giovedì 23 aprile 2020

Donne

Donne nera in prima linea nella transizione di cui abbiamo bisogno
- di Laura Astrolabio dos Santos -

L'Avenida Brasil in una Rio de Janeiro del 2020 ricorda abbastanza il futuro distopico che descriveva Octavia Butler nel suo romanzo di fantascienza "La parabola del seminatore" (Fanucci, 2000); il libro era stato scritto negli anni '90 del 20° secolo, ed era il primo volume di quella che sarebbe stata una trilogia se l'autrice non fosse morta prima di poter finire di scrivere il terzo libro.
Questo ci racconta il diario del personaggio Lauren Oya Olamina per mezzo di annotazioni relative agli anni che vanno dal 2024 al 2027, in uno scenario globale che si concluderà nel mezzo del caos sociale, con molta violenza e carenza di cibo e di acqua. Avevo cominciato questa lettura della Butler (non Judith, ma Octavia) in concomitanza con le letture relative alla teoria critica dell'economia politica della barbarie, del filosofo e professore Marildo Menegat. E le preoccupazioni da sempre presenti in me, si sono intensificate dell'altro. Le vite di coloro che vivono sotto i ponti, per lo più nere, hanno già ottenuto dallo Stato la loro umanità relativa, con il timbro di una società che ha naturalizzato quella che è la miseria dell'altro. Ci sono molti che dicono ancora «ma quello non è certo un posto per cui qualcuno ci possa vivere», oppure «vivono lì perché ci vogliono vivere». Ad ogni modo, che cosa si può rispondere a chi ha già introiettato la naturalizzazione della disumanizzazione, della povertà e del razzismo, persino quando questa povertà sta già bussando alla loro porta - soprattutto se consideriamo il "divenire-negro" di cui parla Achille Mbembe. Ci sono molti problemi, e tra questi le varie forme di violenza di Stato, insieme alla naturalizzazione di tutte queste violenze.
Perciò, le mie preoccupazioni hanno cominciato a dialogare con il futuro distopico della scrittrice Octavia Butler, così come lo hanno fatto con la teoria critica dell'economia politica della barbarie del filosofo Marildo Menegat, dal momento che è del tutto vero quando egli dice che «l'umanità non rientra più in quelli che sono i calcoli dell’economia», considerando che il sistema capitalistico sta collassando a causa delle proprie contraddizioni, ancora più evidenti se viste in un contesto di pandemia. Il collasso si intensifica con la crisi sanitaria globale che emerge con il Covid-19, soprattutto in quei paesi che trattano la salute come se fosse una merce, facendoci così vivere nel futuro dispotico della Butler. Ora, con il Covid-19, la popolazione nera sarà anche quella che verrà colpita, perché se in Brasile la classe ha un colore, come ci insegna la filosofa Sueli Carneiro, per cui è stata relegata nel lavoro informale e si vede costretta a bucare l'isolamento sociale se vuole tentare di guadagnarsi il pane, dal momento che il governo ritiene che il diritto di queste persone sia quello di ricevere solo delle briciole. E le domande continuano a fluire!
Chi è che pedala per Uber Eats, senza alcuna protezione, esponendosi al virus per andare a consegnare il pasto a chi vive isolato nelle propria casa? Che porta via la spazzatura delle persone che continuano a produrre senza fermarsi, anche mentre si trovano in isolamento sociale? Di che colore è la pelle della maggior parte di queste persone? E la loro vita non conta? Quando i dispositivi per respirare non sono abbastanza, quali vite sceglieranno di salvare? Riusciranno a vedere le persone che vivono in strada come esseri umani degni di respirate? E le donne nere, quelle che ricevono una dose minore di anestesia, quando stanno per partorire, poiché i medici dicono che sono più resistenti al dolore? Ora penseranno che possono resistere più tempo senza respirare? In quest'ultimo caso, ci si viene a trovare di fronte ad una questione di genere, di razza e di classe, tutte insieme.
È stato detto molto sul fatto che il Covid-19 non sceglierebbe la razza, il genere, la classe. Di certo, può uccidere «chiunque». Ma quali saranno le vite che cercheranno di salvare? Quali saranno le vite che verranno scartate in un sistema economico che mette in atto una politica di morte degli indesiderabili? Non a caso, vediamo il presidente della Repubblica trattare quella che, dopo il 1917, è la maggior pandemia mondiale, come se fosse una «influenzina», un «raffreddorino», mettendo l'economia al di sopra della vita, con un discorso per la fine dell'isolamento sociale. È come se il coronavirus, fosse stato un dono dal cielo per un governo che agisce sulla base della necropolitica. Il coronavirus fa la prima parte del lavoro, e lo Stato lo finisce. Come scrive il giudice e scrittore Rubens Casara in "Stato post-democratico: neo-oscurantismo e gestione degli indesiderabili” (Civilização Brasileira, 2018), i diritti e le garanzie individuali non sono più considerati da alcuni attori giuridici, dal momento che vengono visti come «ostacoli per l'efficienza repressiva dello Stato o ai fini del mercato». Il futuro distopico di Octavia Butler si concretizza e allarga la sfera dello stato di emergenza.
David Harvey ci ricorda che quando la crisi immobiliare ha colpito gli Stati Uniti, all'inizio del 21° secolo, per esempio, e  in prima linea si trovava la popolazione nera a basso reddito e le madri single, i media non hanno neanche riportato la notizia. Solo quando è stata colpita anche la classe media bianca statunitense, solo allora si sono mosse le autorità e i media. Ne "L'enigma del capitale" (Feltrinelli, 2011), Harvey scrive: «ancora una volta, come già accaduto in occasione dell’epidemia di Hiv/Aids scoppiata durante l’amministrazione Reagan, il disinteresse e il pregiudizio collettivo nei confronti delle persone più esposte fecero sì che quei chiari segnali di avvertimento venissero ignorati, provocando alla società costi umani e finanziari che si sarebbero rivelati incalcolabili».
È un dato di fatto che sostituire le persone con delle macchine sia causa di disoccupazione. Come si può consumare senza un lavoro e senza un salario? Questa è una delle contraddizioni del capitale. Ed nel bel mezzo di tali contraddizioni che nascono le crisi. Che dire, perciò, di questa contraddizione emersa in uno scenario di pandemia successivo all'approvazione della riforma della previdenza, una riforma lavorista dopo anni di smantellamento del servizio sanitario pubblico? Per poter gestire la crisi, lo Stato, da parte sua, non aiuta le persone come dovrebbe. Aiuta le banche e sacrifica le persone, con politiche di austerità economica che pregiudicano i servizi sociali, oltre a politiche di criminalizzazione della povertà, che comportano molta violenza da parte dello Stato, che a sua volta la intensifica maggiormente per poter garantire la protezione del patrimonio privato mentre le persone muoiono di fame. Questa violenza di Stato avviene  insieme ad una sospensione arbitraria dei diritti (come il diritto alla vita, alla dignità delle persona umana, il diritto di muoversi, il diritto alla difesa e ad un contraddittorio), come in quei casi in cui la polizia decide di giustiziare sommariamente le persone somministrando la pena di morte nei vicoli delle favelas, una procedura propria dello stato di eccezione, secondo Giorgio Agamben. Per quello che è stato il suo apparire iniziale, si pone in contrapposizione allo Stato democratico di diritto, e «dovrebbe servire per quelle che sono situazioni di emergenza, come prevedeva la costituzione di Weimar, ma con il tempo lo stato di eccezione è diventato la regola senza formalità alcuna per la sua dichiarazione.» Ora, la cosa si aggrava.
Se si considerano le analisi del professore e filosofo Marildo Menegat in merito alle teorie della crisi del capitalismo - che ribadiscono l'idea di Rosa Luxemburg, secondo cui la riproduzione allargata del capitale, non può avvenire all'infinito - allora può darsi che stiamo vivendo in una crisi che non potrà essere né superata né elusa, ma che finirà in una catastrofe se non troviamo nuove forme di socialità umana al di fuori del sistema capitalistico: « (...) potrebbe esserci un limite insormontabile per la continuità storica di questa società. Se fosse così, che cosa faremo? Si tratta di una domanda che ora, qui, ha molto senso: la rivoluzione russa è stata davvero un evento contro il sistema capitalistico, oppure è stata, come ha detto Gramsci, un evento contro Il Capitale di Marx e, pertanto, una sorta di rivoluzione modernizzatrice (ed in quel caso, tardiva), così come quella inglese del 1640, o quella francese del 1789? Penso che in Rosa Luxemburg, dal momento che c'è una certa rottura con la filosofia della storia dell'Illuminismo, si dia anche la possibilità di pensare il socialismo, non come un dover essere, vale a dire, come se fosse la realizzazione di un principio evolutivo mediante una società giusta ed egualitaria, ma piuttosto come una necessità di fronte alla catastrofe del capitalismo, come condizione per avere la possibilità che continui l'esistenza umana», scrive Menegat in "A Crítica do Capitalismo em Tempos de Catástrofe:  o giro dos ponteiros de um relógio no pulso de um morto" (Consequência, 2019).
Oltre a ritenere che quei «gloriosi 30 anni» siano stati solo un intervallo che ha preceduto quello che egli chiama «una tranquilla nuotata dell'umanità nella barbarie», Menegat crede nella tesi «o socialismo o barbarie», ma con alcune importanti critiche al modello di socialismo praticato in Unione Sovietica, il quale, a suo avviso non nega la barbarie, anzi. Sulla scia di questo pensiero, è bene ricordare come stiamo già vivendo con la barbarie, e che con la pandemia tale barbarie si approfondirà in maniera ancora più rapida e catastrofica, dove i bersagli principali saranno quegli indesiderabili, che in Brasile sono per lo più di colore, oltre ad essere donne e LGBT+, ma che oggi, con l'aiuto di un virus, impone a queste persone di dover scegliere se rimanere isolati in casa per con essere contagiati, o continuare a lavorare per non dover morire di fame. Di fronte ad un simile scenario e a quelle che sono le gravi previsioni apocalittiche, sottolineo l'importanza dell'intervista a Michael Löwy, realizzata da Menegat e Behring nel 2008: « Il marxismo, come pensiero e come azione, ha delle grandi potenzialità nell'America Latina di oggi. Per questo, bisogna superare l'eredità negativa del passato - l'autoritarismo burocratico stalinista, il "nazional-sviluppismo" - e recuperare la grande tradizione rivoluzionaria di  José Carlos Mariátegui, Julio Mella, Mario Pedrosa, Farabundo Marti, Ernesto Che Guevara, Camilo Torres e molti altri. Ma la cosa più importante è la capacità di integrare, nel programma marxista, l'esperienza dei movimenti sociali del continente: l'indigenismo, le comunità cristiane di base, l'ecologia, la Via Campesina, il femminismo. Un marxismo arricchito con questi contributi potrà essere un elemento decisivo nell'avanzare verso il "socialismo del 21° secolo". »
Sollecitata a pensare circa le possibilità di nuove forme di socialità umana al di fuori del capitalismo, così come alle forme di transizione verso tali socialità, ritengo sia possibile intravvedere delle vie d'uscita per mezzo di quelle donne di colore vittime delle agende politiche che hanno come mira il genocidio delle popolazioni nere e la detenzione di massa, e che rappresentano quelli che sono attacchi centrali condotti dal sistema capitalista, il quale promuove uno stato di eccezione, visto come regola per cercare di eludere le proprie contraddizioni attraverso lo sterminio degli indesiderabili. Ma non si tratta solo di questo. Mi sento anche portata a pensare come sia necessario recuperare la conoscenza ancestrale delle popolazioni indigene, poiché come ci insegna Ailton Krenak, in "Ideias para adiar o fim do mundo" (Companhia das Letras, 2019), « quel tipo di umanità zombie, in cui siamo chiamati ad integrarci, non tollera troppo piacere, un così tanto godimento della vita. E così predicano la fine del mondo in modo da far sì che le persone rinuncino ai propri sogni. E la mia provocazione è quella di rimandare la fine del mondo proprio perché così si possa raccontare un'altra storia. Se riusciamo a farlo, allontaneremo la fine ».
Con le donne nere, la questione consiste nel fatto che sono attraversate da tutte le forme di queste violenze, sia come donne imprigionate e assassinate dallo Stato, sia come mogli, sorelle, figlie e madri degli uomini e dei giovani neri che vengono assassinati e incarcerati. Scommettere sulla base della piramide, composta da donne di colore che portano sulle loro spalle tutto il fardello, che vivono le oppressioni di razza e di genere, oltre a quelle dello sfruttamento di classe (questo perché la povertà ha un colore ed un genere), forse è un modo possibile per costruire un nuovo progetto di società ed un'adeguata transizione in quella che dev'essere una rottura con il sistema capitalista, soprattutto nei paesi come il Brasile, che hanno una forte tradizione razzista, misogina ed elitaria. La popolazione nera brasiliana è sopravvissuta alla catastrofe dell'olocausto nero, con delle strategie che hanno loro permesso sia di affrontare la prigionia, sia di guadagnare la libertà. Scrive Solange Reimi Chagas in "A união faz a força: expressões do mito familiar em famílias negras" (Intermeios, 2014): «Queste lotte e queste strategie sono sorte attraverso l'associazione di schiavizzati e gruppi, alla ricerca di un certo grado di autonomia nella produzione, alla ricerca di tradizioni, di legami familiari stabiliti, per esempio, nelle consorterie. Vale la pena ricordare anche le fughe, le rivolte degli schiavi che ci sono state in tutto il Brasile, come la grande rivolta dei Malês, nel 1835 a Bahia; e la formazione e l'organizzazione dei     quilombos, come quella di Palmares, sotto la guida di Zumbi, all'epoca della sua distruzione avvenuta alla fine del 17° secolo». Oltretutto, nel periodo posteriore all'abolizione della schiavitù, le donne di colore sostenevano già tutta la famiglia, mentre le donne bianche stavano rivendicando il diritto ad avere un lavoro, ed è anche per questo motivo che nei dibattiti sul femminismo in Brasile, viene sottolineata la relatività del modello patriarcale nelle famiglie brasiliane di colore. Queste donne hanno ereditato delle conoscenze ancestrali, sotto forma di pratiche all'interno delle reti di solidarietà, che oltretutto consistevano nell'aggregarsi quando ce n'era bisogno, secondo la massima per cui «dove mangia uno, possono mangiare in cinque», una cultura che resiste fino al giorno d'oggi. Nelle favelas, con la pandemia,  queste reti di solidarietà si intensificano, e sono le donne di colore a trovarsi in prima linea nelle campagne per diffondere informazioni circa la prevenzione nei confronti del Covid-19, e anche per garantire che in questi posti arrivino donazioni di cibo e di prodotti per l'igiene. La dinamica di aggregazione delle persone alla famiglia viene naturalizzata senza che esista alcuna nota di debito relativa all'aiuto che viene dato per l'affitto o per il cibo. Queste reti di solidarietà, che possono verificarsi molto frequentemente fuori dal circuito della classe media, vengono accolte con favore per dei motivi che vanno dalla disoccupazione , passando per un reddito insufficiente e arrivano fino all'abbandono. Si può quindi affermare che fino ad oggi le famiglie nere e povere sopravvivono grazie a questo senso di comunità, di collettività, di solidarietà, assai spesso guidate e sostenute da donne di colore, come avveniva nel periodo successivo all'abolizione della schiavitù, dove gli uomini neri avevano difficoltà a trovare lavoro, dal momento che venivano preferite le donne nere, a causa della questione sessista. E allora perché non scommettere sulle donne di colore, viste come strada per costruire un progetto radicale di cambiamento, dal momento che gli uomini bianchi che sono sempre stati a capo dei governi in paesi come il Brasile hanno fallito persino nel processo di ri-democratizzazione. Di certo, in uno scenario pandemico, ci sono molte cose su cui riflettere, perché forse il mondo non sarà mai più lo stesso e avremo bisogno di un certo distanziamento fin dall'inizio, per poterne parlare con maggior proprietà, cosa che sarà possibile in un futuro, per quanto prossimo. Tutto il senso della teoria critica dell'economia politica della barbarie, ci spinge a mettere in discussione le vecchie idee, oltre a darci il modo di sottolineare la necessità del superamento certi vizi politici, come quelli che si propongono di gestire la barbarie, ma non lavorano per fermarla. Bisogna scommettere su nuove vie d'uscita, puntando su quelle persone che occupano un locus sociale che non ha mai consentito loro di avere la possibilità o il diritto di esprimere un'opinione e di contribuire; quelli che non hanno avuto modo «diritto alla parola», pur essendo stati i primi e i più colpiti nei cicli di barbarie; e la cosa non sarà certo diversa nello scenario della pandemia, in cui una parte della popolazione che avrebbe diritto a ricevere 600 Real [dollari brasiliani] dal governo, potrà averli solo facendo domanda per mezzo di un'App dal cellulare. Forse stiamo davvero vivendo in un momento di totale disperazione, in cui l'impossibilità a credere ci può confinare in un luogo di apatia. Ma tuttavia, è anche possibile che questa mancanza di fiducia in tutto quello che è già stato messo in atto, ci porti a pensare a dei mutamenti radicali da parte di chi è stato storicamente messo a tacere, le donne di colore, detentrici di quella conoscenza ed esperienza ancestrale  che possa permettere loro di guidare la transizione di cui abbiamo bisogno, vale a dire, per uscire da quel sistema di trituramento della carne umana che è il capitalismo.

- Laura Astrolabio dos Santos - Pubblicato il 14 aprile 2020 su Cult -

fonte: Cult

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