Crisi e Critica
- Il limite interno del capitale e le fasi di avvizzimento del marxismo -
di Robert Kurz
Un frammento
Nota: Il 10 febbraio del 2010, Robert Kurz inviò per email alla redazione di EXIT! un testo, accompagnato dalle seguenti parole: "Insieme alla prima parte del progetto del libro più piccolo, Crisi e Critica, stralciato dal precedente progetto Lavoro Morto, per discuterlo nel prossimo incontro. Si può rimuovere dalla prefazione e dall'introduzione tutto ciò che si considera necessario". Dopo l'incontro, il testo è stato fatto oggetto di piccoli aggiustamenti da parte della redazione e non è stao mai modificato dal maggio del 2010. Come viene spiegato nella prefazione del suo ultimo libro, Denaro senza Valore, Robert Kurz aveva deciso di scrivere una serie di libri a partire dal progetto originale del libro di grandi dimensioni, Lavoro Morto. L'unico che ha potuto realmente terminare, è stato Denaro senza Valore, che è apparso nelle librerie pochi giorni dopo la sua morte. Crisi e Critica sarebbe stato un altro libro di questa serie. Dei 36 capitoli previsti - inclusi l'introduzione e l'epilogo - Robert Kurz ha avuto il tempo di scriverne 10.
* Prefazione * Introduzione * 1. La teoria della crisi nella storia del marxismo * 2. Il capitale va molto bene. Ignoranza situazionista della crisi come mancanza di dimensione storica del tempo * 3. Mitizzazione della teoria del crollo * 4. I cavalieri dell'apocalisse * 5. Psicologismo per i poveri * 6. Bisogna criticare il capitalismo solo per mancanza di funzionalità? * 7. Crisi ed emancipazione sociale * 8. Excursus: la dissociazione-valore fa del feticcio il creatore di un mondo di marionette? * 9. La crisi come rapporto soggettivo di volontà *
Altri capitoli previsti ma non scritti:
10. Il capitalismo come eterno ritorno dello stesso * 11. Empirismo storico: l'ammirevole flessibilità della logica di valorizzazione * 12. Ritorno alla brutta normalità? * 13. La crisi come mera "funzione di aggiustamento" delle contraddizioni della circolazione? * 14. Excursus: l'indebolimento e l'abbandono parziale "critico del valore" da parte della teoria radicale della crisi * 15. Sempre nuovamente il "problema della realizzazione" * 16. La crisi dev'essere piccola o grande? Il concetto ridotto del sistema * 17. Il percorso del biocapitalismo? * 18. Riduzionismo ecologico * 19. Capacità di sopravvivenza del capitale individuale ovvero un capitalismo di minoranza? * 20. Il carattere dell'economia postmoderna delle bolle finanziarie * 21. Excursus: critica riduttiva del mercato finanziario, anti-americanismo e antisemitismo strutturale * 22. L'ultima risorsa ovvero la fede nel miracolo di Stato * 23. Un'illusione democratica * 24. La questione della proprietà erroneamente collocata * 25. Keynesismo di sinistra ovvero la riduzione della teoria del sub-consumo * 26. La guerra come soluzione per la crisi? * 27. La crisi sposta solo i rapporti globali di potere? * 28. Il sesso della crisi * 29. La mancanza della critica categorica * 30. Sintesi sociale e socialismo * 31. Excursus: "Forma embrionale" - un grave malinteso * 32. Cos'è un mediatore? Criteri di immanenza sindacale * 33. Carnevale di "lotte" e pacifismo sociale da ideologia a alternativa * 34. Come Herr Biedermeier aggiusterebbe bene tutto * Epilogo *
7. Crisi ed emancipazione sociale
La falsa accusa per cui la posizione della critica della dissociazione-valore fonderebbe la sua opposizione al capitalismo unicamente su questa mancanza di funzionalità, riduce tutto l'approccio alla teoria radicale della crisi considerata isolatamente, e allo stesso tempo vorrebbe cancellare la critica fondamentale (giustamente categoriale) della moderna relazione di feticcio e del carattere sfrenato del lavoro astratto, che di essa fa parte. Tuttavia qui salta subito all'occhio un qui pro quo degno di nota, a partire dal fatto che il concetto di crisi o di limite interno viene proiettato senza mediazioni nell'intenzionalità della critica e della sostituzione pratica del modo di produzione e di vita capitalista. Qui, viene ancora una volta espressa una confusione circa la dialettica moderna soggetto-oggetto che aveva già segnato i vecchi dibattiti sulla teoria della crisi. Una tale confusione si presenta come falsa identificazione della crisi con la critica, ossia, del limite interno, da un lato, e la volontà di emancipazione sociale, dall'altro. Come nei vecchi dibattiti, le due cose non possono coincidere immediatamente (crisi in senso forte proprio come risultato della critica pratica), né possono costituire un'alternativa esterna rispetto all'interpretazione (critica in senso forte come opposizione all'oggettività della crisi).
Qui risiede anche la ragione fondamentale della mitizzazione della "teoria del collasso" del marxismo del movimento operaio, fatta da Michael Heinrich ed altri. Rosa Luxemburg ed Henryk Grossmann si avvicinarono, sebbene in modo riduttivo, al concetto di limite interno oggettivo della valorizzazione del capitale. Ma il sollevamento generale contro questo ragionamento oggettivo, fatto proprio a partire dal processo di accumulazione del capitale, fece sì che entrambi i protagonisti, isolati, facessero marcia indietro, facendo regredire il ragionamento oggettivo a pura "finzione teorica", come si è visto, e non solo. Ci fu anche una reinterpretazione soggettiva del concetto di "collasso", nel senso del "soggetto di classe" di azione: mentre la corrente socialdemocratica disapprovava questo concetto a favore di una politica di riforme senza rotture, nelle interpretazioni leniniste e di estrema sinistra il "collasso" invece emergeva improvvisamente come risultato dell'azione rivoluzionaria del proletariato; ossia, non più come determinazione interna, ma del tutto separato dall'auto-contraddizione interna della valorizzazione. In questo caso, la mancanza di chiarezza teorica veniva gonfiata metaforicamente, poiché un "collasso", in accordo col significato della parola, non può che essere un avvenimento inconscio, mentre un superamento cosciente della relazione capitalista è una situazione del tutto differente. La reinterpretazione secondo la quale il capitalismo "collassa" per mezzo di un semplice atto di volontà, dissolve nella retorica rivoluzionaria il fondamento della teoria dell'accumulazione, ed evita il problema fondamentale. E' di questo che vive la mitizzazione storica di Heinrich, assumendo falsamente questa ridefinizione "della teoria della rivoluzione" come prova del predominio, nel marxismo del movimento operaio, di una "teoria del collasso" oggettiva. In realtà, fu proprio in questo modo che vennero ribaditi i sentimenti del movimento operaio, avversi a qualsiasi spiegazione oggettiva di un limite interno alla valorizzazione.
Da questo punto di vista - come avveniva nei dibattiti classici - viene ripetutamente attribuita alla teoria radicale della crisi una certa idea per cui raggiungere il limite interno oggettivo dovrebbe sostituire la critica, o semplicemente renderla superflua. "Fine" o "limite" oggettivo viene immediatamente equiparato a "superamento emancipatore". Una volta che quest'ultimo, evidentemente, non può darsi senza azione emancipatrice cosciente da parte delle persone, la valorizzazione del valore "deve" soltanto sbattere contro il limite di una contro-volontà, e non contro il suo proprio limite interno: "Il capitalismo è alla fine? Una società dopo il capitalismo, presuppone soprattutto una coscienza che ad essa ambisce e per essa lotta... Se la coscienza delle masse non pretende per sé una qualche società liberatrice - e al momento questo non si vede - dopo il collasso del sistema capitalista del valore si potrà avere solo una cosa: capitalismo risorto dalle rovine ..." (Ebermann/Trampert 1995).
Non potrebbe esserci un paradosso più grande: poiché il capitalismo non "deve" sbattere contro nessun limite interno della sua auto-contraddizione, ma solo nel limite esterno volontario della coscienza delle masse, esso deve pertanto sopravvivere al suo proprio collasso (che viene quindi ammesso come possibilità implicita), senza il quale, per l'effetto dovuto alle altre circostanze, continuerebbe ad essere "amato". La possibilità di esistenza del capitalismo appare come nient'altro che un problema di coscienza e di volontà.
I credenti nella riduzione della crisi alla critica, che accusano del contrario la teoria critica della dissociazione-valore, meritano gli elogi da parte di Gegenstandpunkt: "Il suo rifiuto di sperare nel collasso e la sua insistenza a proposito del fatto che né le sue vittime né nessuno eliminerà il capitalismo non più considerato necessario, è simpatico ..."(Gegenstandpunkt 1996). Il presupposto di questa simpatia, naturalmente, sta nell'inveterata presupposizione che la deduzione di un limite interno oggettivo sarebbe identica alla speranza di una specie di emancipazione automatica. Un'attribuzione senza alcun fondamento "... Kurz promette la liberazione degli esseri umani ... attraverso l'auto-distruzione del sistema fine a sé stessa, verso cui si sono disposti in modo incondizionato" (Gegenstandpunkt 1996).
Una volta che, nonostante tutte la differenze, la "simpatia" fra marxisti residuali e post-marxisti è talmente grande nel rifiuto comune della teoria radicale della crisi, gli ideologhi "anti-tedeschi" ripetono, anni più tardi, la stessa accusa, affermando a proposito di questa teoria: "Perfettamente nello stile della tradizione socialdemocratica e stalinista ... procede come se questo capitalismo si risolvesse da sé medesimo" (Initiative Sozialistisches Forum 2000); la teoria della dissociazione-valore " ... postulerebbe un automatismo della crisi e della liberazione" (Grigat 2007). Come al solito viene considerata come posizione contraria a quella di Rosa Luxemburg, secondo cui la valorizzazione potrebbe "continuare ... di fatto fino a che il solo non si spenga, senza che il capitalismo sbatta contro un limite diverso da quello per cui le persone non lo vogliono più" (Initiative Sozialistisches Forum 2000). E' già stato chiarito che proprio "la tradizione socialdemocratica e stalinista" non ha mai voluto saperne di un limite interno oggettivo; quest'argomentazione si limita a riprodurre quella che è la falsa attribuzione di Heinrich. Astraendo da questo, si nega la dinamica oggettiva e si sussume il "limite" sotto l'immediatezza delle relazioni di volonta. Dove sta veramente il problema?
Ci troviamo nuovamente di fronte alla riduzione della teoria dell'azione, o "prasseologica", la quale parte da un fatto indubitabile: la socialità non consiste solamente nell'agire volontario delle persone; non esiste una qualche istanza extra-umana sopra le nuvole che dirige questo agire. Quello che viene inteso come determinazione trascendente dell'azione nelle costituzioni religiose premoderne (ed anche nel rovescio irrazionalista della ragione illuminista capitalista), come Dio, Provvidenza, destino ecc., si dissolve nell'azione temporale e terrena delle persone stesse. Visto così, sembra non esserci un qualche momento determinante nel dissolvimento economico-sociale. Il che, nondimeno, notoriamente sfugge a questa secolarizzazione prasseologica ed alla "trascendenza immanente" terrena della relazione di capitale stessa. L'azione volontaria in nessun modo è semplicemente contingente, ma la volontà condizionante l'azione è essa stessa trascendentalmente costituita e preformata, in modo tale che tanto essa quanto l'azione stessa indicano un punto cieco che produce, come risultato, una oggettivazione ed una determinazione ugualmente cieche.
E' naturale che questa oggettivazione sia, essa stessa, a sua volta, un risultato delle azioni. Per poter estendere un tale contesto, tuttavia, abbiamo bisogno di distinguere due differenti modi di agire; vale a dire, da un lato, quell'agire storico che ha costituito il capitalismo e, dall'altro, l'agire "dentro" questa formazione sociale già costituita. L'agire costituente originario, naturalmente, non dev'essere inteso come cosciente "volontà di capitalismo", anche se è stato realizzato da processi di volontà nelle condizioni di allora. Il processo di transizione "verso" il capitalismo aveva determinati presupposti (che vanno investigati come tali) nella dissoluzione materiale ed ideologica delle vecchie formazioni agrarie.
Ciò comprende la trasformazione protestante nella sua propria costituzione religiosa, che proveniva dalle sue maturate contraddizioni interne e dall'evoluzione del concetto di "lavoro", precedentemente determinato negativamente (come relazione di dipendenza personale), verso una generalità astratta, descritta da Max Weber nel suo studio sulla "etica protestante". Sotto l'aspetto materiale, è stata la rivoluzione militare proto-moderna delle armi da fuoco ad attivare una "corsa all'armamento" di tipo nuovo che non poteva più essere rappresentata nelle "forme naturali" agrarie, ma solo attraverso il potere astratto del denaro, fino ad allora marginale. Sorse così una rampante "forma di denaro" dei principi, dettagliatamente documentata dagli storici. Le imposte feudali, nella fattispecie, vennero trasformate in obbligazioni monetarie ("monetizzate") ed in tal modo, poco a poco, tutte le relazioni sociali trasformate in relazioni monetarie. A questo, tuttavia, erano associati "effetti collaterali" imprevisti ed ampi che, indipendentemente dalla volontà e dall'obiettivo iniziale dei potenti attori, produssero "dietro le loro spalle", sotto forma di sviluppo cieco, quel fine in sé che è la macchina della socializzazione negativa del lavoro astratto e della valorizzazione, che alla fine divorò anche i suoi genitori involontari nella "rivoluzione borghese", e sviluppò il capitalismo moderno come formazione autonoma (il concetto di capitalismo nasce solo all'inizio del XIX secolo).
Già nel processo originale di costituzione, il risultato non poteva essere spiegato "prasseologicamente" in forma riduttiva, al contrario, la praxis (volontaria) comprese un momento trascendentale nel passaggio dalle relazioni di feticcio premoderne (di costituzione agraria-religiosa) verso le relazioni di feticcio moderne, capitaliste. Né prima né dopo l'agire viene assorbito dagli obiettivi stabiliti volontariamente e coscientemente dagli attori, né può essere quindi determinato meramente in termini di teoria dell'azione. Perciò non può essere dedotta alcuna ontologia della trascendenza negativa prodotta dagli esseri umani stessi, e sempre nuovamente in fase di produzione dal suo contesto sociale, ma solo una fattualità socialmente condizionata, della quale - in queste determinate relazioni e processi di trasformazione da noi conosciuti - gli esseri umani, nell'espressione di Marx, non "dominano" coscientemente la sua stessa riproduzione materiale e sociale ma, al contrario, questa si pone di fronte a loro come potere estraneo ed apparentemente esterno, sotto forme incoscienti sorte attraverso delle conseguenze non prese in considerazione dal loro agire (5).
Una volta che è sorta - e sempre più "come processo sulla sua propria base" (Marx) - tuttavia la macchina del fine in sé della valorizzazione, proprio attraverso l'agire di tutti i partecipanti a "questa" relazione nuova e autonomizzata, stabilisce a partire da sé quelle "condizioni di esistenza" e quelle "forme di pensiero" definite da Marx come oggettive. Attraverso l'agire così condizionato si costituiscono "leggi" apparentemente "naturali" del contesto formale e funzionale, che a loro volta determinano l'agire, e portano a risultati oggettivi sui quali predomina questa socializzazione negativa e cieca. E' proprio in questo senso che Marx ha definito il capitale (da non confondere con i capitalisti) e la sua logica di valorizzazione come "soggetto automatico". La novità di questa specie di oggettivazione, rispetto a tutte le forme precedenti, sta nel fatto che il contesto funzionale non si presenta come statico, ma in un processo "in corso" delle contraddizioni interne, e viene eseguito per mezzo di un sistema di concorrenza universale che non era mai esistito prima, la cui "coercizione muta" (Marx) mette in moto una dinamica cieca che si sovrappone agli obiettivi (volontari) immanenti degli attori, insieme ad uno sviluppo incontrollato delle forze produttive e/o distruttive di questo modo di produzione e di vita.
Qui è importante che il risultato oggettivato di tale dinamica non proviene dalla mera somma esterna delle azioni intenzionali empiricamente immanenti e non coordinate (che nell'immediato possono anche essere diversamente immanenti, e perciò contingenti) dei diversi attori sociali; questa sarebbe ancora una comprensione riduttiva del processo. Al contrario, la volontà che supporta l'azione, indipendentemente dalle sue forme di sviluppo empiricamente contingenti, è già contenuta nel contesto funzionale presupposto; ossia, essa è determinata a priori come forma, e questa forma di volontà feticisticamente costituita (ivi compreso il vivere nella miseria la propria vita sotto i dettami della valorizzazione, e vedere in questo l'unica forma possibile di riproduzione personale), è già essa a produrre le "leggi" oggettive, che a loro volta portano ai corrispondenti risultati oggettivi e così ad una certa determinazione di sviluppo cieco su questa base (6).
In questo contesto bisogna distinguere con esattezza fra crisi e critica. La crisi, secondo il suo proprio concetto, è completamente determinata dal lato oggettivato e determinato della relazione sociale, la quale produce un agire degli esseri umani che è comandato da una forma cieca ed aprioristica della loro volontà, il cui contesto globale incosciente si presenta in superficie come il corso di un processo naturale. Questo si applica tanto alle crisi imposte storicamente dal capitale e alle crisi temporanee cicliche e strutturali, quanto al limite interno assoluto che comincia a manifestarsi storicamente. Qui bisogna tener presente che solo la barriera della crisi in quanto tale è determinata dalla dinamica delle azioni immanenti formalmente determinate, mentre le condizioni concrete (per esempio, la forma specifica dello sviluppo delle forze produttive), come le rispettive forme di sviluppo ed i modi di reazione ideologica, compresi i loro risultati, rimangono relativamente contingenti. E' determinata dalla dinamica interna in quanto tale, la relazione generale tra lo sviluppo delle forze produttive e le condizioni modificate della valorizzazione, mentre le rispettive tecnologie, i mezzi usati dagli attori e i comportamenti delle persone nella crisi, in nessun modo nascono "automaticamente". Ma questo non altera in niente il carattere strettamente oggettivo della crisi in quanto tale.
Le cose avvengono in modo fondamentalmente differente per quel che riguarda la critica. Se neppure le reazioni distruttive, e perfino omicide, della coscienza ideologica, nei confronti della crisi che irrompe come un disastro naturale, sono determinate, è naturale che lo sia molto meno la critica radicale emancipatrice dalla relazione di feticcio soggiacente. Perciò si può eliminare da subito la conclusione generale per cui non esiste nessuna relazione causale immediata tra crisi e limite assoluto, da un lato, e critica emancipatrice, dall'altro. La crisi è oggettivamente determinata, l'emancipazione non lo è in alcun modo. La relazione di feticcio, con il suo assurdo carattere sfrenato, può essere fondamentalmente criticata anche senza crisi né collasso. Al contrario, però, una crisi può insorgere, o il limite interno storico può essere raggiunto, senza che si formi una critica emancipatrice e senza che si aspiri a superare praticamente le relazioni determinate in modo feticista; oppure che accada anche che le persone, proprio sotto l'impressione dell'esplodere della crisi, si aggrappino con tutta la loro forza alle condizioni di vita capitalistiche e non vogliano nient'altro.
Oggi, sotto quest'aspetto, ci troviamo di fronte ad una dialettica mortalmente pericolosa, precisamente nella misura in cui, da un lato, il limite interno eretto in forma puramente oggettiva dall'auto-contraddizione logica del processo di valorizzazione diviene di fatto effettivamente assoluto e storico, dall'altro lato, tuttavia, gli esseri umani interiorizzano come "condizioni di vita" e "forme di pensiero" dominanti, così profondamente come mai prima, pretendendo perciò, nonostante le paurose distorsioni sociali, di riprodursi fino all'ultimo nel contesto formale e funzionale capitalista, che viene considerato "senza alternativa". Da questo risulta un'enorme tensione per la cui soluzione, nondimeno, la comprensione comune della crisi e la critica nella sinistra in generale non ci consegnano niente di buono.
Il "funzionamento" del capitalismo viene così interiorizzato, anche fra i teorici di sinistra, per i quali l'auto-distruzione interna del processo cieco di valorizzazione nel suo contesto funzionale appare semplicemente come impensabile. Così Michael Heinrich domanda, retoricamente: "Tanto nelle vecchie teorie del collasso, quanto nel suo nuovo risorgimento, è proprio 'collasso' ad essere problematico: come lo si deve immaginare per una situazione sociale? Miseria e disoccupazione in tutto il mondo? Ma qual è allora la differenza in rapporto ad una crisi 'normale'? O sarà davvero la fine della produzione di merci?" (Heinrich, 1999). Come conseguenza, si potrebbe immaginare una previsione (da lui non condivisa) fatta quanto meno di una "situazione" come di "decadenza", nella quale "si continuerebbe (ad avere) produzione di merci e capitalismo, ma nella stagnazione e con terribili effetti sociali" (ibidem).
Questo ragionamento, addotto ripetutamente, pretende di determinare gli effetti sociali negativi solo nella loro dimensione quantitativa, ponendo fuori dalla capacità d'immaginazione una rottura qualitativa prodotta dalla dinamica interna. Sotto quest'aspetto non si riesce a formulare una trasformazione della quantità in qualità. Così, per esempio, il concetto di "disoccupazione di massa" ha senso solamente se, dall'altro lato, si continua ad avere "occupazione" in una dimensione tale che questa abbia capacità di riproduzione. Se manca la possibilità, resa disponibile dalle condizioni di valorizzazione, di utilizzare forza lavoro viva in un ordine di grandezza capace di riproduzione sociale, occorre una trasformazione della quantità in qualità: tutto il contesto di riproduzione determinato dalla logica della valorizzazione comincia a paralizzarsi.
Quello che nelle crisi "normali" (visto che il concetto di normalità deve qui essere messo in discussione) insorge appena parzialmente, raggiunge il nucleo del sistema stesso e porta alla completa disgregazione del modo di produzione e di vita capitalista, in una situazione che saltare la patina di vernice della civiltà (7) e lancia l'umanità verso un'epoca fatta di secoli bui. Se Marx, dopo tutto, considerava possibile la caduta comune dell'umanità socializzata nel capitalismo, nella "barbarie", nel caso non si realizzi un superamento emancipatore della relazione di feticcio, la barbarie è anche un concetto che delimita ambiguamente la logica del dominio; ma, una volta che questa (del resto, a somiglianza del concetto di feticcio) si riferisce alle relazioni "proprie" e alla sua potenza di crisi, può servire a designare il processo distruttivo e violento di decomposizione della formazione capitalista (8).
La caduta nella barbarie costituisce una metafora per dei processi che non sono più concepibili in maniera teorico-analitica (inoltre, la stessa teoria, in tali condizioni, tende a decadere), processi che vanno ben al di là di un capitalismo che "continuerebbe" ad esistere, solamente "in stagnazione" e con "effetti sociali terribili". Per farsene un'idea, è sufficiente prolungare le conseguenze già osservabili a partire dall'irruzione della crisi e determinarne la sua propria logica. Tale logica consiste generalmente nel fatto che la riproduzione sociale ne risulta progressivamente paralizzata a causa della caduta della redditività, ovvero della "capacità di finanziamento". Si passa quindi dalla paralisi del capitale industriale ed agricolo, o dalle catene di distribuzione ibride, a livello continentale o trans-continentale, per la fornitura di beni alimentari e di beni di consumo quotidiano, passando per la fornitura di acqua ed energia, così come per il collasso del servizio sanitario e il dissolvimento delle funzioni statali. E' proprio dell'ignoranza della visione metropolitana della situazione mondiale, non voler vedere che questa "situazione" è già stata raggiunta nelle grandi regioni mondiali; solo in parte attenuata da quelle minoranze che rimangono collegate ancora al mercato mondiale e alla sua congiuntura di deficit. Se salta quest'ultimo cuscinetto, anche per quel che riguarda i centri, allora anche una gran quantità di impoverimento di massa si trasformerà in un massacro globale di massa, dal momento che non è possibile tornare ad un'economia di sussistenza per quasi sette miliardi di esseri umani; per non parlare degli eccessi di violenza associati a tutto questo, dei quali anche oggi si può già vedere l'inizio, e che provengono dalla trasformazione degli apparati di sicurezza e di violenza, che sono già senza "capacità di finanziamento", in bande di saccheggiatori.
"Limite interno assoluto" significa, perciò, che la produzione di merci rimane completamente paralizzata a causa della mancanza di potere d'acquisto e di capacità di finanziamento, non venendo nel frattempo coscientemente soppiantata come forma di riproduzione; invece, intanto, comincia ad esaurirsi la riproduzione stessa della vita sociale, insieme alla sua forma negativa. La miseria della paralisi non costituisce più solo un qualche momento del funzionamento del capitale, ma proprio la sua stessa miseria, perché, proprio in accordo con la sua natura, esso non può fermarsi dal riprodurre la società proprio attraverso la sottomissione alla sua infaticabile ruota di Juggernaut. Per questo, l'auto-distruzione del capitale non si identifica con l'emancipazione.
Heinrich & Co. partono dal principio che "nella peggiore delle ipotesi" sarebbe possibile limitare quantitativamente il diffondersi della miseria, e che le funzioni capitalistiche, anche se bloccate, continuerebbero. Ma è la stessa amministrazione repressiva della crisi che non può smettere di essere condizionata dallo stato manifesto di eccezione a tempo indeterminato. Se non sorge un qualche nuovo potenziale di valorizzazione (ed Heinrich deve interrogarsi su cosa accadrebbe in tal caso, anche se lo esclude), allora anche i servizi istituzionali della "ricchezza astratta" non potranno essere mantenuti in modo duraturo per gli ultimi beneficiari. La conseguenza sarebbe non solo un immediato massacro di massa, ma anche, nel giro di poche generazioni di sopravvissuti, una caduta delle conoscenze, delle capacità, delle tecniche culturali, ecc., incluso tutto il resto, come le reti di informazioni e le strutture di comunicazione prodotte sotto i dettami della valorizzazione. Tutto questo è difficile da immaginare da parte dell'umanità socializzata nel capitalismo, ma è proprio a questo che tende un'amministrazione dello stato di emergenza che non vuole immaginare tutto questo e che pretende di far funzionare a qualsiasi prezzo la formazione sociale dominante "finché tutto non cade a pezzi".
Solo un esame approfondito di queste conseguenze rende chiaro fino a che punto comincia ad acutizzarsi la tensione fra crisi e critica. La difesa, ostinatamente ideologica, di un'eterna capacità funzionale interna del capitalismo non è dovuta alla radicalizzazione della critica ma, al contrario, alla mancanza di critica. Si impone il sospetto che l'oggettività del limite interno viene minimizzata o negata perché la critica riduttiva non include proprio la forma del soggetto che si costituisce nel capitalismo, ma pensa proprio secondo questa forma e, conseguentemente, amerebbe continuare ad agire dentro di essa. Proprio per questo esiste una tale identità fra crisi e critica, in quanto si postula che il capitalismo potrebbe sbattere contro i suoi limiti solo per mezzo di una contro-volontà immanente, la cui stessa costituzione capitalista rimane nascosta. Per mettere fine alla violenza del lavoro astratto e della produzione di ricchezza astratta, la critica deve andare più lontano e rivolgersi contro le stesse "forme di pensiero" dominante. Solo allora il carattere di fine in sé, feticista, della relazione di capitale verrà messo in discussione. Il limite interno oggettivo ha come effetto una condizione che non può essere ignorata impunemente.
In questa circostanza, viene posta una domanda stereotipata (ancora un volta in modo denunciatorio) alla critica della dissociazione-valore, da parte di coloro che fondamentalmente non vogliono che tale critica prosegua, o che pretendono di farla rinculare su alcuni punti (per esempio, relativamente alla ragione illuminista capitalista o sul "punto di vista di classe" integrato nella forma dominante ecc.), e dice così: come può essere logicamente possibile, questa critica da voi postulata, se siamo tutti creature del feticcio?
- Robert Kurz – 2012 -
(5) - Le tracce della costituzione capitalistica si incontrano ad ogni passo nella "musica di sottofondo" della filosofia classica dell'idealismo tedesco, dove il problema insorge come dialettica fra "libertà" e "necessità", e si riflette tanto in modo affermativo quanto ontologicamente o filosoficamente storico a partire dalla base. Così se la "necessità inconscia", in Schelling si fonda ancora su una filosofia della natura, ed a-storica, in Hegel viene esposto come processo storico "necessario", e la costituzione di un'oggettivizzazione negativa come "astuzia della ragione" della storia. Il marxismo non è mai andato al di là di questa contraddizione feticisticamente condizionata, come "eredità" positiva della filosofia borghese classica.
(6) - E' questo a costituire la relazione di capitale come relazione di feticcio socialmente comprensiva. Questo carattere è stato nascosto in diversi modi dalle interpretazioni riduttive della teoria dell'azione. In Althusser, la negazione del concetto di feticcio va di pari passo con una riduzione "strutturale", la quale riduce il problema ai risultati meramente istituzionali dei "rapporti di forza" della sociologia delle classi, che devono poi, a loro volta, essere analizzati nei rispettivi dati per mezzo di una comprensione positivista della scienza. L'operaismo/post-operaismo compie un passo in più nell'abbandono del concetto di feticcio, negando qualsiasi oggettivazione e determinazione in generale, perfino ridotta alle "strutture", e riduce il problema completamente all'immediatezza delle semplici relazioni di volontà. In una variante di questo pensiero, John Holloway riprende il concetto di feticcio, ma solo inserito in questa falsa immediatezza delle relazioni di volontà meramente contingenti (Holloway 2004), di modo che la relazione di feticcio insorge, non come costituzione storica solidificata e interiorizzata, ma come evento esso stesso contingente, fugace, sempre "contestato" e da subito messo in discussione in qualsiasi momento. La definizione di Marx come "forma di esistenza oggettiva" e come "forma di pensiero oggettivo", viene solo graffiata. Il preteso superamento della relazione viene così male interpretato, come semplice pratica che deve essere applicata semplicemente coll'esserci da parte degli esseri umani in essa sussunti.
(7) - Nella storia trascorsa fino al presente, non si può parlare di una civiltà nel senso positivo ed enfatico del termine. Anche il capitalismo non venne costituito in quanto "progresso civilizzatore", come anche in Marx occasionalmente appare alla maniera di dire della metafisica della storia di Hegel, ma invece a partire dallo stato di eccezione e, come Marx dice in contraddizione con la sua leggenda del progresso, "... facendo scorrere da tutti i pori sangue e sudore". Tutto quello che viene considerato civiltà e conquista del capitalismo (Stato di diritto e Stato sociale, sviluppo delle forze produttive, ecc.) è stato condizionato dall'inizio dal successo dell'obiettivo della valorizzazione. Quando nella crisi, questo fine in sé feticista comincia a paralizzarsi, in modo temporaneo o anche definitivamente, si viene a rivelare la brutalità strutturale di questa relazione, tutte le presunte conquiste rivelano il loro carattere di mero sottoprodotto, che viene gettato fuori bordo, e si manifesta il nucleo dittatoriale della democrazia.
(8) - Già nelle antiche "culture" ed imperi occidentali, così come nell'impero cinese, erano sempre gli "altri" ad essere considerati "barbari" , questo concetto venne poi riformulato in maniera eurocentrica nella modernità, nel contesto coloniale. Al contrario di Marx, che definiva la "barbarie" tanto come punto di partenza che come possibile punto di arrivo dello stesso capitale, gli ideologhi borghesi, ed anche il marxismo tradizionale, utilizzavano questo concetto alla vecchia maniera affermativa, per mezzo della continuità della ragione borghese; fino ad arrivare agli attuali rappresentanti dell'ideologia "anti-tedesca", per i quali la "barbarie" torna di nuovo ad essere esternalizzata nella nuova crisi mondiale, come un fenomeno che suppostamente parte dalla periferia, e contro il quale la "civiltà" del centro capitalista dev'essere difesa, come presunta "condizione preliminare" per un'emancipazione di "questa" "civiltà" negativa. Il pensiero emancipatore viene così catturato in un loop paradossale, perché la "barbarie" costituisce il cuore di questa stessa "civiltà" la quale nel suo limite storico può essere contrastata attraverso la sua abolizione. Voler prima "salvare" il capitalismo per poi poterlo superare in condizioni suppostamente confortevoli, non è solo ingenuo, dal momento che quest'opzione dev'essere considerata come un momento di imbarbarimento.
fonte: EXIT!
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