Fernand Braudel. Un Erodoto del nostro tempo
di Luciano Canfora
«Questa storia è carica di anni — scrive Thomas Mann al principio della Montagna incantata — ; perciò conviene narrarla nella forma del passato più remoto». Nel 1924, anno di pubblicazione del romanzo, Mann sa bene che la sua storia copre in realtà i sette anni che vanno dal 1907 al 1914, e che dunque non è propriamente così remota; e perciò con gusto un po' enigmatico prosegue osservando: «succede alla nostra storia quello che accade oggidì agli uomini, compresi anche i novellatori: essa è assai più vecchia dei suoi anni, l'età sua non si può misurare in giorni né in lune, in una parola essa non deve veramente la sua maggiore o minore antichità al tempo». Perché la storia di Castorp sia «più vecchia dei suoi anni» viene chiarito subito dopo: «la sua estrema antichità è data dal fatto che essa viene prima di un certo abisso che ha interrotto la vita e la coscienza dell'umanità. Avviene, o meglio per evitare di proposito ogni tempo presente, avvenne, è avvenuta una volta, in tempi lontani, negli antichi giorni del mondo, prima della grande guerra, con l'inizio della quale ebbero principio tante cose che avevano appena finito di cominciare». E' il 1914, l'anno zero: ciò che avvenne prima è irrimediabilmente passato e perciò remotissimo. E una tale concezione della relatività del tempo ritorna insistentemente nel romanzo dalle prime pagine sugli effetti di straniamento di due giorni di viaggio alle divagazioni sul tempo all'inizio del quarto capitolo.
Difficilmente si saprebbe indicare nella narrativa contemporanea una riflessione più vicina alla celebre pagina di Braudel sui tre diversi tempi della storia. E' questa nella prefazione al monumentale "Il mediterraneo nell'età di Filippo II", la cui tripartizione rispecchia appunto quei tre diversi «tempi». Il primo, scrive Braudel, riguarda «una storia quasi immobile» la storia dell'uomo nel suo rapporto con la realtà fisica; il terzo — che ne è l'antitesi — è quello della storia tradizionale «caratterizzato da un movimento rapido e incessante, ma di superficie»; a metà strada tra i due vi è per Braudel una «storia lentamente ritmata, la storia sociale». Era la prima volta che uno storico relativizzava il tempo, cioè la «forma a priori» del racconto storiografico. Una tale nozione è ormai senso comune della storiografia contemporanea. La data ufficiale di questa intuizione di Braudel è il 1949, quando fu pubblicato il grande libro sull'età di Filippo II. Ma il ben più remoto atto di nascita di quel libro è molto vicino alla Montagna incantata di Mann: è del 1927, quando Braudel allora venticinquenne professore di storia al liceo di Algeri, chiedeva e otteneva, dalla locale facoltà di lettere, di tenere delle conferenze sulla storia della Spagna nei secoli diciassettesimo e diciottesimo. Decano alla facoltà di Algeri, Louis Gernet, l'antropologo della Grecia antica: è merito di Riccardo Di Donato aver trovato le lettere di Braudel a Gernet relative a questo corso di conferenze. Lì è già tracciato il programma che prenderà poi corpo nel Mediterraneo nell'età di Filippo II.
Difficilmente una coincidenza così singolare saprebbe meglio illustrare il fenomeno capitale del secolo apertosi con l'anno che a Mann parve un inizio. Esso consiste nella caduta della separazione tra storiografia e narrativa. Musil e Mann hanno scritto libri di storia tanto quanto Braudel e Hobsbawm. La riflessione di Braudel sui tempi prospetticamente variabili della storia può considerarsi, legittimamente, sia come l'atto di morte della vecchia storia sia come il bilancio di decenni di autocritica e di riflessione della narrativa su se stessa.
Due anni dopo il carteggio tra Braudel e il decano di Algeri, nel 1929, nascevano le Annales, sotto l'impulso di Marc Bloch e Lucien Febvre. Mai nascita fu più tempestiva. Si ripete, ed è sostanzialmente vero, che la rottura rappresentata dalle Annales rispetto alla storiografia positivistica produsse l'allargamento del «territorio dello storico». Orbene, questo allargamento era anche un aspetto della rottura dei cancelli tra storiografia e narrativa, e, al tempo stesso, della fine di due centralità: quella politico-diplomatico-militare nella storiografia e quella dell'eroe protagonista nella narrativa. Rotti quei cancelli, il territorio dello storico diveniva d'un tratto immenso: come la realtà che Erodoto, unico storico totale del mondo greco orientale, ha fatto irrompere nella sua sconfinata «ricerca».
E' comprensibile e giusto che il bersaglio della «nuova storia» fosse la storia detta polemicamente evenemenziale, quella cioè che — come soleva dire Marrou — «crede che i fatti ci stiano ad aspettare, prefabbricati in seno ai documenti». «Diffidiamo di questa storia — scrisse Braudel — quale i contemporanei l'hanno sentita, descritta, vissuta, al ritmo della loro vita, breve come la nostra. Essa ha la dimensione delle loro collere, dei loro sogni e delle loro illusioni».
Gli storici delle Annales, tra i quali fu presto in posizione di rilievo anche Braudel, non amavano richiamarsi esplicitamente al marxismo, anche perché negli anni del loro sorgere ed affermarsi essi avevano sott'occhio del marxismo la più schematica delle contraffazioni. Eppure è quasi superfluo dire oggi, oltre mezzo secolo dopo, che senza l'irruzione del marxismo nel pensiero storico, l'ampliamento del «territorio dello storico» predicato dalle Annales sarebbe stato impensabile. «Due strade sono aperte dinanzi a noi per scrivere questo libro — scrive Braudel nella introduzione alla sua opera più matura e profonda, "Capitalismo e civiltà materiale" (1967) — : guardare innanzitutto ai vincitori, poi rapidamente, schematicamente agli altri, le masse e la loro storia, peraltro maggioritaria: è la soluzione abituale. Oppure rovesciare l'ordine: porre prima di tutto in primo piano proprio queste masse, quantunque esse siano situate quasi fuor del tempo vivo e ciarliero della storia. Questo — soggiunge — sarà il nostro programma». Qui la lezione del marxismo è operante e fatta propria. In questa pagina inoltre è quanto mai evidente il nesso tra i due termini: l'ampliamento del territorio (la storia delle masse) comporta la assunzione di un «tempo» assai più lento (non quello ciarliero della storia evenemenziale).
Non vi è forse terreno nel quale la teorizzazione astratta risulti così deleteria come quello della storiografia. Braudel — in questo davvero storico alla maniera dei classici — ha sempre tratto i suoi bilanci teorici a margine di possenti opere di ricerca concreta. Né ha mai corso il rischio di cancellare la storia evenemenziale in pro di un racconto storico senza fatti, alla maniera di Croce. Per lui sono in fondo legittimi e necessari tutti e tre i «tempi». Eppure vi era nella sua teoria, come, più in generale, nei programmi delle Annales, il rischio della fuga nella non-storia: è il caso delle rarefatte storie del clima e degli slittamenti dei ghiacciai, abbozzate con virtuosismo illusionistico da Le Roy Ladurie. Esperimenti che hanno provocato ovviamente sussulti passatisti di reazione tradizionalista e che sottintendevano un accentuato nullismo apolitico.
La grandezza di Braudel è consistita invece proprio nella capacità di pensare la storia nei suoi vari tempi. Nessuna moda strutturalista perciò se lo è mai potuto annettere. In testa al suo libro più letto in Italia ("Il mondo attuale") Braudel ha posto una “Grammatica delle civiltà”. Nulla di più lontano dalla scarnificata e onnivalente morfologia strutturalistica. A un certo punto della Grammatica, Braudel considera il caso in cui una civiltà rifiuta, come scrive, «l'adozione di beni culturali capaci di mettere in pericolo le sue strutture profonde». E pensa a Bisanzio che secondo uno storico turco si diede agli ottomani nel 1453, perché preferì i turchi all'unione coi latini. Il pensiero passa allora al mondo di oggi e Braudel considera il rifiuto che il mondo anglosassone ha opposto, nel '900, alla rivoluzione comunista. Ma l'analogia si dissolve subito in una riflessione specifica: «il no è categorico da parte dei paesi germanici e anglosassoni; meno netto e definitivo da parte della Francia, dell'Italia e degli stessi paesi iberici. Si tratta probabilmente di un rifiuto posto da una civiltà ad un'altra. Potremmo dire meglio che, se l'Europa occidentale adottasse il comunismo, lo organizzerebbe probabilmente in modo diverso, come essa ha già fatto per il capitalismo, costituitosi in forme diverse da quelle ad esempio degli Stati Uniti». Forse vi è in queste parole anche il nostro domani.
- Luciano Canfora - da “il manifesto” del 29 novembre 1985 -
Nessun commento:
Posta un commento