«Un altro mondo è possibile e può essere raggiunto molto presto»
- di John Holloway -
- 1 - L'impasse.
Qualsiasi sistema di dominio tende a riprodursi attraverso un modus vivendi, un riconoscimento di quelli che sono i due aspetti della forza dell'altro. Di solito non ci rendiamo conto di questo modus vivendi, esso fa semplicemente parte della quotidianità. È come quell'elemento morale che, secondo Marx, rientra nella definizione del valore della forza lavoro: si tratta di alcune aspettative riguardo a ciò che è necessario per la riproduzione della vita. Si traduce anche in un concetto di civiltà, di dignità, di ciò che consideriamo accettabile, o civile nella vita di ogni giorno. È ovvio che questo vari da un luogo all'altro e da un gruppo sociale all'altro, ma tuttavia, in ogni momento esiste sempre un equilibrio di forze sociale, un'idea di ciò che ci aspettiamo dalla vita.
Per entrambe le parti, questo modus vivendi è una lotta continua. Da un lato, l'esistenza del capital dipende dalla costante intensificazione dello sfruttamento, e dalla frenetica riduzione del tempo richiesto per produrre le merci. L'esistenza del capitale, in altri termini, è un continuo attacco a quelli che sono i modelli consolidati delle relazioni sociali. C'è sempre una resistenza, sia sotto la forma di un'azione sindacale, di un movimento di resistenza, del sabotaggio, della malattia, del tempo dedicato a giocare con i figli e con i nipoti, qualsiasi cosa: azioni consapevoli, o inconsce motivate dal desiderio di poter mantenere, di migliorare oppure, soprattutto, di determinare lo stile di vita.
La contrapposizione tra le esigenze del capitale e la resistenza umana, tende ad esprimersi in una caduta del coefficiente di profitto. In tal caso, il capitale (attraverso quelli che sono i diversi capitali, dal momento che in generale non si tratta di un'azione coordinata) si scaglia con impeto maggiore contro i modelli di vita consolidati. In questa situazione, il capitale può avere successo o meno. In molti casi riesce ad imporre cambiamenti drammatici nell'equilibrio della vita: la Grecia dopo il 2011, il Messico negli anni '70, i paesi della ex Unione Sovietica dopo la sua caduta, l'Argentina ripetutamente e più volte. Ma nel caso non riesca a spezzare la resistenza, dispone di un'altra via d'uscita. Può fingere il contrario. Può camuffare la propria incapacità di incrementare sufficientemente lo sfruttamento, aumentando i suoi profitti attraverso il debito. Indebitandosi, può anticipare la creazione futura di plusvalore, o meglio può scommettere su quella che sarà la futura creazione di plusvalore, in modo da attenere così profitti. Il modus vivendi, il modello consolidato delle relazioni sociali, si trasforma a questo punto in un vicolo cieco, in una situazione che non può più essere risolta. La costante ed enorme espansione del debito, avvenuta a partire dagli anni '70, indica che ci troviamo in presenza di un'impasse di questo genere. Nonostante tutta la forza messa in campo, in tutto il mondo, dall'attacco «neoliberista» alle condizioni di lavoro e di vita, ciò che è stato ottenuto dal capitale non ha eliminato la resistenza che ostacolava la redditività. Perciò, ci si continua ad infilare sempre più in un mondo fittizio in cui i profitti apparenti non hanno alcuna base materiale in quella che è la produzione di valore.
L'espansione del debito ha un aspetto inconscio ed un aspetto cosciente. Da una parte, è semplicemente l'azione di tutti i capitali (e anche di tutti gli individui) che cercano un modo di sopravvivere o (nel caso dei capitali) di aumentare i loro profitti. Dall'altro lato, si tratta dell'azione cosciente degli Stati che creano (attraverso la loro spesa, la politica fiscale) o incoraggiano (con le politiche monetarie) la creazione del debito. Sostanzialmente, l'intervento dello Stato è il riconoscimento dell'impasse sociale, il riconoscimento di una resistenza che non può essere superata. Resistenza che si esprime attraverso le lotte sindacali e di ogni altro tipo. Sebbene venga espressa attraverso l'opinione pubblica e ola democrazia. La democrazia può servire ad indicare quali sono i limiti che ha il capitale nel ridefinire il modus vivendi. Serve come un «fin qui». Questo è importante, perché ogni attacco condotto dal capitale contro la socialità consolidata è una scommessa, un gioco di morte. Il capitale si deve domandare: «Posso imporre davvero i cambiamenti di cui ho bisogno, o finirò per perdere il controllo sociale ?» A volte gli succede di esagerare e di rischiare di perdere il controllo: Argentina 2001-2002, Grecia nel 2008, Cile, lo scorso anno. Le elezioni aiutano il capitale nella sua capacità di misurare le possibilità, ma non necessariamente. La forza della resistenza - la quale costituisce l'impasse del capitale e lo spinge sempre più in quello che è un mondo simulato, fragile ed instabile - non è limitata perciò solo alla militanza e all'anticapitalismo cosciente. Non è solo un'insubordinazione, ma piuttosto una non subordinazione, una mancanza di subordinazione che si esprime nella quotidianità di quelle che sono le nostre abitudini e le nostre aspettative.
La crisi finanziaria del 2008/2009 mostra la forza dell'attacco capitalistico, e allo stesso tempo mostra anche quale sia la forza dell'impasse. La crisi finanziaria, le misure statali per contrastarla e le politiche di austerità imposte per pagare quelle misure, hanno avuto un enorme impatto in tutto il mondo. La perdita della casa, la disoccupazione, i tagli ai servizi sanitari così evidenti in questo momento, i tagli all'istruzione, l'eliminazione delle opportunità per i giovani, l'aumento della violenza: tutto ciò è ben documentato (McNally, per esempio) e si traduce nella crescita di una rabbia sociale che, da un lato, si esprime in tutte le lotte sociale del 2011 e degli ultimi due anni, ma dall'altra anche nell'emergere della destra nazionalista in molte parti del mondo.
Ma se pensiamo al 2008 come ad una crisi, non cogliamo il pericolo insito nella situazione attuale. Si è trattato di un'importante ristrutturazione del capitale e del modus vivendi sociale, ma allo stesso tempo è stata anche un'operazione di salvataggio senza precedenti, per evitare quella che sarebbe stata una ristrutturazione ancora più violenta del capitale e delle condizioni di vita. È stato un momento di panico in cui lo Stato americano e tutti gli Stati hanno speso somme enormi per evitare un collasso finanziario globale e poi, attraverso le politiche di Quantitative easing, mantenere il flusso di credito, e quindi la sopravvivenza delle società bancarie e non bancarie. Si è reso evidente quale sia il principio che guida l'azione statale, e che appare ancora più evidente in questa crisi attuale: mantenere in vita i molteplici capitali per tenere in vita l'ordine sociale; se vanno a pezzi i capitali, ci troviamo di fronte il caos sociale. Bisogna riconoscere che la crisi finanziaria del 2008/2009 è stata una combinazione tra imporre una ristrutturazione e, allo stesso tempo, evitare la ristrutturazione, riconoscendo così la forza dell'impasse sociale. Ciò è importante perché, nella situazione attuale non è certo che questa impasse che costituisce la base della nostra quotidianità possa essere mantenuta.
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Tuttavia, non sono ancora chiare quali siano le dimensioni economiche della Corona-krisis, anche se tutto sembra indicare che sarà la più grave degli ultimi 90 anni. Possiamo vederla in 3 fasi:
La prima può essere compresa nei termini del valore d'uso. Il virus ha avuto come effetto quello per cui le persone non vanno al lavoro, ed in particolare che certi tipi di attività ne sono state particolarmente colpite: turismo, linee aree, ristoranti, ecc. Come effetto inevitabile, il prodotto cala, siamo tutti un po' più poveri ma poi torniamo a lavorare e recuperiamo le perdite. In un altro tipo di società non ci sarebbero problemi per ripartire le perdite causate dalle settimane di ozio forzato. Per niente, la vita continua.
Le cose si complicano dal momento che ci troviamo in una società capitalistica e l'attività dipende dai profitti. Nell'attuale situazione di emergenza, molte imprese non riusciranno a sopravvivere e ci sarà molta disoccupazione, soprattutto in quelle aree più direttamente colpite. Quando finirà la quarantena, tali imprese non esisteranno più, e nemmeno quei posti di lavoro.
In realtà, le cose sono ancora più complicate di così perché la base del capitalismo moderno è il credito, e prima della comparsa del coronavirus il mondo si stava già incamminando verso una crisi creditizia. Negli ultimi 40 anni c'è stata in tutto il mondo un'enorme crescita del credito. Ciò significa che la riproduzione del capitale è sempre più simulata, ed è un'accumulazione di quote e di titoli a partire da una parte di plusvalore che non è stato ancora prodotto. Il risultato è un capitalismo aggressivo e instabile, in cui tutti si litigano un plusvalore futuro che probabilmente non verrà mai prodotto. La crisi del 2008, è stata il risultato di questa situazione, senza che però l'abbia risolta. Il credito ha continuato a crescere. Nella situazione attuale, tutto questo significa che il problema per le imprese non è esattamente quello che non si stanno realizzando dei profitti, ma piuttosto che non possono pagare quelli che sono i loro debiti. E se non possono pagare i loro debiti, non possono ottenere più credito e quindi non possono pagare stipendi, né affitti, né tasse.
Non c'è solo il pericolo di fallimento di alcune imprese, ma quello dell'intero sistema interconnesso di debitori e finanziatori. Non è esattamente com’era nel 2008, perché sembra che la situazione delle banche sia più sicura ora rispetto a 12 anni fa, però le società non finanziarie sono fortemente indebitate. Se le imprese non possono pagare i loro debiti, questo si ripercuoterà anche sulla stabilità delle banche. Per questo motivo, gli enormi interventi statali delle ultime settimane si sono concentrati soprattutto sul mantenimento del sistema creditizio. in modo che le grandi e le medie imprese, e fino ad un certo punto anche quelle piccole, possano continuare a pagare i loro debiti e ottenere così credito. Un esempio estremo di tutto questo, è la decisione della Fed (la Banca centrale statunitense) di comprare anche i cosiddetti «junk bond» [titoli spazzatura], cioè acquistare debiti che sicuramente non verranno onorati per mantenere il flusso di credito. Questi enormi interventi che rompono con tutta l'ortodossia finanziaria, sono estensioni di quello che è il debito globale, vale a dire, del carattere fittizio dell'accumulazione. Sono motivati non solo dal desiderio di proteggere i loro amici capitalisti (il che è senz'altro vero), ma soprattutto dalla paura che se si rompe la macchina del capitale, si romperà anche l'ordine sociale che su di esso si basa. In questa situazione di panico, si giustifica tutto: si dimentica la questione del rischio morale, si dimentica tutto il timore ortodosso di rompere l'equilibrio del bilancio statale, di minare la solidità del denaro.
Ciò che ancora non sappiamo, è se questi interventi statali senza precedenti saranno sufficienti. C'è il pericolo di un'ondata di mancati pagamenti talmente grande che tutto il credito che viene offerto dalle banche centrali non sarà sufficiente per la copertura di tutto il sistema. Potrebbe essere che gli Stati non abbiano più risorse per poter contenere la crisi. Si tratta di una preoccupazione espressa dai commentatori che comprendono queste cose assai meglio di me (per esempio, Mackenzie sul Financial Times del 18 aprile).
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In alcuni paesi, si sta già parlando di abolire le misure di quarantena e di tornare alla normalità. La normalità che si delinea sarebbe una combinazione di crisi-e-di ristrutturazione, da un lato, e di salvataggio-e-prolungamento-rimando della crisi, dall'altro. Come nel 2008/2009, ma su scala maggiore, con un'immediata maggiore sofferenza, e con dopo un capitale molto più indebitato o fittizio, con tutto ciò che questo implica in termini di stagnazione economica, austerità sociale (visto che qualcuno dovrà pagarlo, il debito pubblico), fragilità finanziaria, continuazione della distruzione della natura, ricorrenza di pandemie, aumento del nazionalismo, tendenza alle guerre, ecc. La normalità della morte, della corsa verso l'estinzione.
E in tutta questa storia dove sta la speranza? Dove si trova la speranza in questa narrazione? La base teorica di tutta l'argomentazione dovrebbe essere la speranza, ma dov'è?
L'argomentazione è la seguente: la crisi del capitale siamo noi. Dev'essere così, dal momento che la crisi del capitale è qualcosa di esterno a noi, siamo noi ad esserne le vittime. E per le vittime non c'è alcuna speranza se non l'intervento di un salvatore esterno, e noi questo non lo vogliamo. Quindi, siamo la crisi del capitale, e la crisi è espressione della nostra forza. Questo lo si può vedere nell'impasse degli ultimi anni e nel fatto che il capitale si può riprodurre solamente in maniera fittizia. La nostra forza, la resistenza della vita quotidiana, coincide con la malattia cronica di un capitalismo malato. Ma se il risultato di tutto questo è la situazione attuale, allora non possiamo non porci la domanda: non sarebbe meglio trasformarci in robot conformisti e vivere così felici per sempre? Non sarebbe meglio dimenticare qualsiasi resistenza e diventare macchine? Ovviamente, tutto ciò che attiene al confinamento e alla quarantena ci sta dando l'addestramento necessario ad essere dei soggetti totalmente obbedienti. In questo modo non ci sarebbe nessuna crisi e tutti potremmo vivere tranquilli. Senza speranza, naturalmente, senza resistenza e senza crisi.
Se non siamo ancora pronti a trasformarci in robot, allora bisogna pensare a come destabilizzare o abbattere questa normalità di morte. Abbiamo già viso quella che è una forza di destabilizzazione, ma che non ci favorisce. Può darsi che il salvataggio statale dei capitali fallisca, o che le risorse statali non siano sufficienti a riuscire a tenere in piedi il mondo fittizio del credito. Ciò significherebbe un'enorme intensificazione dell'attacco che verrebbe portato contro l'attuale impasse, con conseguenze difficili da immaginare. Potrebbe provocare milioni di morti e di disoccupati, a Stati ancora più autoritari, a condizioni che oggi consideriamo sub-umane, e che colpirebbero gran parte della popolazione mondiale. La situazione descritta da Arundhati Roy, che riguarda il caso dei poveri in India, diverrebbe la norma. Certo, è possibile, ma non credo che l'impasse attuale venga superata così facilmente.
Un'altra possibilità, è quella che la nostra resistenza esca rafforzata dall'attuale crisi. Potrebbe essere che sia in gestazione una sorta di «fin qui!», un «ora basta col neoliberismo!» che ridefinisca a nostro favore quel che è il modus vivendi. Ciò implicherebbe l'abbandono del neoliberismo, un'enfasi maggiore sui servizi sanitari ed un miglioramento dei servizi sociali dello Stato, una ridistribuzione del reddito, più tasse per i ricchi, misure per fermare la distruzione della natura, possibilmente un reddito universale di base. Sarebbe un capitalismo dal volto meno aggressivo, una riformulazione del modus vivendi, un riconoscimento dell'impasse che sarebbe simile al Keynesismo. Mi sembra difficile che avvenga, a causa della situazione attuale in cui versa il capitalismo, però è possibile che la reazione politica alla pandemia imponga alcuni elementi, come il miglioramento dei servizi sanitari, alcune restrizioni circa il maltrattamento degli animali, eventualmente alcune misure per promuovere una redistribuzione dei redditi. Significherebbe anche un ritorno alla normalità della distruzione, ma forse una normalità con altre caratteristiche. La cosa interessante in questa proposta, è che essa si schiera dalla parte delle «brave persone» (categoria che prendo da Néstor López), dalla parte delle persone che non sono contro il capitale, ma che però vogliono vivere in una società più giusta.
- 4 - Prospettive per noi.
- a) - Il termine «le brave persone», nella nostra tradizione, spesso ha una connotazione dispregiativa o ironica. Sono quelle persone che hanno votato per AMLO [Andrés Manuel López Obrado, presidente del Messico], per Syriza in Grecia, per i Kirchner in Argentina. Sono persone che vogliono un mondo più giusto, ma che però non vogliono pensare che il mondo di cui sono alla ricerca sia incompatibile con il capitalismo. Sicuramente ci sono brave persone di questo tipo nelle nostre famiglie, tra i nostri amici. Bisogna superare la distanza che un simile termine implica. L'essenza delle brave persone consiste nel fatto che sono contro il neoliberismo, ma non sono contro il capitalismo. Non sappiamo fino a che punto questa visione verrà messa in discussione a partire da quella che è l'esperienza attuale. È possibile che molte persone mettano in discussione il neoliberismo, che colleghino il neoliberismo con il deterioramento dei servizi sanitari, con la mancanza di preparazione per poter affrontare una pandemia, da parte dello Stato, con il deterioramento del rapporto che abbiamo con gli animali selvatici, e con la perdita di biodiversità, e con la crisi economica. Pertanto è del tutto possibile che abbia luogo un aumento di quelle che sono le brave persone anti-neoliberisti, e che questo vada a costituire una base sociale per realizzare quel nuovo contratto sociale cui aspira il Financial Times. Quel che ci interessa di più, sono le persone che possono andare oltre la critica del neoliberismo per arrivare ad una critica del capitalismo. Abbiamo parlato di uno smascheramento del capitale, visto come un aspetto importante della situazione attuale, Quando parliamo di smascheramento (o di de-feticizzazione) stiamo parlando di noi che sappiamo già che il capitalismo è una catastrofe: e necessariamente stiamo parlando di una ridefinizione delle brave persone. Stiamo parlando della possibilità che l'attuale esperienza del coronavirus faccia comprendere a queste persone che il problema non consiste solo semplicemente nelle politiche adottate negli ultimi quarant'anni, ma nella dinamica stessa del sistema capitalistico.
A questo punto, emergono in evidenza due punti. A chi stiamo parlando? E qual è la storia che vogliamo loro raccontare?
In questo momento nel quale tutto è come sospeso, non ha molto senso parlare soltanto ai convertiti (questa qui è un'eccezione). Non ha molto senso dire a noi stessi che cosa sia il capitalismo (aggiungendoci, o meno, a suggello, «stupido») visto che già lo sospettavamo ancor prima di imparare la parola «coronavirus». Se vogliamo che l'esperienza del virus possa aprire un portale verso un altro mondo, allora dobbiamo riferirci alla brave persone, alle persone critiche, e ai loro figli. È a loro che diventa importante dire «non è semplicemente neoliberismo, si tratta di capitalismo». Qual è la storia che vogliamo raccontare? Essa deve andare al di là di quella che può essere la critica a Trump, o a Boris Johnson, o all'incuria dei servizi sanitari. Tutte queste cose sono importanti, ma ritengo che oggi ci siano due punti centrali che vanno esplorati, per noi e per le brave persone.
Il primo punto è il fatto che il coronavirus è un prodotto del capitalismo. Fa parte del capitalocene, della distruzione del pianeta causata dall'organizzazione capitalistica dell'attività umana. È assai probabile che l'attuale pandemia verrà seguita da altre, nei prossimi anni, dal momento che ci troviamo già di fronte a quella che potrebbe essere la prima fase dell'estinzione umana. Non è il prodotto delle politiche neoliberiste, ma piuttosto della dinamica capitalistica. Non è qualcosa di separato dal riscaldamento globale, ma è parte della medesima distruzione delle condizioni di vita umane. Questa narrazione è stata svolta in maniera molto convincente da almeno due articoli che ho letto: uno è di Rob Wallace, dal titolo "Covid-19 e i circuiti del capitale", e l'altro è un ottimo articolo di Jérôme Baschet, "Il XXI secolo è iniziato nel 2020 con l’entrata in scena del Covid-19".
Il secondo punto è che la crisi che è ancora agli inizi (ma spero di sbagliarmi) non è il prodotto né del virus né delle misure adottate per contenerne gli effetti, ma è una crisi del capitale. Questo argomento, che viene qui solo delineato, mi sembra importante poiché è molto probabile che l'esperienza di questi tempi per moltissime persone non sarà solo quella della quarantena e dell'angoscia per la salute, ma piuttosto sarà quella della difficoltà della riproduzione materiale della vita. A partire da questi due punti, appare evidente che quello che stiamo vivendo è il fallimento della riproduzione mercantile o capitalistica della vita. Tutto questo, per noi che stiamo leggendo questa narrazione, è chiaro, ma mi chiedo se esista una maniera perché venga compreso in maniera più generale, come se ci fosse un sentire comune prodotto da questa crisi.
- b) - Tuttavia, manca ancora la parte più difficile. Sebbene rimanga chiaro che il capitalismo deve essere abolito, dobbiamo mostrare come sia possibile creare qualcos'altro, un'altra forma di società. Per questo, abbiamo tre risposte, o quanto meno tre punti di partenza. Il primo punto attiene a tutte le forme di solidarietà che si stanno esprimendo dappertutto. Altrove, ho citato esempi relativi a Medellín [in Colombia] e ad altre comunità indigene. Per un esempio impressionante, si veda: "Francia: luchar contra el coronavirus desde abajo a la izquierda". Queste forme di solidarietà potrebbero svilupparsi verso un qualche tipo di «economia morale», una forma di attività economica che emerge a partire dalle esperienze delle persone, e che corrisponde alle loro necessità. Il secondo è un punto che viene sottolineato da Jérôme Baschet: la forza delle lotte degli ultimi due anni in tutto il mondo, lotte che esprimono la perdita di legittimità dei governi, lotte che in modi diversi proclamano «Ora basta! Assumiamo noi il controllo!». Possiamo pensare, tra gli altri, al movimento delle donne contro la violenza, a quello dei giovani contro il riscaldamento globale, ai movimenti in Cile, a Hong Kong, in Ecuador. A questi movimenti recenti, vanno aggiunti tutti quei movimento che avevano già molta esperienza nella creazione di altri mondi: i curdi, gli zapatisti e molti molti altri, grandi e piccoli. Il terzo punto, ha a che fare con l'esperienza attuale. Stiamo già vivendo l'impossibile. Tutti questi anni passati a dire che «un altro mondo è possibile» ed ecco che all'improvviso ci troviamo già in un altro mondo. Non è proprio esattamente il mondo che volevamo, però reca in sé degli elementi del mondo desiderato. Tutt'ad un tratto non stiamo più scaldando il pianeta, non stiamo più inquinando l'aria come facevamo prima, non passiamo più ore ed ore al giorno stipati come sardine sulla metro o sull'autobus. Sì, un altro mondo è possibile e può essere raggiunto molto presto.
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Un punto che è emerso nell'ultimo seminario, pone la domanda riguardo a se si possa comprendere il confinamento attuale come se fosse una pentola a pressione, dove si accumulano la frustrazione e la rabbia. Ci sono molti indizi che depongono in questo senso. La forza e le possibili conseguenze di questo accumulo di pressione, sono cose di cui si sta tenendo conto per fissare le date di riapertura. Pressioni economiche, da parte dei piccoli capitalisti, ma anche da parte di persone che devono uscire, e vendere la propria forza lavoro per poter vivere quotidianamente, e pressioni dovute alla frustrazione sociale. Si è discusso se le turbolenze che possono avvenire contro il confinamento statale possano essere considerate come un possibile portale verso un altro mondo. Per il momento, sembra che le turbolenze provengano principalmente dalla destra e soprattutto negli Stati Uniti, da persone che sostengono che l'attività economica dovrebbe avere priorità sulla salute. Ma la cosa non è del tutto chiara, e la situazione può variare molto da un luogo all'altro e nelle prossime settimane.
- John Holloway - Pubblicato il 21 aprile del 2020 su Comunizar -
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