Inizialmente pubblicato su un periodico parigino e solo nel 1936 uscito in volume, Giorni maledetti è la terribile cronaca – ambientata sullo sfondo di due città, Mosca e Odessa – della guerra civile che insanguinò la Russia tra il 1918 e il 1919. Protesta appassionata contro la rivoluzione bolscevica e insieme difesa nostalgica delle fondamenta patriarcali della Russia, il libro è uno dei rari resoconti del periodo che avrebbe cambiato per sempre il destino della Russia. Bunin riferisce di conversazioni catturate per strada, cita estratti di giornali e discorsi di personaggi illustri, evoca le grandi figure letterarie e politiche dell’epoca senza nascondere avversioni e antipatie. Tradotto per la prima volta in italiano, Giorni maledetti è anche l’unica opera in cui l’autore abbandona il suo abituale e altero riserbo per dare voce alla disperazione personale di fronte alla “catastrofe” rivoluzionaria.
(dal risvolto di copertina di: Ivan Bunin, "Giorni maledetti". Voland 2021, pp. 224, € 18,00)
Maledetti bolscevichi
di Wlodek Goldkorn
Cominciamo dall’incipit: «Quest’anno maledetto è finito. E ora? Forse qualcosa di ancora più terribile ci attende». L’autore di questo righe è Ivan Bunin, scrittore russo, Nobel per la letteratura nel 1933. L’anno maledetto è il 1917, l’anno delle due rivoluzioni, quella di febbraio che depone lo zar e quella dell’ottobre che vede l’ascesa al potere del partito bolscevico, guidato da Lenin e Trockij. Qualche riga dopo si legge: «La Russia è in rovina». I giorni maledetti, il testo da cui sono tratte le due citazioni, in uscita con Voland (traduzione e cura di Marta Zucchelli), è un diario dello scrittore, composto in mezzo all’apocalisse e nel cuore della catastrofe. Le parole, le imprecazioni, le riflessioni disorientano il lettore avvezzo a vedere quel periodo della storia russa (indipendentemente dalla valutazione sulla natura del bolscevismo) come estremamente interessante, non tanto e non solo dal punto di vista politico, quanto da quello culturale, con la miriade di espressioni artistiche, letterarie, poetiche, teatrali che portavano nel grembo la promessa di un mondo nuovo, fuori dagli schemi del secolo precedente e scevro di nostalgia romantica o passatista. E invece, per Bunin la Rivoluzione non è altro che la manifestazione del Male nella storia, i bolscevichi sono dei “farabutti” mentre i suoi colleghi, scrittori e poeti che vi hanno aderito, sono dei ridicoli opportunisti Detto così, sembrerebbe che il libro in questione sia lo sfogo di un reazionario, incapace di cogliere lo spirito del tempo e quindi l’interesse per il testo sarebbe relativo. E invece, la lettura di I giorni maledetti è un’esperienza affascinante. Prima di tutto, ovviamente, per la qualità della scrittura. Chi conosce Bunin — e citiamo il suo meraviglioso Il signore di San Francisco, uscito mesi fa con Adelphi — sa bene quanto sia delicato, tenero e preciso il suo linguaggio. Ed è nota la sua attenzione per l’umanità, per gli umili e gli oppressi. Ecco, in questo testo, passionale, scritto come se fosse una serie di annotazioni in diretta, e dove la rabbia è spesso presente e gli insulti compresi, è stupendo proprio l’idioma. Si tratta infatti di una prosa in cui l’indignazione si trasforma immediatamente, sotto gli occhi del lettore, in una riflessione sulla natura della Russia e sulla Storia che si compone di tante piccole storie, e in fine su che cosa sia il Tempo. L’ottima prefazione della curatrice è di grande e prezioso aiuto in questa impresa.
Il testo è diviso in due. La prima parte si svolge a Mosca nel 1918 e fino alla primavera del 1919. La seconda a Odessa. L’autore fugge in città sul Mar Nero ad aprile sempre del 1919 e vi resta fino all’estate 1920, quando si imbarca su una nave e parte per l’Occidente e la Francia, paese in cui vivrà fino alla fine dei suoi giorni, nel 1953. Ora, prima della prima guerra mondiale, Bunin, nato nel 1870, era un autore molto conosciuto e apprezzato, stimatissimo dall’amico Cechov. Nei suoi frequenti viaggi si fermava a Capri dove frequentava la villa di Gorkij, luogo di incontri dei socialisti russi. Insomma, era un uomo di mondo, liberale e illuminato. E in fondo, tale è rimasto. Però, nella Rivoluzione russa, a differenza di coloro che ne vedevano un fenomeno di progresso, avverte solo la regressione. Per prima cosa intuisce come il motore e il soggetto vero della Rivoluzione bolscevica siano i soldati, la massa dei militari che non vogliono più combattere sui fronti della guerra. Ma chi sono questi soldati? Non sono operai delle industrie, ma mužík, i contadini, figli di persone che fino a pochi decenni prima erano servi della gleba. Si ricorda come un giorno, ai tempi dello zar, suoi amici intellettuali progressisti, abbiano pensato di fargli avere un inutile telegramma di congratulazioni. Erano ubriachi e a causa della loro bravata, una contadina poverissima e analfabeta al servizio delle poste in un villaggio, dovette farsi venti chilometri in slitta, d’inverno, di notte, al freddo, in cambio di pochi spiccioli. Sommo disprezzo. Ecco perché il popolo ha ragione di odiare i ricchi e gli istruiti. Ma quell’odio, fattosi gregario del nuovo potere, a Bunin fa orrore e lo terrorizza. Per lui, i bolscevichi, anziché i Lumi portano al popolo la Tenebra, ne esaltano il lato oscuro, alla Rasputin, e non quello magnanimo narrato da un Tolstoj.
Gustosi sono gli aneddoti sul poeta Majakovskij, icastiche le annotazioni sull’ex amico Gorkij, interessanti i brusii e le voci delle strade mentre la fame regna sovrana e le fucilazioni sono all’ordine del giorno. Infine: un’intuizione percorre tutto il libro. In genere si dice che i bolscevichi volessero accelerare il lentissimo Tempo russo. Bunin lascia invece capire che Lenin e i compagni mettendo fuori gioco la Memoria, il Tempo lo volevano del tutto abolire. Ma così finiva il mondo.
- Wlodek Goldkorn - Pubblicato su Robinson del 1° maggio 2021 -
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