfeni o dell’induismo sono innanzitutto prova della fertilità dell’opera d’arte cinematografica. Il cinema provoca una reazione emotiva e intellettuale che non ha eguali nel dibattito artistico, permette tante forme d’interpretazione quanto più è vasta e variegata la platea: accade per i film molto più che per la musica o la letteratura.
È una dimostrazione della superiorità del cinema su tutto il resto, e Calasso a un certo punto lo mette nero su bianco: «oggi un romanzo medio è quasi un affronto, mentre in un film medio si potrà (quasi) sempre scoprire qualcosa, e soprattutto lo si seguirà fino in fondo senza rancore». Come se la bellezza, l’arte, la creatività, si siano trasferiti nel mondo fantasmatico del cinema, come se proprio lì si fosse realizzata quella che l’autore definisce una «grandiosa migrazione degli dèi».
- Alberto Anile - Pubblicato su Repubblica del 6 maggio 2021 -
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