martedì 15 giugno 2021

FIST

La mia prima e unica tessera sindacale l'ho presa -  e l'ho tenuta per pochi mesi - parecchi anni or sono. Non era ancora il 1978, e pertanto il bel film di Norman Jewison, con Sylvester Stallone - F.I.S.T. - non era ancora uscito. Eppure era F.I.S.T. la sigla che campeggiava scritta su quella tessera della Federazione Italiana Sindacati Trasporti della CGIL.
Mi avevano assunto - è stato quello il mio primo lavoro - come impiegato in una ditta di trasporti industriali. Un'azienda bella grossa, con 5 sedi in tutt'Italia e con decine di camionisti salariati oltre a un parco macchine di tutto rispetto. L'impresa faceva un gioco facile: quando uno dei suoi mezzi - il bilico, o l'articolato che fosse -  diventava troppo vecchio e i suoi costi di manutenzione si avvicinavano pericolosamente ai margini del profitto che garantiva, ecco che allora a quel punto si faceva l'offerta all'autista, condendola di prospettive dorate. E improvvisamente l'autista si trasformava seduta stante da autista, da operaio camionista in «padroncino», e si trovava da un momento all'altro costretto a lavorare il doppio (quando gli andava bene) per poter onorare le cambiali che aveva dovuto firmare per potersi comprare il mezzo così tanto «vantaggiosamente» offertogli.
Già, gli autisti! Buoni solo a farti vedere dove fermarsi con la macchina per rimediare un buon pasto ad un buon prezzo. Per il resto, gentaglia, con i loro baracchini e con le loro case viaggianti, con il loro fondo spese di mance da elargire alla polizia stradale. Gente da evitare, le pance prominenti e il turpiloquio e la rissosità e la birra, gente che non dorme mai! Gente che ho amato!
Ci ho avuto a che fare, e non poco, con questa gente. Me lo ricordo ancora, il Provvedi che stava via una settimana e quando tornava a casa la moglie gli preparava una frittatina con le salsicce che gli piaceva tanto, dodici uova! E di quella volta che senza volere, di notte, ammazzò un ragazzino. Col motorino, senza che lui se ne accorgesse, gli si era infilato sotto il camion. Quando s'era fermato ed era sceso, l'aveva visto, sdraiato, morto sul serbatoio, e non smise di piangere per una settimana, e non era stata colpa sua.

Gli s'era portato il sindacato, nell'azienda, perché volevano licenziare un paio di impiegati, fra cui me. «Siete gli ultimi arrivati, ci dispiace il lavoro diminuisce, c'è crisi. Voi siete gli ultimi, non avete figli e andate a casa». No, dico io, aspetta un momento, e anche gli altri impiegati, quelli che a casa non correvano il rischio di doverci andare, dissero loro di aspettare un attimo. E poi anche gli autisti, quasi tutti, via via che si facevano vedere negli uffici. Cinquanta o più tessere, per quel sindacato che qualche mese dopo si sarebbe venduta la vertenza sul «salario integrativo», impedendo e disdicendo lo sciopero brandendo la minaccia delle dimissioni della segreteria. E in un'infuocata assemblea la segreteria venne mandata in culo e le tessere vennero strappate, erano durate poco, ma me la sentivo.
Certo, al momento della minaccia del licenziamento da parte della ditta, il loro lavoro l'avevano fatto bene. Erano arrivati con gli avvocati e pronti alla denuncia. Ma non c'è da stupirsi, se adesso di camionisti in CGIL non ne hanno più. Il trasporto – che ora chiamano Logistica - continua ad essere una fabbrica, una fabbrica diffusa in grado di bloccare tutto, come si è capito in questi giorni. E bloccare tutto è l'unica strada percorribile, l'unica lotta in grado di pagare. Certo, sono brutti, sporchi e cattivi e macinano un migliaio di chilometri al giorno (Guido, che faceva i trasporti internazionali, mi diceva che, di ritorno da Londra, quando vedeva le luci di Parigi, sentiva di essere arrivato quasi a casa!), però, quando si fermano, si fermano davvero, e forse possono riuscire anche a fermare questa macchina infernale che ci macina le ossa, e che ci sta stritolando sempre più, senza possibilità di salvezza. Ci vengono agitati davanti agli occhi, come spauracchio, e ci raccontano che dobbiamo ricordarci che sarebbero stati i camionisti a far cadere Allende a favore di Pinochet. E si scordano che, anche se questo fosse stato vero, una lotta è un'arma, e di per sé, come un fucile, un’arma non sta né con Pinochet né con Draghi! Sono brutti, sporchi e cattivi e, magari, in odor di mafia o di 'ndrangheta o di camorra e, per questo, si dice, squarciano le gomme e tagliano i tubi dei freni ai camion dei crumiri, scordandosi che impedire al crumiro di lavorare è condizione per vincere. Magari pensano anche davvero di essere fascisti, o hanno Padre Pio che occhieggia malevolo dalla loro cabina. Magari tutto questo insieme, oppure niente di tutto questo. Non lo so. Sono andato via da quel posto, lo lasciai pochi mesi dopo. Avevo vinto un concorso che mi permetteva di lavorare quattro ore in meno la settimana, percependo metà dello stipendio che mi dava il lavoro che lasciavo. Ma non ho mai smesso di frequentarla quella gente, non ho mai smesso di parlarci, ci ho anche viaggiato insieme per qualche giorno. Quando li incontro, li abbraccio, e so da che parte stanno.

Quelli che ho smesso, da tempo, di frequentare, sono i sindacati, tutti! No, niente sindacati, ché son fatti della stessa sostanza di cui è fatto il fumo delle ciminiere. La imparai da subito la lezione, dopo qualche mese, sul mio nuovo posto di lavoro, insieme a non tanti pochi altri, organizzando uno sciopero di categoria. Si fece lo sciopero di quelli che allora erano stati chiamati «meccanografi» (così avevano definito tutti i nuovi assunti come me che avevano messo a scrivere a macchina su degli stani aggeggi che assomigliavano a delle telescriventi; del tutto ignari di quello che ne sarebbe derivato), lo si fece da soli, senza nessun sindacato. Noi altri, e basta! Ma questa è stata un'altra storia ancora... Una storia che ormai sta finendo per assomiglia sempre più a quella che una volta mi raccontò mio padre. Una storia successa in un dopoguerra pieno di speranze, alla fine degli anni '40, la storia di un giovane operaio poco più che ventenne, eletto segretario della piccola FIOM di Siracusa, il quale strappò anche lui la sua tessera quando si accorse che c'era chi si vendeva le vertenze sindacali. Era mio padre!

- già pubblicato sul blog il 28/1/2012 -

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