Un virus chiamato desiderio
- di Slavoj Zizek -
Dopo questa lunga pandemia non solo sono state interrotte le nostre abitudini quotidiane, ma ci stiamo stancando del desiderio stesso. Oggi, anche nei nostri discorsi si può percepire la stanchezza causata dal Covid.
All'inizio del 2021 ero stufo di scrivere commenti nuovi sulla pandemia: diventa sfibrante ripetere sempre i soliti concetti, soprattutto quando si è immersi in una situazione sempre uguale a sé stessa. È paradossale che, sebbene si pensi che sottostare ad abitudini ripetitive e stabili sia faticoso, ciò di cui oggi siamo stanchi è proprio l'assenza di abitudini stabili.
Ne abbiamo abbastanza di vivere in uno stato di eccezionalità permanente, in attesa che lo Stato ci dia nuove disposizioni. In questo modo, non riusciamo a rilassarci nella vita quotidiana. Produciamo noi stessi e ci mettiamo costantemente in mostra. Questa produzione de sé, questa continua visibilità dell'ego, ci affatica e ci deprime. La stanchezza fondamentale è, in ultima analisi, una stanchezza dell'ego. Lavorare da casa non fa che intensificarla, invischiandoci ancora più profondamente in noi stessi. Gli altri, che prima della pandemia, potevano distrarci dal nostro ego, oggi non ci sono. L'assenza del rituale è un altro motivo di stanchezza indotta dallo smartworking. Per favorire una maggiore flessibilità, stiamo perdendo le strutture temporali e le architetture definite che stabilizzano e rinvigoriscono la vita. Il paradosso, dunque, è che con la pandemia questo essere costantemente in mostra è amplificato dal lockdown e dal lavoro da casa. Si cerca di sprizzare energia su Zoom ma in realtà siamo a casa da soli, seduti e stanchi.
Tuttavia, la sensazione di arresto, il torpore, la crescente indifferenza che spinge sempre più persone a ignorare le notizie persino a preoccuparsi del futuro, è assai ingannevole e cela il fatto che stiamo vivendo un cambiamento sociale senza precedenti. Dall'arrivo della pandemia, l'ordine capitalista globale si è trasformato immensamente. La grande svolta che aspettiamo con ansia, è già in atto. E questa strana combinazione di stanchezza e cambiamento incontrollabile non può che incidere sulla nostra capacità di desiderare.
Partiamo di alcuni concetti di base. Viviamo il godimento, la juissance, come mediato dalla figura dell'Altro. È il godimento dell'Altro a noi inaccessibile, come lo è il piacere della donna per l'uomo o il piacere di un altro gruppo etnico per il nostro. Oppure, è il nostro legittimo godimento che ci viene sottratto da un Altro o che è minacciato da un Altro. Jacques Lacan aveva predetto già all'inizio degli anni Settanta che il capitalismo della globalizzazione avrebbe generato una nuova forma di razzismo incentrata sulla figura di un Altro che minaccia di portarci via il godimento - ossia la grande soddisfazione di vivere a modo nostro - o che possiede ed esibisce un godimento eccessivo che ci sfugge. Ciò che disturba dell'Altro è di solito incarnato in piccoli dettagli quotidiani. Il tipico liberale potrebbe dire, per esempio, di non avere pregiudizi nei confronti degli ebrei, degli arabi e degli africani, ma che non gli piace l'odore del loro cibo e che la loro musica è troppa rumorosa. Qualcosa disturba. Questo godimento, che non è diretto ma è il piacere di un certo modo di vivere, è molto simile a ciò che Lacan chiama plusgodere: il plusgodere è qualcosa che si aggiunge a un godimento di livello zero, per così dire. La lezione da trarre è che non si può sfuggire a certi piaceri osceni. Anche rinunciando al piacere, il surplus emerge, e si inizia a godere di rituali di autoumiliazione e rinuncia. È così che funziona il consumismo capitalista.
C'è poi un altro aspetto: il legame tra capitalismo e sessualità. Sono tentato di dire che il capitalismo è, in un certo senso, un fenomeno sessuale che incorpora il paradosso fondamentale della sessualità umana. Capitalismo e sessualità implicano una struttura omologa. Godiamo dell'immagine feticizzata di una merce, non dell'oggetto in quanto tale. E diciamo che in un contesto capitalista la sessualità funziona così: la soddisfazione si trova nelle immagini.
Ma io penso che il divario tra la mera realtà dell'oggetto e la sua immagine sia già inscritto nella sessualità stessa. Mi spiego meglio. Poco più di un anno fa Eva Wiseman ha scritto un editoriale per The Guardian in cui cita un momento di The Butterfly Effect, una serie di podcast sulla pornografia in Internet. Wiseman fa riferimento a una scena in cui, sul set di un film porno, un attore nell'atto di penetrare la partner perde l'erezione. Per ritrovarla, si allontana dalla donna distesa nuda sotto di lui, afferra il telefono e accede a PornHub in cerca di pornografia hard core. Per Eva Wieman questo è quasi apocalittico, e lo commenta così: «C'è del marcio nel sesso». Ma per la psicoanalisi, c'è del marcio nel sesso in quanto tale. La sessualità umana è di per sé perversa, esposta al sadomasochismo e, in particolare, alla commistione tra realtà e fantasia. Dunque capisco l'attore che, per ritrovare l'erezione, decide di andare su PornHub. È in cerca di un sostegno fantasmatico alla sua prestazione.
E rieccoci al tema principale: piacere, sacrificio, capitalismo. Il capitalismo offusca il paradosso del desiderio facendo costantemente ciondolare davanti ai nostri occhi la promessa di una soddisfazione futura. Invece di ammettere che questa promessa è solo uno schema illusorio per giustificare il sacrificio e le rinunce del presente, il capitalismo inverte le cose e ci presenta sacrifici e rinunce come strumenti idonei a ottenere l'immaginaria soddisfazione futura.
- Slavoj Zizek - Intervento del 19/6/2021 su https://torinospiritualita.org/ -
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