Crisi e Critica
- Il limite interno del capitale e le fasi di avvizzimento del marxismo -
di Robert Kurz
Un frammento
Nota: Il 10 febbraio del 2010, Robert Kurz inviò per email alla redazione di EXIT! un testo, accompagnato dalle seguenti parole: "Insieme alla prima parte del progetto del libro più piccolo, Crisi e Critica, stralciato dal precedente progetto Lavoro Morto, per discuterlo nel prossimo incontro. Si può rimuovere dalla prefazione e dall'introduzione tutto ciò che si considera necessario". Dopo l'incontro, il testo è stato fatto oggetto di piccoli aggiustamenti da parte della redazione e non è stao mai modificato dal maggio del 2010. Come viene spiegato nella prefazione del suo ultimo libro, Denaro senza Valore, Robert Kurz aveva deciso di scrivere una serie di libri a partire dal progetto originale del libro di grandi dimensioni, Lavoro Morto. L'unico che ha potuto realmente terminare, è stato Denaro senza Valore, che è apparso nelle librerie pochi giorni dopo la sua morte. Crisi e Critica sarebbe stato un altro libro di questa serie. Dei 36 capitoli previsti - inclusi l'introduzione e l'epilogo - Robert Kurz ha avuto il tempo di scriverne 10.
* Prefazione * Introduzione * 1. La teoria della crisi nella storia del marxismo * 2. Il capitale va molto bene. Ignoranza situazionista della crisi come mancanza di dimensione storica del tempo * 3. Mitizzazione della teoria del crollo * 4. I cavalieri dell'apocalisse * 5. Psicologismo per i poveri * 6. Bisogna criticare il capitalismo solo per la sua mancanza di funzionalità? * 7. Crisi ed emancipazione sociale * 8. Excursus: la dissociazione-valore fa del feticcio il creatore di un mondo di marionette? * 9. La crisi come rapporto soggettivo di volontà *
Altri capitoli previsti ma non scritti:
10. Il capitalismo come eterno ritorno dello stesso * 11. Empirismo storico: l'ammirevole flessibilità della logica di valorizzazione * 12. Ritorno alla brutta normalità? * 13. La crisi come mera "funzione di aggiustamento" delle contraddizioni della circolazione? * 14. Excursus: l'indebolimento e l'abbandono parziale "critico del valore" da parte della teoria radicale della crisi * 15. Sempre nuovamente il "problema della realizzazione" * 16. La crisi dev'essere piccola o grande? Il concetto ridotto del sistema * 17. Il percorso del biocapitalismo? * 18. Riduzionismo ecologico * 19. Capacità di sopravvivenza del capitale individuale ovvero un capitalismo di minoranza? * 20. Il carattere dell'economia postmoderna delle bolle finanziarie * 21. Excursus: critica riduttiva del mercato finanziario, anti-americanismo e antisemitismo strutturale * 22. L'ultima risorsa ovvero la fede nel miracolo di Stato * 23. Un'illusione democratica * 24. La questione della proprietà erroneamente collocata * 25. Keynesismo di sinistra ovvero la riduzione della teoria del sub-consumo * 26. La guerra come soluzione per la crisi? * 27. La crisi sposta solo i rapporti globali di potere? * 28. Il sesso della crisi * 29. La mancanza della critica categorica * 30. Sintesi sociale e socialismo * 31. Excursus: "Forma embrionale" - un grave malinteso * 32. Cos'è un mediatore? Criteri di immanenza sindacale * 33. Carnevale di "lotte" e pacifismo sociale da ideologia a alternativa * 34. Come Herr Biedermeier aggiusterebbe bene tutto * Epilogo *
6. Il capitalismo dev'essere criticato solo per la sua mancanza di funzionalità?
La retorica di un intervento senza contenuto, che pretende di attribuire qualcosa all'avversario ancor prima di essersi collocata sul terreno della sua discussione, accusa la teoria radicale della crisi di non criticare il capitalismo "in sé", ma solo di censurarlo per la sua mancanza di funzionalità. Già qui si dà ad intendere che la relazione fra crisi e critica costituisca un problema centrale anche in relazione alla fase di avvizzimento della discussione del marxismo residuale e del post-marxismo intorno alla teoria incompiuta della crisi di Marx, discussione alla quale, tuttavia, si cerca solo di sottrarsi. Le invettive sul tema cercano solo di separare il capitalismo in quanto tale dal suo potenziale di crisi, e approfittarne così a livello di denuncia. Perciò gli ideologhi "anti-tedeschi" domandano retoricamente:"Se non fosse per le sue difficoltà di valorizzazione, il capitalismo sarebbe una cosa razionale ...? (Initiative Sozialistisches Forum 2000). Naturalmente qui nessuno afferma che il capitalismo senza crisi sarebbe una cosa razionale, questa supposta implicazione è pura invenzione, e serve a non impegnarsi nella discussione della teoria della crisi o per attribuirle di essere in odor di mancanza di radicalismo.
Un salto del genere, verso un altro piano di discussione, lo si trova anche in Michael Heinrich. Per cui egli afferma "che Kurz, nonostante il suo furioso smarcamento dal 'marxismo del movimento operaio', ne riproduce alcuni degli elementi centrali: come, per esempio ... una critica moralista del capitalismo (il capitalismo viene misurato dagli obiettivi che esso non ha in alcun modo, per esempio quando si constata il 'fallimento' del capitalismo a partire dal suo produrre disoccupazione e miseria)" (Heinrich, 2000). Ora, da un lato, la critica della dissociazione-valore non valuta in alcun modo il capitalismo dagli obiettivi che non ha, essendo questo un aspetto dell'argomentare che consiste nell'indicare il fallimento dell'ideologia in corso a partire da Adam Smith, circa il carattere del capitalismo come "aumento del benessere generale", ideologia che nel corso di 200 anni è diventata sempre più popolare e viene accettata tanto dalle scienze sociali e storiche che dagli storici accademici. Si tratta, pertanto, di un intervento di critica dell'ideologia, sia in relazione alla storia capitalista che alla propaganda liberale a partire dal crollo del socialismo reale.
Questa argomentazione della critica dell'ideologia si basa proprio sul fatto che il capitalismo non ha per obiettivo un aumento del benessere, ma solo la valorizzazione del valore; ossia, la produzione di una mera "ricchezza astratta" (Marx) come fine in sé, mentre la soddisfazione delle necessità materiali e sociali nella migliore delle ipotesi potrà essere un sottoprodotto della logica della valorizzazione, e questo è anche il motivo per cui viene negata nella pratica - e questo non solo in periodo di crisi. La critica del marxismo del movimento operaio nei confronti di questi fenomeni scivola soprattutto verso il moralismo, perché assume come causa ultima il desiderio di dominio della classe capitalista e delle sue determinazioni categoriali. In contrapposizione a questo, nell'elaborazione teorica della critica della dissociazione-valore, fin dall'inizio, è stato fondamentalmente rigettato il "discorso della giustizia" morale, oggi morale dominante (2).
Non è solo Heinrich, per ovvie ragioni, a mettere a testa in giù questo veritiero contesto di argomentazione. Anche Ingo Stützle si diletta con la medesima attribuzione controfattuale: "La fonte a partire dalla quale Kurz alimenta la sua critica, è un criterio normativo che si applica alla realtà sociale, essendo una discrepanza fra 'essere' e 'dovere' opposta al capitalismo come un rimprovero. I fenomeni denunciati da Kurz, come la povertà, la fame, la distruzione della natura, però, non sono altro che un'espressione della dinamica del modo di produzione capitalista. Robert Kurz rimane prigioniero di un'autostima borghese di tipo idealista, la quale pretende di modificare le realtà sociali per mezzo di un ideale normativo" (Stützle 2001). Anche su questo punto, gli oppositori della teoria radicale della crisi si copiano gli uni con gli altri per guadagnare "autostima".
La disoccupazione strutturale di massa, la sottoccupazione globale, l'impoverimento e la miseria, naturalmente non devono essere criticati da un punto di vista etico astratto, come se lo si facesse seduti al tavolino di un bar all'aperto. Il discorso etico porta sempre a nascondere il contesto causale dietro il contesto formale e funzionale capitalista e a spostare il problema sul buono o cattivo comportamento sociale individuale e soggettivo dei funzionari. La crisi non viene quindi intesa come limite interno temporaneo o assoluto della logica di valorizzazione, ma viene ridotta a deficienza morali personali, o "cattiva gestione", ecc.. Indipendentemente dall'attualizzazione del potenziale di crisi immanente, la repressione e l'esclusione sociale appartengono da sempre alle relazioni del capitale, e quindi della concorrenza. Per Marx, l'analisi dei meccanismi capitalistici era già di per sé "critica attraverso l'esposizione". Questo implica che l'indignazione non necessita di una qualche etica esterna, essendo al contrario indiscutibile in sé, perché il carattere negativo di una produzione sociale di miseria non ha bisogno di alcun fondamento extra, e quindi la relazione del capitale nata nel corso di processi storici ciechi non ha alcuna ragione giustificativa intorno alla quale si debba contrattare.
Dall'altra parte, il fondamento specifico della teoria della crisi non consiste in alcun modo in un riferimento generale alla "disoccupazione e miseria" che il capitalismo ha sempre prodotto, e non solo nel corso delle grandi crisi. Consiste, semmai, nel fatto che la terza rivoluzione industriale, al di là del concetto di Marx dello "esercito di riserva" che aumenta e diminuisce ciclicamente, è andata a costituire su scala mondiale una base qualitativamente nuova di disoccupazione e sottoccupazione di massa, la quale aumenta indipendentemente dai cicli. Questo viene interpretato, in riferimento al concetto di sostanza di Marx, come un indizio del limite storico interno del movimento di valorizzazione (4). Non ha niente a che vedere con una critica moralizzatrice; si tratta solo di una determinazione della teoria dell'accumulazione e della crisi. Heinrich e gli altri avrebbero dovuto addurre su questo piano, relativamente al concetto di mero "esercito di riserva", una contro-argomentazione fondata, invece di andare sulla denuncia retorica. E' un semplice fatto che la disoccupazione strutturale globale vada di pari passo con i processi di impoverimento e miseria fenomenologicamente simili a quelli del capitalismo degli inizi, ma situati ad un livello completamente differente di sviluppo capitalista; non è solo il riferimento a questo fatto a costituire il fondamento della teoria della crisi.
Se, quindi, la nuova qualità della disoccupazione di massa e della sottoccupazione, al di là del semplice "esercito di riserva" abituale, viene inclusa nell'argomentazione della teoria radicale della crisi, non è per ragioni etico-morali, ma semmai per ragioni della teoria della crisi. La caduta dello "impiego "globale", a causa del livello di produttività raggiunto nell'immanenza, porta alla caduta della "capacità di sfruttamento" del capitale, e perciò la caduta della produzione di plusvalore reale è anche, con questo, caduta del potere di acquisto nell'insieme della società. Nel corso della riproduzione sempre allargata del capitale si sviluppa così quel limite interno che, dopo un periodo di incubazione condizionato dal ciclo di ritorno (e dai processi di simulazione del capitale finanziario), finisce per manifestarsi sulla superficie del mercato come rottura delle vendite. Situazione nella quale la restrizione del potere di acquisto sociale, al di là di un certo punto, che il marxismo volgare percepisce come mera povertà delle masse a favore del capitale, si converte in un problema della valorizzazione stessa.
Lo scopo del capitale non è quello di soddisfare delle necessità, attraverso la produzione di "ricchezza concreta", ma il fine in sé della valorizzazione, della produzione di "ricchezza astratta". Tuttavia, l'esistenza fisica degli esseri umani e la riproduzione materiale della società, costituiscono simultaneamente una condizione di possibilità (anche se gestita permanentemente in forma restrittiva) di questo fine in sé; questa riproduzione materiale è il "supporto" necessario della valorizzazione, l'astrazione del valore non avviene senza "l'incarnazione" nei corpi reali delle merci e, come tale, l'aspetto astratto e l'aspetto concreto, fisico, si limitano e si condizionano sempre reciprocamente nella "astrazione reale" del capitale.
Perciò, è una completa sciocchezza quella che gli ideologhi "anti-tedeschi" (che qui si limitano a rappresentare il marxismo volgare personalizzato) affermano: "quanto più profonda, drastica e catastrofica è la miseria che esso [il capitalismo] produce - tanto meglio funziona il capitale, tanto meglio esso rende giusto il suo concetto" (Initiative Sozialistisches Forum 2000). Sarebbe così se la "miseria catastrofica" costituisse la finalità immediata e soggettiva del capitale (un tale pensiero costituisce, di per sé, quel raziocinio aconcettuale, superficialmente morale, di cui viene accusata la critica della dissociazione valore). Ma la finalità immediata consiste nel fine in sé della valorizzazione, essendo completamente indifferente alla quantità di miseria o del cosiddetto "benessere" che deriva come sottoprodotto. I capitale funziona tanto meglio, quanto più riesce ad estorcere socialmente plusvalore e a realizzarlo; e funziona tanto peggio, quanto meno ci riesce. La miseria è utile se è associata ad un aumento della spremitura di materiale umano; e non serve a niente, o si trasforma nella sua rovina, se di fatto ne risulta che questo spremere non è più in grado di essere sufficiente, ed espelle dalla forza di produzione troppi "superflui" che non producono plusvalore che non viene più realizzato attraverso l'acquisto di merci.
Fra il fine in sé feticista e la miseria c'è perciò un nesso, ma non una qualche identità immediata, come una specie di reciprocità quantitativa (tanto più miseria, tanto più valore). Al contrario, il capitale, come relazione sociale, ad un certo punto deve riprodurre la società secondo i suoi criteri e sotto il dettame del suo fondamentale cinismo, per "rendere giusto il suo concetto". Quando la caduta del poter di acquisto, sistematicamente condizionata dalla caduta di una sufficiente produzione compresa di plusvalore, oltrepassa la soglia del dolore, cade la stessa riproduzione allargata del capitale, necessaria a livello di sistema. Gli oppositori della teoria radicale della crisi, per poter reinterpretare questo argomento come un argomento "morale", semplicemente lo privano del fondamento del suo proprio postulato per cui la produzione di plusvalore reale può continuare a dilagare anche sotto le condizioni della terza rivoluzione industriale.
Lo stesso Heinriche, alla fine della sua introduzione alla critica dell'economia politica, cade in modo imbarazzante proprio sul contesto del ragionamento in corto circuito, e soprattutto moralizzatore, che egli imputa semplicemente alla teoria radicale della crisi. Per lui "le distruzioni sociale che il capitalismo globale causa... attraverso le crisi e la disoccupazione" (Heinrich 2004), "la distruzione delle basi naturali della vita" (ibidem), così come le guerre sempre nuove sono nel caso "ragioni sufficientemente buone per abolire il capitalismo" (ibidem). Questo può quindi essere detto senza separare il capitalismo dai suoi effetti, né il suo contesto funzionale dal suo potenziale di crisi. Naturalmente si tratta anche e sempre del capitalismo come relazione di sottomissione al lavoro astratto e alla valorizzazione, così come questo è stato formulato fin dall'inizio dalla critica della dissociazione-valore, e che come tale include effetti negativi e crisi.
Non si può fare a meno di constatare come Gegenstandpunkt gli abbia riservato (e con maggior ragione) la stessa reinterpretazione retorica che egli ha applicato alla teoria radicale della crisi. Così scrivono nella recensione della sua brochure introduttiva: "Egli enumera i mali senza classi, di cui le persone buone e coscienti dei problemi sono difficilmente consapevoli senza una qualche lettura di Marx; abusi generalmente deplorevoli, sotto i quali di fatto non avviene lo sfruttamento della maggioranza lavoratrice, ma dovuti ai forti effetti di questo modello economico che minaccia la loro stessa esistenza... Il modo di produzione merita una critica, non per il funzionamento della sua finalità, ma semmai per le crisi periodiche e temporanee e per la straordinaria necessità cui obbliga la società... Non è il fatto che le persone vivano per il capitale che parla a favore della sua abolizione..., (non) è il corso normale dell'economia capitalista, ma le grndi catastrofi causate dal capitalismo..." (Gegenstandpunkt 2008). Gegenstandpunkt qui si riferisce "alle interpretazioni errate ... di Robert Kurz..., a cui Heinrich è più vicino di quanto si dovrebbe compiacere" (ibidem).
Si tratta tuttavia di un errore di interpretazione da parte di Gegenstandpunkt e già prima da parte dei pubblicisti "anti-tedeschi", così come dello stesso Heinrich, Stützle & Cª, quando pretendono di separare la critica della relazione di sottomissione basilare al lavoro astratto dalla riflessione sulle crisi inerenti e la dinamica storica interna di tale relazione. Quale delle due deve essere particolarmente "radicale"? Entrambi gli aspetti si riferiscono l'uno all'altro, realmente, concettualmente, analiticamente e storicamente. O lo si critica tutto, il capitalismo, o non lo si critica; e di questo tutto fa parte proprio quella merda esistenziale fondamentale per cui si rimane incatenati a vita alla macchina della valorizzazione e del suo fine in sé, ed il venire attaccati da un potenziale interno di crisi che fa parte di questa merda e la rende ancora peggiore.
Quando l'esigenza di "vivere per il capitale" non può più venire soddisfatta, anche se viene richiesta, ci troviamo solo davanti ad un potenziamento di questo rapporto. Ed è questo che stiamo oggi attraversando, quando la crisi si presenta come una una "catastrofe naturale", secondo una comprensione per cui si spiega la riproduzione capitalista come una "relazione naturale". Ecco che ci si richiama ad una falsa solidarietà che si basa sull'accettazione della merda e il limite interno della valorizzazione esige dalla persone una penitenza personale in suo nome. Pretendere di criticare il capitalismo solo nel suo "corso normale", dilettandosi in questo e nascondere la natura della crisi nella critica - un tale atteggiamento è sospetto di mancanza di radicalità e puzza di una rassicurazione, tanto incosciente quanto immaginaria, circa il fatto che questo "corso normale" venga colpito solo superficialmente dalla crisi, e che alla fine lo si possa continuare.
Non si può far passare liscia l'insinuazione per cui la critica della dissociazione-valore, con la sua critica radicale, criticherebbe "...non il modo di produzione capitalista, ma solo la sua propensione alla crisi" (Diederichs 2004). Di questo, secondo l'osservatore della discussione, difficilmente si può accusare i suoi rappresentanti: "Nelle loro opere essi criticano espressamente il capitalismo come un tutto. Kurz, per esempio, nel "Libro Nero del Capitalismo" argomenta chiaramente su un tale assunto, indicando dettagliatamente gli orrori dell'epoca capitalista ..." (Ibidem).
Da qui, l'autore trae effettivamente la conclusione: "Ora, se si rifiuta in toto la giustificazione dell'esistenza del modo di produzione capitalista, allora la teoria del collasso è irrilevante per le motivazioni di una tale critica" (ibidem). La questione, tuttavia, non è la motivazione pre-teorica, la quale è sempre alimentata dalla rabbia contro una situazione, indipendentemente da qualsiasi analisi concettuale, ma semmai è lo statuto ed il contenuto di quest'analisi in sé. Affinché la rabbia non rimanga spontnea ed impotente, essa ha bisogno di quest'analisi per arrivare a comprendere in tutta la sua estensione, il terreno di lotta ed il suo oggetto. Una critica che considera la crisi un mero epifenomeno dev'essere definita come ingenua ed "esistenzialista" nel senso cattivo del termine, anche se si presenta come retorica "materialista".
- Robert Kurz – 2012 -
(3) - Tale comprensione può essere riscontrata nell'insieme dei nostri critici, nella misura in cui rappresentano i resti del marxismo del movimento operaio. C'è poi, come sfondo, "l'eredità borghese" della ragione illuminista, che può essere trovata anche nello stesso Marx, e che include una metafisica del progresso come filosofia della storia, completata da Hegel nei termini di "teoria dello sviluppo". Poi si attribuisce al capitalismo una "missione civilizzatrice", in termini di metafisica della storia, che costituisce una decisa smentita alla "critica attraverso l'esposizione" radicale, e che viene giustamente respinta dall'elaborazione teorica della critica della dissociazione-valore. Questa metafisica illuminista della storia non viene invocata solamente dagli "anti-tedeschi", ma al contrario costituisce un momento affermativo nel marxismo in generale, con gli "anti-imperialisti" che si avvalgono di un paradigma dell'ideologia di modernizzazione nei confronti della periferia capitalista. Il medesimo punto di vista affermativo, lo si trova anche in Wolfgang Fritz Haug, nel secondo volume delle sue lezioni di introduzione al Capitale: " Il capitalismo aliena l'umanità sociale... Ma (!) lo fa in un modo che obbliga la società a volere (!) la produzione per la produzione. Mentre esso sviluppa una società e - almeno come possibilità - le condizioni di sviluppo dell'umanità, possiamo parlare di alienazione produttiva" (Haug 2006). Ma non vi è alcuna ferrea necessità storica (in senso hegeliano) per cui lo sviluppo delle forze produttive fosse possibile solo nella forma distruttiva capitalista, e che quindi fosse giustificato transitoriamente l'esigenza assurda di questa relazione. Avendo come base la ragione illuminista, il marxismo volgare condivide questa giustificazione con la scienza borghese; e, proprio per questo, vogliono ridurre la critica ad un'etica da bar.
(4) - Mentre la maggioranza dei rappresentanti del marxismo residuale intendono la disoccupazione di massa e la sottoccupazione semplicemente come "normale" nel senso tradizionale, e non vogliono vederne la qualità nuova, il post-operaismo invece procede in modo esattamente inverso. Per Hardt/Negri "...'l'esercito industriale' è scomparso" (Hardt/Negri 2004). La nuova qualità viene percepita in maniera riduttiva, in modo solo sociologico e fenomenologico. Il fatto che il concetto di "esercito industriale di riserva" abbia perso il suo punto di riferimento non emerge come nuova dimensione della crisi. Al contrario, ora la produzione di plusvalore si sarebbe allargato a tutta la "zona grigia" del sottoimpiego ecc., compresi i disoccupati, e a tutta la riproduzione, anche attraverso trasferimenti di reddito. Viene considerato ora semplicemente come "creatore di valore" tutto quello che verrebbe socializzato negativamente sotto il capitalismo. Manca del tutto qualsiasi riferimento alla teoria del valore e dell'accumulazione; valore e plusvalore sono solo semplicemente "ridefiniti" "biopoliticamente", ma anche questo non ha fondamento, essendo semplicemente affermato. L'unico riferimento è al boom empirico della congiuntura economica basata sul deficit a partire dal 2003/04. Ora, sia che il concetto tradizionale di "esercito di riserva" venga mantenuto o meno, il risultato è lo stesso, vale a dire, l'ignoranza della nuova dimensione di crisi legata alla caduta oggettiva di questo fenomeno.
fine: EXIT!
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