Crisi e Critica
- Il limite interno del capitale e le fasi di avvizzimento del marxismo -
di Robert Kurz
Un frammento
Nota: Il 10 febbraio del 2010, Robert Kurz inviò per email alla redazione di EXIT! un testo, accompagnato dalle seguenti parole: "Insieme alla prima parte del progetto del libro più piccolo, Crisi e Critica, stralciato dal precedente progetto Lavoro Morto, per discuterlo nel prossimo incontro. Si può rimuovere dalla prefazione e dall'introduzione tutto ciò che si considera necessario". Dopo l'incontro, il testo è stato fatto oggetto di piccoli aggiustamenti da parte della redazione e non è stao mai modificato dal maggio del 2010. Come viene spiegato nella prefazione del suo ultimo libro, Denaro senza Valore, Robert Kurz aveva deciso di scrivere una serie di libri a partire dal progetto originale del libro di grandi dimensioni, Lavoro Morto. L'unico che ha potuto realmente terminare, è stato Denaro senza Valore, che è apparso nelle librerie pochi giorni dopo la sua morte. Crisi e Critica sarebbe stato un altro libro di questa serie. Dei 36 capitoli previsti - inclusi l'introduzione e l'epilogo - Robert Kurz ha avuto il tempo di scriverne 10.
* Prefazione * Introduzione * 1. La teoria della crisi nella storia del marxismo * 2. Il capitale va molto bene. Ignoranza situazionista della crisi come mancanza di dimensione storica del tempo * 3. Mitizzazione della teoria del crollo * 4. I cavalieri dell'apocalisse * 5. Psicologismo per i poveri * 6. Bisogna criticare il capitalismo solo per mancanza di funzionalità? * 7. Crisi ed emancipazione sociale * 8. Excursus: la dissociazione-valore fa del feticcio il creatore di un mondo di marionette? * 9. La crisi come rapporto soggettivo di volontà *
Altri capitoli previsti ma non scritti:
10. Il capitalismo come eterno ritorno dello stesso * 11. Empirismo storico: l'ammirevole flessibilità della logica di valorizzazione * 12. Ritorno alla brutta normalità? * 13. La crisi come mera "funzione di aggiustamento" delle contraddizioni della circolazione? * 14. Excursus: l'indebolimento e l'abbandono parziale "critico del valore" da parte della teoria radicale della crisi * 15. Sempre nuovamente il "problema della realizzazione" * 16. La crisi dev'essere piccola o grande? Il concetto ridotto del sistema * 17. Il percorso del biocapitalismo? * 18. Riduzionismo ecologico * 19. Capacità di sopravvivenza del capitale individuale ovvero un capitalismo di minoranza? * 20. Il carattere dell'economia postmoderna delle bolle finanziarie * 21. Excursus: critica riduttiva del mercato finanziario, anti-americanismo e antisemitismo strutturale * 22. L'ultima risorsa ovvero la fede nel miracolo di Stato * 23. Un'illusione democratica * 24. La questione della proprietà erroneamente collocata * 25. Keynesismo di sinistra ovvero la riduzione della teoria del sub-consumo * 26. La guerra come soluzione per la crisi? * 27. La crisi sposta solo i rapporti globali di potere? * 28. Il sesso della crisi * 29. La mancanza della critica categorica * 30. Sintesi sociale e socialismo * 31. Excursus: "Forma embrionale" - un grave malinteso * 32. Cos'è un mediatore? Criteri di immanenza sindacale * 33. Carnevale di "lotte" e pacifismo sociale da ideologia a alternativa * 34. Come Herr Biedermeier aggiusterebbe bene tutto * Epilogo *
1 - La teoria della crisi nella storia del marxismo
Per poter comprendere la situazione rispetto alla teoria della crisi serve per lo meno dare un breve sguardo alla storia del marxismo. Salta subito agli occhi che il culmine del dibattito sulla teoria dell'accumulazione e della crisi di Marx si situa nell'epoca precedente alla confutazione da parte di una crisi veramente grande. Si possono individuare come classici, i dibattiti sul revisionismo di Bernstein e quelli sulla teoria del collasso di Rosa Luxemburg, ancor prima della I guerra mondiale, come quelli intorno a Henryk Grossmann alla fine degli anni 1920. La parte di gran lunga più preponderante del marxismo del movimento operaio, tanto socialdemocratica quanto leninista ed anche la linea della sinistra comunista dei consigli, rifiutava l'idea di un limite interno oggettivo alla valorizzazione del capitale. Sembrava loro che in tal modo il soggetto ontologico classe operaia sarebbe stato privato della sua capacità di azione, come si vedrà meglio in seguito.
Eduard Bernstein aveva inventato una "teoria del crollo", fino al suo tempo inesistente nei dibattiti marxisti (appoggiandosi solo e semplicemente a frasi tratte dagli atti dei congressi socialdemocratici), al fine di giustificare la sua strategia riformista come teoria di azione. Quanto a Rosa Luxemburg, nel suo libro "L'accumulazione del capitale" (1912), aveva cercato di delineare la teoria di un limite interno oggettivo del capitale. Tuttavia questo limite, in ultima analisi, così come la mancanza di possibilità di "realizzare" plusvalore nella sfera della circolazione, sarebbe stato in sé apparentemente inesauribile. Grossmann, al contrario, nel suo libro "La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista" (1929), partiva dalla produzione di plusvalore; tuttavia non incontrava limiti relativamente alla successiva accumulazione di capitale in generale, ma solo relativamente ad un sufficiente rendimento volto al consumo della classe capitalista.
Di fronte alla pioggia di violente critiche da parte di tutte le frazioni marxiste, tanto Luxemburg che Grossmann affermarono che le loro riflessioni erano solo "finizioni teoriche" in riferimento ad una tendenza reale; la vera "fine" del capitalismo sarebbe avvenuta solo per la "volontà politica" del movimento operaio. Tanto per la critica quanto per l'anti-critica, il termine "crollo" finiva per essere ridotto all'azione rivoluzionaria (o anche riformista), avendo il suo fondamento nella teoria dell'accumulazione.
Questa discussione classica sulla teoria della crisi nel marxismo del movimento operaio venne fagocitata dalla crisi economica mondiale, dalla barbarie nazista e dalla II guerra mondiale. Dopo il 1945 si rianimò, di fatto in forma indebolita, ma la teoria di un limite interno oggettivo venne considerata come rifiutata e non tornò più ad essere tematizzata. La teoria dell'accumulazione venne riagganciata ad una teoria di crisi acutizzata, anche sotto l'impressione di prosperità seguita alla guerra. Le contraddizioni del movimento di accumulazione vennero ridotte a mere forme di sviluppo di un processo in sé inesauribile. Alla fine degli anni 1950, Paul Mattick, uno dei più importanti rappresentanti del vecchio comunismo di sinistra e della critica marxiana dell'economia politica, scriveva: " Nonostante l'intercalare di periodi di depressione, ogni ritorno di produzione capitalista raggiunge un livello più elevato ed una maggiore espansione rispetto a prima... Il capitale si sviluppa secondo il metodo '3 passi avanti, 2 indietro'. Ma questo genere di movimento non impedisce il progresso generale, solo il suo ritardo...; se osserviamo lo sviluppo capitalista come un processo continuo e stabile, il suo ritmo appare moderato" (Mattick, 1974/1959).
Il problema della crisi viene ogni volta sussunto nel movimento ciclico "eterno" o nelle rotture strutturali "sempre in ritorno". Indipendentemente da ciò, il punto focale di elaborazione teorica nel contesto del "marxismo occidentale" si sposta progressivamente verso la teoria del soggetto e dell'azione, in quanto il lato oggettivato dello sviluppo capitalista sembrava essere quasi senza oggetto. Tale variazione era dovuto naturalmente soprattutto ad una necessità, ossia al disaccoppiamento accademico della teoria marxista dal campo di riferimento del movimento operaio che, dopo la sconfitta contro il nazismo ed il fascismo nella storia del dopoguerra, doveva consumare a lungo la sua istituzionalizzazione capitalista.
Anche nella nuova sinistra del movimento del 1968, che era orientata ancora più fortemente verso la teoria dell'azione o del soggetto positivo, la teoria della crisi non era al centro delle sue attenzioni, sebbene questa tematica continuasse a svolgere un certo ruolo e non fosse completamente sparita dal suo campo visivo, nel contesto di svuotamento della prosperità fordista e delle manifestazioni di crisi (ancora relativamente moderate) degli anni 1970 (8). Ma erano solo battaglie di retroguardia rispetto alla discussione tradizionale sulla teoria della crisi. Non venne fanno nemmeno un tentativo di sistematizzare concettualmente ed analiticamente la teoria incompiuta della crisi che si ritrova nei frammenti di Marx non del tutto elaborati. L'incoerenza dei diversi momenti della teoria della crisi rimanevano anche negli approcci neo-ortodossi di "ricostruzione" della teoria di Marx a partire dalla massa di testi che tornavano gradualmente accessibili dagli anni 1970, tanto più che la tematica della crisi non assumeva un peso decisivo.
Ma fu proprio la discussione intorno alla teoria della crisi e del crollo che divenne il punto nevralgico dove si riproduceva la contraddizione interna del rapporto del capitale come contraddizione interna al marxismo. Come da uno specchio ustorio, arriva una luce che unisce con una polarità indissolubile il punto di vista sociologico sulle classi e la relazione di feticcio socialmente inclusiva, così come l'opposizione fra lavoro astratto e ontologia del lavoro. Questa connessione con la teoria della crisi rimane fondamentalmente estranea al discorso neo-marxista della Nuova Sinistra. Una volta che né la relazione di costituzione feticista della modernità né l'ontologia del lavoro vanno a costituire il centro della critica, venendo, nella migliore delle ipotesi, toccate solo superficialmente, il risultato non può andare al di là delle fiacche strutture argomentative, già da tempo esaurite. Ma, se la discussione classica intorno alla "teoria del crollo" manteneva lo sguardo sul problema del tempo storico, ossia, della tendenze di sviluppo sul lungo periodo, la svolta verso la teoria del soggetto e dell'azione è ricaduta ogni volta sotto un orizzonte temporale ridotto ad una falsa immediatezza, e con esso ad una percezione positivista.
Anche la "ricostruzione" filologica neo-ortodossa non è andata visibilmente da nessuna parte, non avendo nemmeno permesso di stabilire una qualche carriera accademica. Infatti l'impulso fondamentale del movimento del 1968 era orientato in modo riduttivo più in senso prasseologico e politicista (9). Quando la mediazione, tentata più di una volta, con il soggetto in sé della "classe operaia", attraverso l'agitazione, fallì già negli anni 1970, su questo fallimento mancò una riflessione critica come mancò poi, dieci anni dopo, sul crollo del socialismo di Stato nei paesi dell'Est. Dato che le persone si misero a cercare surrogati in riferimento ad una prassi politica immediata, i resti della teoria dell'accumulazione e della crisi vennero sfruttati soprattutto ai fini di una legittimazione di tale prassi.
A partire dal decennio del 1980, si consuma la storia della decadenza e della disgregazione del marxismo. La mancanza di mediazione con la teoria della crisi, che rimane senza soluzione, svolge qui un ruolo decisivo. Costituendo, la critica dell'economia politica di Marx, naturalmente lo sfondo alle discussioni di teoria sociale di sinistra, essa non dovrebbe diventare ogni volta sempre più pallida. Tra le discussioni del marxismo del movimento operaio classico, sulla teoria dell'accumulazione, della crisi o del crollo, ed il modo neo-marxista in cui veniva accolta la critica dell'economia politica negli anni 1960 e 1970, c'era stata una continuità riconoscibile chiaramente. La rottura non risiedeva nella trasformazione dei contenuti teorici, anche se la teoria della crisi rimaneva fuori dal fuoco dell'attenzione, ma nella perdita del campo di riferimento della "classe operaia" e del movimento operaio che si continuava ostinatamente a cercare. Il collegamento fra questo deperimento della "base di classe" ed una crisi storica qualitativamente nuova che si stava già aprendo la strada, non fu oggetto di nessuna riflessione. Collegamento che oggi appare come un decadimento dell'ontologia marxista del lavoro che va di pari passo col decadimento della "sostanza del lavoro" e della valorizzazione del capitale.
Negli anni '80, di conseguenza, si strappò anche il continuum storico del marxismo. Per quel che riguardava il flusso principale della congiuntura di sinistra, tra lo svuotamento del marxismo degli anni 1970 e la necessità di un nuovo approccio e una nuova formulazione che germina timidamente negli ultimi anni, si apre un buco nero. Ed è in questo buco che precipita l'egemonia discorsiva del postmodernismo sulla sinistra, come è ben noto.
Questo terreno era del tutto inadeguato a continuare il dibattito, qualunque fosse la sua natura, sulla teoria marxiana del capitale e della crisi. La transizione postmoderna, che per molti aspetti abbraccia anche gran parte della sinistra residuale in servizio accademico o politico, ha consumato il disaccoppiamento a livello di riflessione dal marxismo del movimento operaio, che già si era manifestato negli anni 1960. Nella misura in cui il discorso postmoderno, con il suo rimprovero insufficientemente fondato nei confronti dell'economicismo dogmatico del marxismo di partito, ha rimosso il contesto interno dall'analisi categoriale del capitale in generale, ovviamente non trova più spazio per la teoria dell'accumulazione e della crisi; e questo sotto diversi aspetti.
In primo luogo, la dialettica soggetto-oggetto viene appiattita oltre la corrispondente tendenza del "marxismo occidentale" e del movimento del 1968, più o meno chiaramente; ma, nel complesso, viene preponderantemente ridotta al piano soggettivo della teoria dell'azione (prasseologico). Non si trattava, comunque, della comprensione enfatica di un soggetto autonomo di pensiero e azione, che doveva accedere ad un auto-coscienza, ma piuttosto del concetto di un soggetto "strutturale", che bandiva il portatore di azione per mezzo di un agglomerato di "rapporti di forza" e strutture di potere sociale eternamente in mutazione. Questo pensiero fa riferimento soprattutto alle metamorfosi di "compressione" istituzionale del parallelogramma di forze sociali all'interno dei rapporti capitalistici, che rimangono in gran parte senza mediazione alcuna con il piano categoriale delle condizioni capitalistiche di esistenza.
In secondo luogo, le categorie politico-economiche hanno sofferto una reinterpretazione culturalista ed estetizzante, in misura diversa, ma chiaramente riconoscibile in tutto lo spettro della sinistra; si tratta ogni volta sempre più di "stili" di riproduzione che non erano in alcuna relazione con determinate categorie della teoria di Marx, ma solo tematizzate vagamente e marginalmente.
In terzo luogo, per questo pensiero la relazione del capitale si dissolve positivamente in "singolarità e insiemi" (Foucault) di movimenti particolari di potere, dissolvendo così conseguentemente la critica del capitalismo in "critiche locali" (Foucault) anche particolari. Con questo, la teoria dell'accumulazione e della crisi sembrava essere definitivamente senza oggetto (10).
Nella misura in cui il discorso di sinistra non si è rifugiato completamente nell'ontologia del potere di Foucault, con i suoi riferimenti a Nietschze e ad Heidegger, il decadimento della determinazione categoriale marxiana diviene naturalmente notorio proprio nelle correnti che modellano, per mezzo del pensiero postmoderno, il riferimento residuale, fatto di passaggio, al paradigma non soppiantato del marxismo tradizionale. Questo vale in particolare per il post-operaismo di conio negriano, che ancora oggi conserva una certa influenza insieme ai movimenti della critica della globalizzazione. Qui il concetto di crisi può condurre una vita sua, dopo la morte fantasmatica post-marxista, solo perché è stato strappato dal suo ancoraggio alla costituzione feticista capitalista ed è stato reinterpretato soggettivamente fino alla sua irriconciliabilità nel quadro del postmodernismo.
In questi tempi di "buco nero" teorico sopravvivono anche altri gruppi, correnti e scuole marxiste residuali e post-marxiste, il cui riferimento alla teoria di Marx, nel suo complesso sempre più marginale, sembrano continuare a costituire un riferimento centrale, ed in ogni caso più del post-operaismo. Ma è proprio nelle pubblicazioni di questi che salta all'occhio la completa assenza di una teoria della crisi, anche sviluppata in maniera rudimentale. Questa è la differenza più evidente nel dibattito teorico che avviene nel campo del marxismo del movimento operaio, comprese le sue storie della linea finale del neo-marxismo, e che indica come non si sono avvicinati ad un'elaborazione critica ed hanno preso una strada sbagliata. Invece di superare la teoria di crisi marxista, è stata messa da parte la sua tematica in generale, rendendola o secondaria o lettera morta. Il posto vuoto (11) della teoria della crisi lo si può vedere non solo nelle scuole di marxismo residuale, come quella intorno cui si riunisce la rivista Argument de Haug, o nel circolo intorno a Prokla, accademicamente più plurale, o nella rivista Sozialismus, nata dagli sforzi di "ricostruzione" della teoria di Marx, che in gran parte legano la loro riflessione agli interessi accademici, ideologie di movimento, congiunture politiche o tendenze sindacali, ma lo si può vedere anche nelle posizioni non immediatamente accademiche o in quelle riduttivamente prasseologiche e politiciste.
Così, per esempio, il vecchio gruppo di Nuova Sinistra, che oggi è presente con la rivista Gegenstandpunkt, ha pubblicato nel corso degli anni tutta una serie di opuscoli divisi in sezioni che portano una supposta "verità definitiva" circa la critica dell'economia politica di Marx; dal concetto di capitale, passando per lo Stato borghese e per l'imperialismo fino alla psicologia dell'individuo borghese. Ma sarebbe vano cercare una corrispondente proclamazione di verità sulla teoria della crisi.
Da un altro lato, la Nuova Lettura di Marx di Helmut Reichelt e Hans-Georg Backhaus, ha sviluppato dagli anni 1970 a partire dal contesto del dibattito neo-ortodosso della "ricostruzione", negli "anni di piombo" dell'egemonia ideologica postmoderna, tematizzata di fatto ad un livello elevato di riflessione, alcuni dei punti nevralgici nel dibattito del marxismo tradizionale, come la questione della teoria monetaria del valore o il problema della costituzione feticista soggetto-oggetto. Ma questi sforzi sono rimasti senza un'angolatura proprio perché hanno completamente mancato una mediazione con la teoria della crisi (12). Nel suo sviluppo, a partire dalla base positivista di Michael Heinrich, la teoria della crisi viene considerata marginale (13); essa rimane informe, non entra in nessun modo nel contesto tradizionale e viene messa da parte una volta che, con la revisione del concetto marxiano di sostanza, è stata distorta (14).
I pubblicisti cosiddetti "anti-tedeschi", a loro volta, fedeli alla loro falsa ortodossia di Adorno, non si curano per niente sin dall'inizio di un nuovo approccio alla teoria dell'accumulazione e della crisi. Il problema della crisi si pone solo per mezzo di formule criptiche e affoga in gran parte nel riduzionismo a critica dell'ideologia (15). Anche la ricerca meritoria di Postone (2003), se è vero che porta alla critica del lavoro, tuttavia, offusca anche sistematicamente la teoria della crisi, e perciò si ferma a metà strada.
Per quanto le posizioni del marxismo residuale e quelle del post-marxismo si odino a morte fra di loro, hanno in comune la completa assenza, o la scarsa esposizione, della teoria della crisi. E' proprio qui che si rivela particolarmente nel suo complesso l'influenza del passaggio postmoderno degli anni 1960; che lo ammettano o no. A maggior ragione una nuova teoria radicale della crisi, che trasformi la critica dell'economia politica di Marx per mezzo della critica della dissociazione-valore, li colpirebbe tutti allo stesso modo.
In questa situazione, la determinazione categoriale della crisi fin qui molto trascurata dev'essere ora recuperata ma anche completamente rifondata; non già per le deficienze e le contraddizioni per quel che riguarda le metamorfosi della circolazione del capitale, ma per l'auto-contraddizione sul piano basilare della sostanza del lavoro. La critica dell'astrazione reale capitalista "lavoro" ed il nuovo concetto fondamentale di crisi si trovano in una connessione interna di condizionalità reciproca. Questa teoria radicale della crisi non può essere intesa come reinterpretazione meramente filologica dell'analisi delle categorie, ma, al contrario, si situa in una situazione storica modificata: con la terza rivoluzione industriale -0 quest'argomento va riferito alle nuove condizioni di valorizzazione del valore impostate sul dissolvimento delle forze produttive - l'auto-contraddizione centrale sposta il suo punto culminante sulla sostanza del lavoro diminuito in termini assoluti per la prima volta (16). In tal modo il processo di valorizzazione perde la sua condizione di possibilità e, dopo un periodo di incubazione per mezzo della circolazione nel mercato mondiale, arriva definitivamente alla fine.
Fin dalla sua prima formulazione (Kurz, 1986) questa tesi di un limite interno assoluto alla valorizzazione del capitale che diviene manifesto, venne respinta notamente con enfasi sospetta, che pretendeva così di sfuggire ad un dibattito approfondito; prima nelle discussioni, nei seminari e nella "grigia letteratura" della subcultura radicale della sinistra residuale, poi anche nelle gazzette della sinistra politica e nelle pubblicazioni del marxismo residuale e del post-marxismo accademico, nella misura in cui la critica della dissociazione-valore, a partire dagli anni 1990, usciva dalle catacombe e raggiungeva una certa visibilità nella sfera pubblica borghese. Questo nuovo approccio doveva essere soffocato fin dall'inizio, in quanto inferiore, "furbo" e quasi impossibile da immaginare (17).
Tale rifiuto si esprime indirettamente anche attraverso il tentativo di canalizzare preventivamente la legittima necessità che emerge negli ultimi tempi nel mondo della sinistra, dopo una lunga astinenza, di utilizzare nuovamente il Marx "autentico" dei suoi testi fondamentali. Precedentemente questo si chiamava "formazione sul Capitale". Michael Heinrich serva una tale necessità con la sua esposizione globale "scientifica" e con testi di "introduzione". Ma questa sorta di conoscenza assistita è piuttosto ambigua. Suggerisce che un'esegesi filologica di Marx, nella sua esposizione astratta, potrebbe offrire una sorta di conoscenza fondamentale neutra. Questo avrebbe il vantaggio, per i beneficiari, che un tale "apprendimento delle conoscenze" sembrerebbe rimanere esterno alla politica dei movimenti e ad altri preconcetti; la "formazione heinrichiana" può così essere collegata a quasi tutti i "punti di vista politici" senza che si debbano temere conseguenze. Questo "aiuto nell'apprendimento", tuttavia, nasconde anche dei momenti ideologici di interpretazione che verrebbero assorbiti per sé stessi; senza che ci sia una riflessione (18).
Anche così si nota che tutto l'orientamento di questa lettura "introduttiva" è tutt'altro che neutro, proprio nel suo aspetto teorico. Esso canalizza la comprensione della teoria di Marx già a partire dai fondamenti dell'analisi della forma valore, per mezzo di una griglia che deve determinare tutta la lettura successiva, ed in ultima analisi riduce le relazioni del capitale a dinamica interna. Così è conseguente che in tal senso già "l'introduzione" è preventivamente necessaria ad una massiccia polemica contro la teoria della crisi la quale non rientra in alcun modo nella comprensione fondamentale così presentata. Heinrich non lascia vedere, o se lo fa ne è contrariato, in modo diffuso e indiretto, che la sua interpretazione specifica opera fin dall'inizio mediante concetti di lotta che sono camuffati dalla serietà accademica (diversa dalle interpretazioni "né serie" "né scientifiche"); e non serve rivelare come tale interpretazione venga mediata dallo sviluppo economico-sociale. Basterebbe collocare la comprensione nella situazione storica, anche formulata in maniera rudimentale, per permettere ai recettori di "appropriarsi" della teoria di Marx, di riflettere criticamente su di essa dal proprio punto di vista, a partire dal quale svilupperebbero la necessità di un tale apprendimento, e lo esaminerebbero alla luce della teoria di Marx.
- Robert Kurz – 2012
fonte: EXIT!
(8) - Sintomatico della relativa marginalizzazione della teoria della crisi nel neo-marxismo degli anni 1960 fu il fatto che, nel centesimo anniversari della prima edizione de "Il Capitale" (1° volume), venne editata da Suhrkamp una collezione di saggi col titolo "Conseguenze di una teoria. Saggi sul Capitale di Karl Marx" (1967) in cui nessuno dei testi includeva esplicitamente la tematica della crisi. In primo piano c'erano discussioni filosofiche e sociologiche.
(9) - Il concetto di "prasseologia" venne inizialmente coniato dal sociologo francese Alfred Espinas, nel XIX secolo, e designava una teoria generale dell'azione umana. Può essere considerato come un sinonimo della teoria sociologica dell'azione. C'è qui la tendenza ad intendere l'azione solo nella sua immediatezza, ossia, astraendo la determinazione dalla sua forma storica e dalla sua costituzione feticistica. Per questo, l'approccio "prasseologico" riveste una grande importanza nell'economia politica soggettivista (cosa particolarmente chiara in Ludwig von Mises). Nel pensiero marxista entra con l'etichetta di "filosofia della prassi" (Gramsci, Bloch). Anche qui le relazioni formali oggettivate ed il loro carattere fericista passano in secondo piano attraverso una concezione di prassi tanto generale quanto diffusa. La comprensione delle relazioni sociali riducendole al "prasseologico" o al "modo della teoria dell'azione", ha fatto a lungo carriera nella sinistra. Servendo sempre ad attribuire all'azione costituita in modo capitalista, una tendenza in sé trascendente. Qui, in primo luogo, la caratterizzazione "prasseologica" viene intesa come vincolo della teoria con un soggetto immediatamente immanente (classe, partito, sindacato, movimento, economia alternativa piccolo-borghese ecc.). In questo senso, la critica della dissociazione-valore, in quanto critica radicale della costituzione e della pre-formazione storica dell'azione, è anche radicalmente anti-prasseologica, cosa che non significa che l'azione "dentro" l'involucro capitalista venga astrattamente negata. Ma l'imperativo dell'azione non può limitare la critica all'interno di tale involucro, come avveniva nel caso del marxismo del movimento operaio. Nelle correnti marxiste, residuali o post-marxiste, la riduzione prasseologica si è ulteriormente rafforzata, emergendo come congiuntura sociale, politica e "dello spirito del tempo" - proprio come lo sviluppo capitalista superficiale - come criterio e campo di riferimento che delimita la riflessione.
(10) - Quasi 40 anni dopo la pubblicazione dell'edizione commemorativa del centesimo anniversario della prima edizione del Capitale, appare nuovamente una raccolta di riepiloghi della lettura del Capitale (Hoff/Petrioli/Stützle/Wolf 2006) dove la teoria della crisi non viene menzionata, anche se il problema era già diventato un tema essenziale fuori dal marxismo residuale accademico per la critica della dissociazione-valore. Questo nuovo approccio, tuttavia, nasce proprio sotto il titolo di "Leggere il Capitale di nuovo" e in senso marginale e peggiorativo per quel che riguarda la valutazione metodologica, in quanto la teoria radicale della crisi viene messa completamente sotto silenzio. L'offuscamento della teoria della crisi, possiamo dire che perde qui la sua innocenza naif del 1967.
(11) - Non parlo qui di analisi parziali più o meno empiriche, nelle quali un concetto di crisi quasi sempre sociologicamente ridotto prolunga la sua esistenza marginale, ma del piano categoriale della teoria di crisi e di accumulazione di Marx. A tal proposito si trova sempre meno; gli ultimi lavori significativi, in cui il riferimento veniva fatto accidentalmente e senza alcuna connessione sistematica, sono usciti decenni fa.
(12) - Nella vasta monografia di Ingo Elbe, recentemente pubblicata, sulla Nuova Lettura nella Repubblica Federale Tedesca a partire dal 1965, non si trova, conseguentemente, nessuna traccia di una riflessione sulla dinamica capitalista. Anche se Elbe, nella sua esposizione, fa riferimento all'elaborazione teorica della critica di dissociazione-valore (soprattutto, naturalmente, smarcandosene), anche qui viene sistematicamente ignorata la teoria radicale della crisi, così come le sue componenti essenziali, anche se, tuttavia, vengono saccheggiate le sue asserzioni essenziali sul concetto di sostanza della teoria del valore ed il dibattito sul tema. Invece questi temi vengono gatti oggetto di una denuncia retorica; così Elbe ritiene che sia una polemica spiritosa definire la critica della dissociazione valore come "marxismo metaforico d'appendice" (ignorando dal punto di vista della "sovranità" androcentrica la teoria della relazione di dissociazione sessuale), e parla di "stile dei testi di Kurz che lasciano intravvedere il suo passato marxista-leninista". Non so che passato abbia la storia della socializzazione di sinistra di Elbe, né mi sembra interessante saperlo; ma in ogni caso nel suo stile si può riconoscere quella compiacenza accademica che comincia a guardare con ostilità i contenuti quando deve affrontare qualcosa che minaccia di far saltare il quadro della sua compiacenza filologica.
(13) - La scarsa importanza della riflessione sulla teoria della crisi, sia in senso stretto che in senso lato, da parte di Heinrich, risulta immediatamente dalla breve estensione che essa incontra nei suoi scritti. Nell'opera principale di Heinrich, "La scienza del valore" (2003), il tema si concentra in 16 pagine, e nella sua "Introduzione alla critica dell'economia politica" (2004), in appena 9 pagine. Nella versione di Heinrich della Nuova Lettura di Marx, la teoria della crisi è chiaramente un'orfanella dell'analisi marxiana del capitale. Al contrario, in Heinrich, si trovano ben estese quelle spiegazioni in cui nega propriamente i concetti di Marx che costituiscono i presupposti elementari della teoria della crisi (il concetto di sostanza materiale, la caduta tendenziale del tasso di profitto).
(14) - Il dibattito dettagliato, con Heinrich, Postone ed altri, del concetto marxiano di sostanza costituisce parte del lavoro della critica della dissociazione-valore ai fini della riformulazione di una teoria radicale della crisi; questo verrà riferito in seguito, ma dev'essere ancora dettagliatamente elaborato nell'ambito del progetto di libro intitolato "Lavoro morto" di cui si parlava all'inizio, dal momento che non è adatto ai limiti dei lavori preliminari qui svolti. Un primo approccio alla critica della revisione del concetto marxiano di sostanza è già stato presentato. Essenzialmente, la questione è che Heinrich rigetta la definizione materiale marxiana di sostanza del lavoro come dispendio formalmente determinato di energia umana ("nervi, muscoli, cervello") e rende il concetto di "lavoro astratto" come assorbito nell'astrazione meramente funzione dello scambio nella sfera della circolazione; quest'astrazione senza il suo contenuto funzionalmente ridotto, tuttavia, non riesce a spiegare la quantificazione sotto forma di denaro, che viene così conseguita solo per mezzo di un trucco.
(15) - La necessaria critica dell'ideologia, il cui significato viene a ragione accentuato contro un'ontologia positiva della classe sfruttata, o semplicemente dei "poveri", e contro il mero relativismo delle idee, qui non ha più alcuna relazione con la dinamica oggettivata del capitale. E' come se tutte le relazioni consistessero in "ideologia". Ma la critica dell'ideologia diventa vuota se non riesce a spiegare a cosa si riferisce veramente la formazione dell'ideologia. Perciò la critica dell'ideologia non può mantenersi, o presentarsi, come una sorta di "specialità" in sé, in quanto posizione di per sé in contraddizione con altre posizioni. Un tale riduzionismo della critica dell'ideologia è esso stesso ideologico al massimo grado e dev'essere oggetto di una critica corrispondente.
(16) - "L'anti-sostanzialismo di Michael Heinrich e la revisione, a questo associata, della determinazione basilare dell'analisi marxiana della forma del valore, non si limita a rimanere conforme all'ideologia post-moderna; essa viene stimata a sinistra anche perché promette dall'inizio di escludere una teoria della crisi che si riferisca alla diminuzione assoluta della sostanza del lavoro reale, e che sia oggettivamente "valida".
(17) - Più di una volta, Michael Heinrich ha avuto in questo una posizione di rilievo. Sebbene nerl caso delle analisi della critica della dissociazione-valore, presentate negli anni 1990, per esempio a proposito del crollo del socialismo reale o della storia delle tre rivoluzioni industriali, si tratti chiaramente di un piano di esposizione differente della filologia di Marx, Heinrich ritiene di poter affermare, prima di qualsiasi argomentazione relativa al contenuto, che esso esprime "un trattamento superficiale delle categorie di Marx", che "frequentemente" fiorirebbe "proprio come i fiori". Il Capitale di Marx, al contrario, sarebbe molto più attuale di quella tale "opera armata e pretenziosa". Naturalmente quest'accusa mai provata di "superficialità" (sempre con l'occhio rivolto verso la teoria radicale della crisi) ha un carattere preventivo, in termini di politica teorica, che denuncia una chiara posizione frontale. Heinrich qui non parla pro domo sua, ma anche per tutto il marxismo residuale ed il post-marxismo universitario cha ha da tempo individuato la critica della dissociazione-valore come nemico comune. Astraendo l'incompatibilità dei contenuti, qui si tratta della comunità scientifica di sinistra, quale che sia il suo stato di sicurezza o di precarietà, che amerebbe soprattutto risolvere all'interno i problemi teorici e rimuovere tutti i combattenti che non posseggono un ineludibile pedigree accademico.
(18) - Heinrich assume la posa del professore non-autoritario che non fa valere di fronte ai suoi clienti alcuna conoscenza precedente, successiva o differente dalle affermazioni di Marx. Infatti, per quanto riguarda il Capitale, sarebbe molto pericoloso che "venisse letto attraverso gli occhi di un commentatore e per questo si ritrovasse nel testo proprio quello che il commentatore afferma" (Heinrich. 2008). Contro un tale pericolo, raccomanda "un'altra specie di commento" che consiste nel "riferirsi esclusivamente al testo presentato" in modo che "gli argomenti esposti possano venire immediatamente esaminati nel testo, da parte del lettore, senza essere oggetto di fede e senza che il commentatore si trasformi in un'autorità". Ora, per prima cosa, qualsiasi lettura è già un'interpretazione, dal momento che non si verifica zenza presupposti. Seconda cosa, la pre-conoscenza del commentatore in nessun modo viene rimossa attraverso l'introduzione al testo, soprattutto se tale introduzione viene accompagnata per mezzo dell'autorità strutturale di elaborati volumi di interpretazione. Heinrich rafforza così la comprensione della sua interpretazione della "sfocatura della teoria di Marx" già sulla base che i partecipanti al corso, rilassati e completamente ignoranti, messi "immediatamente davanti al testo" siano in grado di apprendere e innanzitutto indifesi, di modo che questi allora più che mai troveranno nel testo proprio quello che il commentatore aveva affermato - credendo così che sia un "pensiero proprio" a cui è stato dato un piccolo aiuto. Questa specie di introduzione pseudo-antiautoritaria è forse il più insidioso genere di indottrinamento, che suggerisce una discussione di sviluppo concettuale solo in apparenza senza presupposti, come del resto da tempo viene usata abitualmente nella concezione postmoderna della psicologia e della gestione. Una "appropriazione" suppostamente ben guidata dei concetti fondamentali di Marx (proprio quelli rilevanti per la teoria della crisi) avviene così, ironicamente, sotto forma di critica e di dissoluzione specificamente heinrichiana dei suoi fondamenti, e può essere definita la versione postmoderna dello "imbuto di Norimberga" (N.d.T.: riferimento letterario tedesco, per il quale la conoscenza veniva infilata nella testa dello studente per mezzo di un imbuto). Particolarmente sensibile a tutto questo, è una specie determinata di intelligenza riproduttiva di "animali discenti" accademici, i quali presumibilmente studiano solo i classici "completamente e solamente sul testo" e non vogliono vedere che anche così si stanno muovendo su un campo minato di interpretazione e di dibattito, dal quale nessuno si può astrarre impunemente.
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