Speranza disperata?!?
di Terry Eagleton
Qualcuno ha sostenuto che l’evento più sanguinoso della storia sia stata la rivolta di An Lushan e la guerra civile cinese dell’ottavo secolo: secondo alcune stime – ricalcolate in proporzione alla popolazione mondiale della metà del ventesimo secolo – essa avrebbe provocato lo sbalorditivo equivalente di 429 milioni di morti. Si ritiene che in quella tragedia abbiano infatti perso la vita due terzi dei cittadini dell’impero cinese e un sesto della popolazione mondiale dell’epoca. Le conquiste mongole del tredicesimo secolo, che avrebbero causato l’equivalente di 278 milioni di morti, non sono molto distanti. Tamerlano avrebbe massacrato – sempre in proporzione alla popolazione attuale – il quintuplo delle vittime di Stalin, e la guerra dei trent’anni vanterebbe il doppio dei cadaveri della Prima guerra mondiale. La seconda conta 55 milioni di morti effettivi; e persino la guerra civile inglese potrebbe aver fatto fuori mezzo milione di persone. Lo sterminio degli indiani d’America batterebbe i massacri di Mao Zedong in una proporzione di oltre due a uno. Nel ventesimo secolo, 40 milioni di persone sono morte in battaglia.
Non c’è dubbio: molti dei nostri antenati erano decisamente cattivi, e così un certo numero dei nostri contemporanei. La Bibbia descrive un mondo di stupri, saccheggi, torture, schiavitù e indiscriminate carneficine. Gli antichi Romani legavano donne nude a un palo per violentarle o farle divorare da animali; san Giorgio fu fatto sedere a cavalcioni di una lama affilata con pesi legati alle gambe, poi lo arrostirono, gli trapassarono i piedi, lo frantumarono sulla ruota dentata, gli piantarono sessanta chiodi nel cranio e infine lo segarono a metà. Al colmo dell’oltraggio, lo hanno anche eletto a patrono dei boy scout. Un atro-citologo calcola che il numero di vittime delle crociate, se proporzionato alla popolazione globale del tempo, sia all’incirca lo stesso dell’Olocausto. In parecchie epoche, si veniva messi a morte per una maldicenza o un furto di cavoli, perché si raccoglieva un bastone di sabato, si litigava con i genitori o si esprimeva un giudizio critico sui giardini del re. Fino a tempi piuttosto recenti, la tortura non era né sporadica né clandestina né universalmente deplorata, ma sistematica, pubblica e persino encomiata come stimolo all’inventiva tecnologica.
Non che i precedenti ispirino speranza. Di fatto, se questo spaventoso frastuono di accetta e di sgorbia va semplicemente attribuito alla natura umana, è difficile immaginare grandi prospettive di miglioramento. Che riguardi la natura umana, non c’è da metterlo in dubbio. Se gli umani sono in grado di comportarsi così, ne segue che fa parte della loro natura. È questa, dunque, la cattiva notizia. Quella buona è che tale natura non è affatto incondizionata. È modellata dalle circostanze storiche, che fin ora non sono state nostre complici. In tutta la storia umana, la politica è stata violenta e malvagia. La virtù, quando ha prosperato, è stata una questione largamente privata o minoritaria. In The Cure at Troy, Seamus Heaney parla dei momenti quasi miracolosi in cui speranza e storia fanno rima, ma il rapporto fra le due è per lo più assomigliato a quello fra le terminazioni del blank verse. Ma ciò accade, almeno in parte, perché le donne e gli uomini sono stati costretti a vivere in sistemi sociali che producono penuria, violenza, antagonismo reciproco. È questo che ha in mente Marx quando scrive che la storia passata pesa come un incubo sul cervello dei viventi. E in ogni istante esiste molto più passato che presente. Come in una tragedia di Ibsen, in ogni momento di crisi esso tende a fare irruzione e a demolire le prospettive di emancipazione futura. In condizioni del genere, è improbabile che donne e uomini diano moralmente il meglio di sé. Le loro meno ammirevoli propensioni tenderanno ad aggravarsi. Non intendo che, se fossero liberi da quelle pressioni, si comporterebbero da cherubini. Certamente, fra la cittadinanza generale, rimarrebbe una quota ragguardevole di criminali, sadici ed entusiasti torturatori dilettanti. Il fatto che gran parte dei nostri comportamenti più deprecabili sia prodotta dai regimi sotto i quali viviamo non ci scagiona certo da ogni biasimo. Siamo stati noi a costruire quei regimi. Eppure, tutto ciò significa che alle persone rispettabili e di buon cuore tocca esercitare queste virtù in contrasto con la storia. In questo senso, si tratta di un esperimento morale truccato. Perciò, come accade anche con la dottrina del peccato originale, della nostra incompetenza e bellicosità non possiamo attribuirci tutta la colpa. Che le nostre pene siano per lo più sistemiche è da una parte motivo di scoraggiamento, perché i sistemi possono essere incredibilmente difficili da cambiare; ma è anche una ragione di speranza. Non sappiamo quanto moralmente più degni saremmo se le istituzioni cambiassero. Forse non molto. Ma dobbiamo a noi stessi una possibilità di scoprirlo. Chi parla di oscurità del cuore degli uomini è forse più avventato che in torto. Dunque, è questa la buona notizia; la cattiva è che non c’è ragione di presupporre che sia più semplice curare i mali creati dagli uomini che i mali naturali. Forse troveremo una cura per il cancro, ma non per l’assassinio.
La speranza tragica è speranza in extremis. Il concetto di progresso, insiste Benjamin, deve fondarsi sull’idea di catastrofe. L’ottimista non può disperare, ma neppure conosce l’autentica speranza, perché rinnega le condizioni che la rendono necessaria. Erik Erikson, riferendosi allo sviluppo dei bambini piccoli, definisce la speranza come «la convinzione permanente della realizzabilità dei desideri ferventi, nonostante le forze oscure e violente che segnano l’inizio dell’esistenza». Solo fidandosi dell’amore di chi lo accudisce, il bambino può non cadere in preda a quelle forze maligne. Alla fine del Dottor Faustus di Thomas Mann, forse il più perfetto ritratto del male in letteratura, il narratore parla di quello che chiama «la più profonda lamentazione […] che […] sia mai stata intonata su questa terra». È la cantata sinfonica Lamentatio doctoris Fausti, l’ultima composizione musicale di Adrian Leverkühn prima che il patto col diavolo lo trascini all’inferno. L’opera esprime un profondo cordoglio, è un «cupo poema musicale [che] non ammette alcun conforto o conciliazione o trasfigurazione». Eppure, non si può concepire, chiede il narratore, «che dalla più profonda dannazione, sia pure come lieve interrogativo, germini la speranza?» E continua: «Sarebbe la speranza al di là della disperazione, la trascendenza della disperazione – non il tradimento ai suoi danni, bensì il miracolo che va oltre la fede. Ascoltatelo questo finale, ascoltatelo con me: i gruppi di strumenti si ritirano l’uno dopo l’altro e quello che rimane è soltanto il sol sopra il rigo d’un violoncello, l’ultima parola, l’ultimo suono svanente che si spegne adagio nel pianissimo. Poi non c’è più nulla – silenzio e notte. Ma il suono che ancora vibra nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la fine della tristezza, ora non lo è più, muta di significato, è quasi un lume nella notte.»
La cantata non termina con una tremula nota di speranza. Al contrario, come ogni musica, finisce nel nulla: nel silenzio. Ma questo silenzio è particolarmente palpabile, e trasforma retroattivamente la nota finale del compianto in una nota d’affermazione, consentendole di tramutarsi in qualcosa di nuovo nel momento stesso in cui svanisce. La morte della musica genera una tenue scia. È come se la cantata finisse due volte: una nella realtà, quando l’ultima nota scompare, e l’altra nella mente, mero spettro di un suono, quando qualcosa riemerge misteriosamente dal nulla. L’ultima nota si ascolta due volte: la prima mentre vive, la seconda da morta, ma è nella sua morte che sembra più viva. Quando la nota è letteralmente in vita, è, come lo stesso Faustus, piena di dolore per l’imminente rovina; ma una volta trapassata in quel vuoto, si ripete in modo diverso, risuona nuovamente di un senso trasfigurato. Nel fatto che le cose muoiono, non c’è solo dolore, ma anche speranza. Forse c’è anche la speranza che un’imperscrutabile fonte di misericordia abbracci con il proprio favore il demoniaco protagonista: sospeso – come l’ultima nota della sua cantata – fra la vita e la morte, il suo genio, guidato dalla morte, ha tuttavia partorito un’arte al servizio dei vivi.
- Frammento finale del IV capitolo di "Speranza (senza ottimismo)", di Terry Eagleton. Ponte alle Grazie, 2016 -
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