venerdì 10 aprile 2020

Tempus fugit

Il pollice che compulsa freneticamente lo schermo dell’iPhone; le notifiche a fare da sottofondo costante; mail inviate e ricevute a qualsiasi ora. L’immagine più comune che abbiamo di noi stessi è quella di persone sempre di corsa, prive del controllo del proprio tempo e ostaggi dello smartphone, che ci avrebbe allontanati dalla “vera comunicazione umana”. Niente più che uno stereotipo, sostiene Judy Wajcman: in realtà i device tecnologici hanno anche un potente valore emancipatorio e numerosi studi hanno dimostrato che dagli anni Sessanta a oggi il tempo libero è aumentato, non diminuito. Bisogna invece riconoscere che siamo schiavi di un modello che ci siamo autoimposti, prigionieri del mito dell’accelerazione che pensiamo tipico della nostra epoca ma che in realtà ha una lunga tradizione alle spalle, e di un modello di vita indaffarata che spesso è considerato solo uno status symbol. La tirannia del tempo è un libro che invita a un profondo ripensamento del dibattito sull’equilibrio tra vita privata e lavoro, e sulle dinamiche emergenti della nostra società.

(dal risvolto di copertina di: Judy Wajcman, "La tirannia del tempo. L'accelerazione della vita nel capitalismo digitale". Treccani)

Noi, i dannati della velocità
di Massimiliano Panarari

Tempus fugit. Che è sostanzialmente come dire che il «tempo è tiranno», seppure in modo più gentile. D’altronde, spostandoci lievemente di significato, la modernità e, ancor più, la postmodernità identificano le epoche in cui si costruisce e, via via, si esprime in maniera sempre più massiccia la Tirannia del tempo, come si intitola il libro uscito in questi giorni di Judy Wajcman (Treccani, pp.312, €23; traduzione di Daria Restani). Con un sottotitolo, L'accelerazione della vita nel capitalismo digitale, che segnala l'impennata della tirannide temporale nella stagione della tecno-economia libidinale), quella del telelavoro non-stop, multitasking e h24, a colpi di clic e con il naso totalmente sprofondato nello smartphone.
Ma siamo proprio sicuri che sia davvero così?, si domanda l'autrice, sociologa della London School of Economics. Le cause scatenanti di questa sfrenata dipendenza lavorativa, secondo Wajcman, vanno ricercate con la dovuta attenzione, e sarebbero meno immediate di quanto appaia a prima vista. Il suo testo si colloca all'interno di un filone di indagini critiche sulle metamorfosi generate dal tecno-capitalismo postmoderno durante quest'ultimo ventennio, in cui - con toni non coincidenti - rientrano libri come "Il capitalismo della sorveglianza" di Soshana Zuboff (Luiss University Press), "Capitalismo 24/7" di Jonathan Crary (Einaudi) e "Insieme ma soli" di Sherry Turkle (Einaudi). Ma le sue conclusioni sono, appunto, piuttosto differenti.
Nel corso degli ultimi anni le tecnologie hanno prodotto una formidabile «compressione spazio-temporale», che è esattamente il fondamento del loro impiego nelle economie di mercato, e una delle ragioni fondamentali per cui ci rivolgiamo a esse e ne siamo tanto attratti. E costituiscono dunque un innegabile strumento di emancipazione e di incremento del tempo libero, che dovrebbe essere riconosciuto come tale - anche se, per esempio, non riescono ancora a costituire una soluzione così efficace rispetto all'incombenza delle faccende domestiche. E la concezione della casa tecnologica - quella celebrata nella sua evoluzione dalla rivista-bibbia della cultura digitale Wired, e ritratta in maniera iconica da film come Matrix - Si è sviluppata solo nella direzione della domotica, riflesso, sostiene la studiosa australiana specializzata in gender studies, del modello maschile (nerd e geek) dei programmatori e degli sviluppatori.
E, dunque, non è dei device tecnologici che saremmo schiavi, bensì di una grande narrazione che ha innervato il Moderno, e ha identificato un pilastro delle culture del modernismo: quella della fascinazione per la velocità. Dal ritmo frenetico della metropoli raccontato da George Simmel al futurismo italiano (e alle avanguardie artistiche in genere), dalla pianificazione razionalista e funzionale in architettura (Le Corbusier su tutti) fino alla musica elettronica e tecno, la mitologia dell'accelerazionismo ha forgiato la mentalità dell'Occidente capitalistico. E ha reso la nostra una «società ad alta velocità», esponendoci tuttavia al «paradosso della pressione del tempo». Quello per cui viviamo in un'epoca in cui le tecnologie riducono sensibilmente i tempi necessari per fare qualunque cosa, ma moltissimi nutrono ansiosamente la sensazione di avere sempre meno tempo a disposizione. Perché si sentono sotto pressione e sotto una «tirannia del tempo» che dispiega i suoi effetti in maniera differenziata a seconda del ruolo all'interno dei processi produttivi.
L'odierna deprivazione di tempo ha quindi molto a che fare con l'organizzazione del lavoro a cui i singoli sono sottoposti. E che penalizza innanzitutto le donne lavoratrici, e relega in una condizione molto problematica coloro che operano in seno alla gig economy e si ritrovano appunto privati del controllo del loro tempo. Per modificare lo stato delle cose, dice Wajcman, occorre però una rivoluzione culturale vera e propria. Dal momento che le società occidentali venerano coloro che sono più occupati, e quello che lei considera il «fascino perverso» dell'accelerazione ha convertito il paradigma di un'esistenza ipercinetica e pienissima in un autentico status symbol. Mentre, secondo la sociologa, si dovrebbe decelerare, riscoprire i lavori manuali e «smettere di rispondere alle mail dopo le 5 del pomeriggio».
Del resto, visto che il tempo fugge, la storia dell'umanità è anche quella di un incessante ed estremo, ma ontologicamente vocato alla sconfitta, tentativo di arrestarne il fluire. E di lasciare qualche traccia del nostro effimero e transeunte passaggio terreno. Uno sforzo che ha anch'esso, per molti versi, cambiato natura a causa della rivoluzione digitale. Un fenomeno che, ricorrendo abbondantemente all'immaginario della cultura pop contemporanea delle serie tv scandaglia in "Ricordati di me" (Bollati Boringhieri, pp.156, €17) il filosofo dell'Università di Torino Davide Sisto. A partire da quei social network che, nella condivisione di momenti, immagini ed esperienze, si sono di fatto trasformati in giganteschi archivi digitali di condivisione della memoria. Per sempre, in un certo senso, e lasciando agli storici dell'avvenire una serie di giacimenti e depositi ricchissimi. Dentro i quali - e spetterà proprio a loro sciogliere i nodi e distinguere - il plagio e il «copia e incolla» si mescolano indissolubilmente alla cooperazione e agli atti di sharing.

- Massimiliano Panarari - Pubblicato sulla Stampa del 6/4/2020 -

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