Gli intellettuali dopo la lotta di classe
Dalla deconcettualizzazione alla disaccademizzazione della teoria
di Robert Kurz
La formulazione di teorie che abbiano pretesa esplicativa è passata di moda. Chiunque osi esprimere un pensiero concatenato, una teoria critica della società o una riflessione minimamente al di sopra del livello banale dell'attuale democrazia di mercato, diventa oggetto di sospetto. L'apparato teorico-concettuale viene visto come un'impertinenza: si potrebbe quasi parlare di una deconcettualizzazione delle scienze sociali ed umane. La presunta rinascita del pensiero cinico appartiene alla fenomenologia di un'epoca che vive la teoria vigente della fine della storia. Il "grugnire e scoreggiare collettivo nei seminari"(Sloterdijk) può essere valutato, non come un nuovo fiorire della filosofia, ma piuttosto come sintomo di una sua capitolazione senza condizioni. E' naturale che tali tendenze penetrino, poco a poco, nella pratica accademica quotidiana, il cui sospirare oramai senza speranza potrebbe quasi suscitare compassione. Con empiti di relativizzazione, con masochistica umiltà, si ritratta qualsiasi concetto, appena proclamato. La preoccupazione continua per le "differenze", esacerbata al punto di trasformarsi in dipendenza, sembra dissolvere gli oggetti storici e sociali, rendendoli irriconoscibili. Non si tratta, sicuramente, della critica del concetto svolta da Adorno nella sua "Dialettica negativa". Questa meritava il nome di critica eroica, poiché conservava ancora la dignità di un pensiero concettuale ed era indissolubilmente legata, di conseguenza, ad una critica fondamentale, pur senza speranza, della società. In tal senso, la nuova a-concettualità di oggi non può in nessun modo riferirsi ad Adorno, dovendo, al contrario, trattarlo come il più morto dei cani. La bandiera adorniana, per così dire, è stata oramai ammainata e i nuovi filosofi della a-concettualità si limitano ad innalzare bandiera bianca, sperando di essere confortati da quello che prima era oggetto di critica. Di conseguenza, una nuova a-concettualità non significa nient'altro che il desiderio di degradare la storia e la filosofia ad oggetti di uso capitalista. Col passare dei giorni, vediamo sempre più yuppie filosofici che sembrano dare le carte. Anche in questo senso, di certo, la filosofia continua ad essere "il suo tempo concepito nel pensiero" (Hegel), poiché gli yuppies filosofici corrispondo ai loro simili sociali. Il "denaro dello spirito" si trova nella stessa situazione in cui si trova il dollaro: ridotto a pura massa di manovra nelle mani degli speculatori, una sovrastruttura di credito paralizzata sull'orlo del collasso. In un'economia-casinò globale, lo spirito si converte in filosofia-casinò, ad uso domestico, della macchina autonomizzata del denaro. Non è un caso che anche il lifting "etico" della faccia dell'economia di mercato riceva il nome di "filosofia", così come i cosmetici di Jil Sander, o come quando viene posta in vendita una nuova concezione amministrativa o il profilo di una corporazione. C'è dell'ironia in questo modo in cui viene abbattuto il vecchio muro che separava la filosofia e la "vita", lo spirito e la società: si rivela qui l'impulso universale, essenziale al capitalismo, di vendere tutto il vendibile. Tuttavia, gli yuppies dello spirito dicono più di quanto si immagini - o di quanto vogliono dire - sull'attuale quadro della realtà sociale. Quando, per esempio, Odo Marquardt raccomanda, in modo seducente, la sua merce filosofica agli amministratori e alla classe politica, come "istanza compensativa competente", esprimendo con questa indicazione il fatto che anche lui tiene una famiglia da sfamare, sta facendo una semi-involontaria critica sociale. E se il filosofo alla moda, Gerd Gerken, si presenta al pubblico con la massima: "per avere successo, devi credere in qualcosa, non importa cosa", quest'affermazione potrebbe essere percepita come un sonoro schiaffo, anche se non pianificato, in faccia all'arbitrarietà e alla completa mancanza di contenuto, che nemmeno la stesso Adorno sarebbe stato in grado di far meglio. Così, può valere la pena di notare che, a partire dal modo involontariamente ironico attraverso il quale si fa coincidere filosofia e "vita", si potrebbe mettere in atto, rispetto ai suoi protagonisti, il passaggio ad una nuova distanza ironica, tanto nei confronti della filosofia quanto nei confronti della "vita" capitalistica. Però, per far questo sarebbero necessari nuovi concetti o, per lo meno, un nuovo modo di approcciare quelli vecchi. Insomma, sarebbe necessaria una nuova teoria che reagisse ai cambiamenti sociali e che formulasse una critica della società rapportata al nuovo terreno storico. Tuttavia, molto poco si è fatto in tal senso. La supposta sconfitta della vecchia critica e la nuova a-concettualità vanno affrontate, una volta per tutte, nei loro molteplici aspetti. Sulla stampa in generale, rispetto a quello che domina il mondo intellettuale anglo-americano, il dibattito teorico approfondito ha ceduto il passo ad un genere degradato di letteratura specializzata; niente più che una massa informe riunita sotto la categoria di "non-fiction", paragonabile alla divisione che viene fatta nell'universo delle merci, fra cibo e non-cibo.
Il giornalismo politico-sociologico sembra decadere allo stesso ritmo di quello economico: si vedano, invece della critica, le "guide finanziarie", guide di aiuto capitalistiche al posto dell'economia politica. Nel migliore dei casi, entra in scena, in luogo di una riflessione a proposito della totalità sociale (identificata, ora, in maniera tanto falsa quanto dilagante, come "totalitarismo"), il recitativo monotono di un unico e bramoso pensiero: si tratta della "discriminazione economica delle donne" (Renate Schubert) oppure; "lo Stato tutelare" (Rolf Schubert). Questo tipo di valutazione unidimensionale si limita, in gran parte, ad una critica triste, che obbedisce ai nuovi imperativi del pensiero isolato e dell'immediatezza fattibile. Certo che esisteva anche negli anni '60 e '70, questo genere operoso della letteratura della banalità; anche se prima non aveva l'accompagnamento musicale che oggi gli dà tono. Questi rigogliosi e malrifiniti composti sensazionalisti hanno raggiunto il loro apice con quei prodotti kitsch, in particolare dopo Gorbaciov, che hanno accompagnato la caduta del socialismo di Stato con il fascino oscuro dello "Io c'ero", oppure "Adesso posso parlare", fino al più miserevole dei trionfi:"Anch'io sono stato una vittima della Stasi". Ma forse bisogna stendere un velo di indulgenza su questo tipo di giornalismo; forse riflette una mancanza, un'incapacità ad assimilare criticamente gli avvenimenti storici. Anche perché, ben presto, è diventato monotono.
Alla stampa manca semplicemente, in senso lato, il rinforzo teorico da parte della sfera logistica intellettuale che finora sembrava avesse la competenza in tal senso, e che ora produce solo ruminanti angosciati e pavoni venali. Ora, una volta che il "concetto di lavoro" è stato trascinato nella sfera negativa e che non è più possibile resistere alla pressione della presunta "società mondiale post-storica e senza alternativa" (Lutz Niethammer) del denaro totale, il giornalismo diviene sempre più angosciato. La macchina dei concetti del pensiero occidentale perde la sua forza materiale e sembra cadere a pezzi prima della rottamazione. La critica si trasforma in critica della critica. Non è solo a partire da Sloterdijk che possono venire scritte 800 pagine di "teoria con la T maiuscola" proprio per contrapporsi alla "Teoria". Queste teorie-antiteoriche sembrano solo riprendere e dare continuità alla traccia affermativa dello strutturalismo e della teoria sistemica. Ciò nonostante, esse talvolta segnalano - così come il surfismo universale dei filosofi in voga e i campioni dell'etica - una trasformazione sociale non ancora maturata. Ma, in quale direzione?
Il mondo scientifico non sembra essere più in grado di ritrovare la forza necessaria per dare una risposta ad una simile situazione. Se la vita accademica non si era ancora del tutto irrigidita in un "paesaggio culturale pietrificato" (Enzensberger), molto prima dell'estinzione del movimento del '68 aveva già insabbiato, davanti al dilemma teorico, l'impulso della ricerca propriamente accademica. La letteratura sensazionalista della stampa corrisponde alla ritirata accademica in direzione dell'archeologia storico-culturale. Se l'impresa alquanto ingenua della "storia orale" è servita frequentemente ai fini dell'assistenza degli anziani e per costruire un collezione di oggetti di devozione del movimento operaio e socialista, il boom allargato della storia culturale ora fruga nelle tasche dei giubbotti e nelle latrine della storia.
In Francia, soprattutto, questi sforzi producono notevoli risultati. Come nella "Storia dell'infanzia" o nella "Storia della morte", di de Philippe Ariès, nei lavori sul Medioevo, di Jacques Le Goff o di Georges Duby; come nella "Storia della vita privata", pubblica congiuntamente dagli ultimi due, o nella grande trilogia storico-sociale su "Le origini dell'economia di mercato", di Fernad Braudel: in tutti questi libri viene riunita una quantità monumentale di informazioni, che formano un insieme di indubbio significato storico. Tuttavia, queste opere mancano di una sintesi di tale materiale nella prospettiva di una storia critica della socializzazione occidentale; manca una visione d'insieme capace di indirizzare una rinnovata valutazione storica ed orientare una nuova agenda di questioni. Insomma, manca l'orizzonte teorico di una critica radicale della società, che permetta di ordinare i risultati della ricerca storico-culturale. Potrà sembrare sfrontato e arrogante, ma da questo punto di vista anche Foucault non può essere considerato, sempre e sotto tutti gli aspetti, un teorico nel senso rigoroso del termine. Le sue "archeologie" della sessualità, delle istituzioni e del sapere, sono anche lodevoli, soprattutto per il lavoro di estrazione mineraria, mentre la riflessione teorica propriamente detta, in fin dei conti, lascia perplessi. La tregua teorica è diventato un problema centrale, la demoralizzazione del pensiero minaccia di diventare paralisi.
Se la teoria, soprattutto nell'ambito accademico, osa entrare nella sfera pubblica solo in punta di piedi, questa lamentevole situazione forse è dovuta alla morte del marxismo. A quanto pare, il marxismo è stato determinante ai fini della formulazione teorica del XX secolo, di modo che ora sembra essere cessata con esso. Se nel marxismo, l'eredità della filosofia sembrava essere stata soppressa, di modo che ogni formulazione concettuale posteriore veniva ad essere definita a fronte di esso, sia per affinità che per rifiuto, con il declino dei concetti marxisti, decade anche la concettualità della teoria in quanto tale. Oggi, una tale istanza referenziale, positiva o negativa, sembra essere svanita senza aver lasciato traccia. Il movimento mondiale del '68 aveva portato il già senile marxismo del movimento operaio ad una prosperità talmente illusoria che, per qualche tempo, anche l'ultimo degli opportunisti della sociologia si è visto obbligato, quanto meno, a scrivere la sua tesi di dottorato sulla storia sociale delle guerre contadine o sulla lotta di classe nella Valacchia del XIV secolo. Tuttavia, parallelamente a questo tardivo e fantasmagorico risveglio, si preparava la sepoltura definitiva del corpo teorico marxista, già sventrato e imbalsamato dalla moda strutturalista (Althusser) e teorico-sistemica. Oggi, dopo il collasso catastrofico dell'ordine sociale eretto in suo nome, non rimane in piedi, per questo, nemmeno un mausoleo. Nell'autunno del 1989, il settimanale tedesco Wirtschaftswoche era già in grado di presentare la quasi totalità dei marxisti restituiti alla vita accademica tedesca, come delinquenti pentiti che dovevano balbettare solennemente la propria ritrattazione. In Francia, l'enfatica transizione entusiasta verso la democrazia occidentale si era già conclusa precedentemente e, in mezzo al desert storm, si era finalmente verificata, fra le grida, la riunificazione del nucleo duro del '68, che ora si presentava come un illustre circolo di filosofi pro-bomba atomica in costume da guerra.
Ma forse l'ebreo-tedesco Karl Marx, abituato a simili problemi, questa volta era stato messo nella fossa con eccessiva precipitazione. Nel precipitoso funerale della teoria marxista, i pensatori della cautela, che forse avevano già troppo da "differenziare", non fecero alcun tentativo di differenziazione. Tuttavia, così come tutte le teorie dotate di una forza storica, anche la teoria di Marx non si esaurisce nella sua versione vincolata ad un'epoca; né tantomeno essa è quella totalità chiusa, immaginata tanto dai cercatori di citazioni quanto dai becchini precipitosi. Con la fine di un'epoca, sigillata dal crollo del socialismo di Stato, si estingueva soltanto il momento della teoria che si trovava legato a quel periodo, che non significa affatto che la teoria stessa sia in qualche modo esaurita.
Tantomeno si trattava semplicemente di una sconfitta. Un pensiero storicamente riflesso, che non si banalizza associando i predicati "giusto" o "sbagliato", "buono" o "cattivo", ai grandi movimenti sociali e alle formazioni politico-economiche, si avvicina più al problema chiedendo quale compito è stato portato a termine, dal punto di vista dello sviluppo storico, con una tale rottura epocale. Solo una messa in discussione di questo tipo ci può dare un'idea di quello che è avvenuto e che merita di essere messo all'ordine del giorno. Il concetto chiave al fine di una tale comprensione può essere quello che, sotto il nome di "modernizzazione", possiede già un discreto tempo di esistenza ambigua nella teoria. Questo termine ha meritato quasi sempre uno sguardo obliquo da parte dei marxisti; dato che sembrava che coprisse il "contenuto di classe" di tutto un interrogativo teorico. Il vero spartiacque doveva essere situato fra il capitalismo borghese e il socialismo operaio; in quanto "modernità" e "modernizzazione" erano concetti che sembravano voler annullare in modo meramente conciliatorio la "vera rottura fra le classi".
Appare, però, un quadro totalmente distinto quando capovolgiamo questa argomentazione alla luce dell'effettiva rottura epocale, la quale contraddice in modo evidente qualsiasi concezione del marxismo volgare. In questo caso, la "modernità" e la "modernizzazione" non verrebbero più visti come concetti di un'annacquata ideologia (piccolo-)borghese, ma come involucro borghese reale all'interno del quale si sviluppane le "lotte di classe". Inoltre, il carattere borghese sarebbe il carattere dell'epoca stessa, che include i presunti opposti del Capitale. Per dirla altrimenti: il Capitale stesso sarebbe identico alla modernità ed al suo processo di formazione, in quanto forma sociale comune alle fazioni in conflitto.
In questo senso, non sarebbe possibile classificare come "anticapitalista", se non condizionalmente, né il il socialismo di Stato dell'Est, né il movimento operaio occidentale, né tantomeno il movimento anticolonialista di liberazione nazionale nei paesi dell'emisfero Sud, incluse le sue correnti più radicali. O meglio, il suo anticapitalismo non si riferisce ancora all'autentica forma di base del capitalismo stesso, ma solo ad un capitalismo empirico dato; a quello che viene preso fuori per capitalismo in persona, ma che, in realtà, non è altro che uno stadio ancora incompleto dello sviluppo della modernità borghese. Così, il marxismo di quest'epoca non poteva essere niente di più che un marxismo della modernizzazione, immanentemente borghese, parte esso stesso della storia della realizzazione del capitale. E questo momento modernizzatore, limitato all'involucro borghese formale, lo troviamo ad ogni passaggio della stessa teoria marxiana.
Tutto quello che appare in Marx come incondizionalità del "punto di vista operaio" e della "lotta delle classi", o che viene detto circa il "plusvalore non pagato" e lo "sfruttamento", è ancora teoria capitalista dello sviluppo e riflette il fatto che il capitale non ha ancora trovato il suo modo di riproduzione. Si tratta, in tal senso, di una teoria - ed è stata letta anche in questo modo - che punta essenzialmente a due problemi immanenti al capitalismo: in primo luogo, alla critica dei momenti patriarcali, corporativi, nelle relazioni sociali stabilite dal capitale, ossia, alla trasformazione dei lavoratori salariati in soggetti borghesi, nella piena accezione - sotto il punto di vista monetario, giuridico e statale; e, in secondo luogo, al conflitto distributivo sotto forma monetaria, nel quale il carattere relativo "del valore della merce forza-lavoro" (il momento storico-"morale", come a volte lo chiama Marx) viene ricondotto ad una normalità capitalista, di un "benessere nel capitalismo", sia attraverso degli accordi collettivi che per mezzo di politiche distributive statali.
Oggi, questo marxismo immanente alla modernizzazione è diventato, di fatto, del tutto obsoleto, non perché "sbagliato", ma perché il suo compito si è concluso. Nei paesi dell'Est e del Sud, il processo di modernizzazione tardiva ha incontrato la sua barriera assoluta; il ciclo di implementazione delle relazioni capitaliste si è chiuso quando queste sono state totalizzate sotto la forma di una relazione immediatamente globale, di un produttore mondiale di merci. I lavoratori salariati si sono convertiti in soggetti monetari e giuridici, nella piena accezione borghese, essendo impossibile maggior "libertà" e "uguaglianza", perché, in qualche modo, il gioco distributivo statale ha raggiunto il suo limite assoluto. Con ciò, arriva al suo termine la lotta di classe, che non era altro che il processo di attuazione del capitale, il quale nella sua logica formale pura e astratta si contrappone ai capitalisti, storicamente ed empiricamente limitati.
I vari becchini di Marx ed i nuovi amici della democrazia del mondo delle merci occidentali traggono da qui la conclusione affrettata per cui la critica della società fosse esaurita, almeno nella sua variante radicale, e che da ora in poi, e per tutta l'eternità, questa "società globale senza alternativa" del capitale detterà le regole per tutto quello che verrà fatto e pensato. Niente di più lontano dalla verità. Perché solo ora può entrare sulla scena storica quell' "altro" Marx, che era rimasto nascosto, quel Marx "oscuro" ed "esoterico" del quale, non a caso, il movimento operaio non sapeva cosa farsene. Il tentativo marxiano di trascendere il capitale attraverso una mera assolutizzazione della "classe operaia" ("Dittatura del Proletariato") è sempre stata una costruzione distorta, poiché in tal modo si cercava di conseguire nella totalità quello che era un momento particolare, immanente allo stesso capitale. Questa pseudo-trascendenza deve anche essere interamente imputata alla teoria marxiana in quanto mera teoria della modernizzazione, che, partendo da una falsa immediatezza sociologica, si concentra sulle classi e sulle relazioni sociali senza che gli appaia nel campo visuale le forme sociali comuni alle stesse. Questa forma però è il capitale. E' la forma-valore o la forma-merce in quanto tale che, diversamente dalla sua esistenza embrionale come forma ristretta ad alcune nicchie sociali nelle società premoderne, si sviluppa nel capitale al punto da convertirsi in forma totale della riproduzione sociale.
Con la sua critica, il marxismo della modernizzazione o il marxismo operaio, non mette a fuoco questa forma, che concepisce soprattutto come fondamento ontologico insuperabile della società in generale. Per esso, il problema non era il "valore", che è la forma sociale delle merci, ma semplicemente il "plusvalore" imposto dall'esterno. In Marx stesso, al contrario, il piano immanente della teoria è reso possibile proprio dalla critica radicale del valore in quanto valore. Il concetto di feticismo è la categoria centrale di tale critica, salendo dal feticcio della merce al feticcio del denaro, del capitale, del salario, del diritto e dello Stato. In sostanza, tutte le categorie sociali della modernità vengono qui sottoposti alla critica radicale, mentre che l'ideologia borghese, incluso il marxismo, si limita sempre a postulare il loro lato positivo. Pertanto vediamo, in Marx, due linee argomentative intrecciate, ma incompatibili fra di loro. Oggi, però, questo nodo gordiano dev'essere sciolto, non importa se alla maniera classica o per mezzo di un lento dipanare. Il Marx degli operai e della lotta di classe cade in disgrazia, ma il critico radicale del feticismo e della forma valore è ancora in piedi ed è ancora efficace.
Bisogna smettere di brancolare nel labirinto della modernità, e seguire il tenue filo di Arianna della critica radicale marxiana della merce e del denaro, ancora necessariamente astratta ed incompleta. Il concetto marxiano di feticismo, liberato dall'antico fardello del marxismo del movimento operaio, può essere ampliato - o farsi conoscere - attraverso la critica dello stesso feticcio del lavoro. Il problema non è più lo "sfruttamento" della forma valore, ma prima ancora il lavoro astratto stesso, cioè, l'utilizzo astratto imprenditoriale dell'essere umano e della natura. Il "lavoro" ha perso la sua dignità; in quanto terapia occupazionale, moderna costruzione di piramidi, feticismo del posto di lavoro e produzione distruttiva, è in questo modo artificiale, e con costi di gestione sempre più rovinosi, che esso mantiene in funzione il sistema capitalista globalizzato.
Ovviamente, questa proposta teorica non piace neanche un po' ai teorici ancora predominanti. Al contrario, viene recepita come una proposta indecente, come una specie di volgarità o di enormità. Non potrebbe reagire diversamente, una coscienza la cui immaginazione teorica si esaurisce nella scommessa di continuare eternamente a modernizzare la modernità, guardandola sempre come se fosse un "progetto incompiuto" (Habermas). Per questa ragione, ogni critica alla modernità viene accusata di appartenere al vecchio repertorio reazionario piagnucoloso che vuole solo tornare alla pre-modernità: passare dalla socializzazione alla "comunità", dalla forma-merce all'economia naturale di sussistenza, dal diritto al dispotismo, dal mercato mondiale al villaggio. Ma non si tratta di regolare i conti con la modernità, retrocedendo, bensì avanzando. Il denaro totale ha prodotto il Mondo Unico, e quanto a questo non è possibile tornare indietro: ma esso è solo la stampella dell'umanità, che ora dev'essere eliminata. E' necessario liberare questo mondo unificato dalla sua conformazione mercantile, proteggendo il suo livello di civiltà, la sua forza produttiva e le sue conoscenze. Un tale compito storico, che il marxismo operaio aveva messo da parte e rinviato ad un futuro presumibilmente lontano, è ora all'ordine del giorno.
Con la "vittoria", l'Occidente trova anche la sua propria fine. Ha bisogno di sopprimere e superare sé stesso. La soppressione (Aufhebung), in questo caso, non significa solo il punto finale di un processo. Essa presuppone una rottura storica decisiva (e decisa), che i teorici della civiltà, della democratizzazione e della modernizzazione hanno cercato inutilmente di eludere. Nonostante si siano fatti carico, tutti insieme, della sepoltura di Marx, essi stessi non sono andati al di là delle forme residue e degradate del marxismo della modernizzazione, che non si sono lasciati alle spalle, come pensano, ma le hanno piuttosto diluite fino a trasformarle in qualcosa di totalmente inoffensivo e sprovvisto di oggetto. Non sono i precursori di una nuova teoria, ma le macerie teoriche di un processo storico storico già concluso. Questo può essere dimostrato, nella pratica, dal fatto che hanno completamente perso l'immaginazione in quanto critica della società.
E non è affatto un caso che il concetto teorico (e, tra l'altro, anche l'appello "politico") abbia perso la sua dignità insieme al "lavoro". E nemmeno è stata opera del caso, il fatto che la critica marxiana del valore e del feticismo sia stata molto più disprezzata dei "capricci filosofici" di Marx. Infatti, prendendo sul serio la critica del feticismo, disponiamo non solo di una forma sociale reale, ma anche della cassetta degli attrezzi ideale per la modernità. Il valore non è nessuna cruda "cosa economica", ma al contrario è una forma sociale totale, ossia, forma-soggetto e forma di pensiero. Anche se impieghiamo continuamente il prefisso "post" nei discorsi sulla post-modernità, sia per parlare di post-fordismo di post-industrialismo, o termini affini, inconsciamente li pensiamo anche lungo le linee della forma merce.
Tuttavia, se la modernità, in sostanza, è semplicemente la totalizzazione della forma merce, non possiamo avere nessun "post-industrialismo" mercantile, né tantomeno un pensiero mercantile della post-modernità. Sarebbe necessario tornare a portare avanti, criticamente, il pensiero iniziato da Sohn-Rethel circa il nesso fra "forma-merce e forma di pensiero", al fine di disvelare la conformazione mercantile di tutto il dibattito occidentale intorno alla teoria della conoscenza. Questo programma potrebbe portare ad un nuovo modo di sfatare Kant e decifrare concettualmente, in quanto costruzione feticista, la cesura tanto nella teoria della conoscenza quanto nell'etica, cui, per inciso, è pervenuta sensibilmente la discussione etica attuale.
La critica radicale del valore, in quanto critica della società, ristabilisce l'identità, nel pensiero, fra forma di esistenza e forma di pensiero; la critica delle moderne dicotomie occidentali, tanto tra individuo e società, quanto tra economia e politica, precede il superamento pratico delle stesse. Con ciò, si apre non solo la possibilità di una re-storicizzazione delle forme di relazionamento e di "legalità" sociali, antropologizzate ed ontologizzate dallo strutturalismo e dalla teoria sistemica, ma anche una via di accesso più facile ed efficace verso tutte le problematiche contemporanee.
Questo può essere visto in maniera esemplare e centrale nella relazione tra i sessi, tema che, non a caso, è sbiadito lentamente sotto l'egida del movimento operaio e della modernizzazione. E' solo nell'ambito di una critica del valore, in quanto definizione basilare della forma sociale, che l'assegnazione dei ruoli sessuali può apparire nella coscienza teorica. La relazione occidentale fra i sessi è definita dalla forma valore, ossia il valore è sessualmente costituito. Una società feticista della produzione e del lavoro astratto presuppone la "cesura di un contesto di vita femminile" (Roswitha Scholz), ossia la separazione di quei momenti sensibili, non passibili di monetizzazione, e, con questo, la costituzione di ruoli sessuali specifici, socialmente e storicamente. L'uomo si converte nel rappresentante del lavoro astratto, la donna nella "persona fisica domestica", nella quale si scarica tutto quello che non può essere ridotto ad astrazione di valore.
In tale modo, si stabilisce la relazione specificamente borghese fra sfera pubblica e sfera privata, la quale raggiunge nella modernità il suo culmine. L'attività della donna all'interno di uno spazio privato (sessualità, famiglia), non legata alla forma valore, è il presupposto strutturale e storico del sistema produttore di merci e precede tutte le altre relazioni, forgiate sull'astrazione virile, fra sfera privata (denaro) e sfera pubblica (Stato). Quando la totalizzazione della forma valore erode il suo stesso fondamento, convertendo la donna, tendenzialmente, in soggetto monetario e statale, diventa non solo possibile rivendicare la "uguaglianza" sull'ultimo terreno che ancora rimaneva, ma anche far saltare in aria l'intera relazione fra sfera pubblica e sfera privata che corrisponde alla forma merce. Nell'ambito di una mera "critica del plusvalore", il problema neppure compare; tuttavia, nella misura in cui il valore, in quanto relazione sociale, incontra il suo limite, la relazione fra i sessi diventa un centro di crisi e si riferisce alla crisi del valore in quanto valore.
Con la chiave della critica radicale del valore si potrebbe disserrare, ugualmente, l'attuale dibattito in merito ad un orientamento pragmatico ("realista") circa la fine dell'utopia e la fine della storia. I realisti, pratici e teorici, gli spiriti del cambiamento, democratici della temperanza, artisti della negoziazione e critici-astemi sono stati frettolosi nell'arrivare alle conclusioni. A volte la storia, di fatto, arriva al termine, ma ciò che fino ad ora lo ha fatto è stata solo la storia occidentale del valore, o del sistema produttore di merci. A partire dall'antichità occidentale, passando per il cristianesimo e per il Rinascimento, si è messo in marcia un processo, il cui spazio temporale effettivo è pari a 200 anni: dal 1789 al 1989. Tutto il resto è una "non ancora" storia. Per il Marx esoterico, questo periodo corrisponde esattamente alla preistoria del genere umano. inclusa la fase del capitale (in quanto, potremmo completare, forma ultima e più elevata del primitivismo feticista). Inoltre, la "fine della storia" non si riferisce a qualcosa di diverso dalla crisi e dalla fine del valore. Se vogliamo, si riferisce alla fine dello stesso Occidente. Le cose non vanno meglio quando si parla della fine dell'utopia, strombazzata ai quattro venti. Anche l'utopia è una creazione tipicamente occidentale, un prodotto della relazione del valore e dei passaggi da questo generati. Così come il potenziale desensibilizzante dell'astrazione mercantile reale ha creato "la donna" come essere compensativo, "l'utopia" è stata forgiata come accompagnamento musicale fisso che doveva suonare più forte ad ogni nuovo passaggio storico dell'astrazione reale del valore. Il carattere insopportabile della contraddizione, quando essa si manifesta nella forma sociale dell'alienazione inerente alla forma valore, produce, al divinizzarsi di questa contraddizione stessa, il desiderio di una completa assenza di contraddizione. Che può essere non solo l'elemento centrale del pensiero utopico, ma della ragione borghese in generale.
Sicuramente, il dogmatismo dell'utopia può essere recuperato nel pensiero marxiano, in quanto struttura dogmatica, ma ciò si verifica solo nella misura in cui questo si mantiene immerso nella forma valore, ossia, quando si tratta di pensiero formulato dal teorico borghese della modernizzazione e, quindi, del movimento operaio. In tal caso, ci riferiamo al dogmatismo essenziale del pensiero moderno illuminista, il dogmatismo oggettivo della ragione borghese in quanto tale. Per un'ironia del destino, i nuovi anti-utopisti e becchini della teoria marxiana, che accusano Marx di essere utopista, e l'utopia di visione escatologica della storia, ora parlano, essi stessi, di "fine della storia" come supposta eternizzazione della normalità capitalista. Ma questa concezione stessa è una sorta di escatologia per fare sonni tranquilli, la cui realizzazione nell'ambito della società mondiale può, però, causare incubi.
E' il pensiero illuminista borghese ad aver bisogno di far coincidere la fine della storia con la sua propria fine. Questa struttura dogmatica tende a sfociare in una "visione del mondo" omicida, allorché si vede espressamente vietata la possibilità di pensarsi in questi termini, come avviene no solo nelle teorie pragmatiche borghesi, ma anche nei marxismi critici occidentali, ancora prigionieri della modernità e dell'illuminismo. Anche la teoria critica vede la ragione come un'entità fuori della storia, e simultaneamente dentro. Il pragmatismo borghese opera, allo stesso modo, con un concetto di ragione che non può essere desunto. Non c'è da stupirsi che entrambe le correnti si incontrino oggi nella filosofia "realista", nel senso più ampio del termine, sotto la forma di una propaganda omicida, pro-capitalista e pro-occidentale, della società globale del capitale.
Il preteso orientamento pragmatico cela la sua propria forma sociale. Un vero pragmatismo non sarebbe mai capace di plasmare il mondo sensibile, le risorse sociali ed il potenziale scientifico, secondo un principio razionale unico, dogmatico ed astratto. Il vero pragmatismo significherebbe, perciò, una rivoluzione contro il valore ed il suo sistema di ordinamento. Ogni pensiero sottomesso alla forma merce, al contrario, è "visione del mondo" solo a causa della lente deformante dell'astrazione valore. I pseudo-pragmatici borghesi obbediscono in realtà al dogmatismo reale del denaro e alla sua auto-valorizzazione feticista. Nella pratica sociale, questo pragmatismo si converte forzatamente in dittatura della stato d'assedio, in dichiarazione di guerra contro tutti coloro che non possono più vivere degnamente sotto il giogo della forma merce totalizzata.
In realtà, c'è qualcosa di terribilmente consolatorio nel fatto che il Mondo Unico tagliato sulla forma valore obblighi gli a-critici teorici professionali dell'Occidente a dire quel che pensano realmente, sotto le forme delle teorie omicide della democrazia liberale, con i suoi deficit ecologici e sociali. Poiché l'economia di mercato e la democrazia occidentale, in quanto forme di superficie o forme fenomeniche del feticismo moderno, semplicemente no sono capaci di integrare la stragrande maggioranza dell'umanità. La fine del socialismo di Stato, che non era altro che una dittatura di modernizzazione tra le altre, porta con sé, in modo evidente e con primitiva violenza, non una rivitalizzazione della democrazia occidentale - come avevano sperato i teorici della civiltà - ma, al contrario, l'irruzione galoppante della barbarie. Il Menetekel (N.d.T.: espressione di origine ebraica, tratta dal libro di Daniele, che profetizza la dissoluzione del regno di Baltasar e la sua spartizione fra Medi e Persiani. In tedesco, il termine è venuto a significare "segnale di allarme", "minaccia di pericolo", o "destino fatidico") jugoslavo serve come profezia del nostro futuro.
Ovviamente, questa diagnosi della situazione della società e della teoria, porta a chiederci quali siano le possibilità di dominio e di cambiamento dello stesso. La prassi sociale deve passare attraverso la coscienza teorica. Certamente, con la crisi e con la critica del sistema produttore di merci, viene a cambiare anche la posizione della teoria stessa. Mentre la critica radicale del valore non può obbedire al dogmatismo reale del denaro, e tantomeno recare in sé un concetto astratto di ragione, dogmatico ed esterno. Una teoria capace di concepire sé stessa non è più il comitato centrale dello spirito del mondo, e, perciò, non può più servire come istanza leggittimatrice di alcun comitato centrale politico, e nemmeno di una commissione parlamentare verde, professionalizzata alla maniera capitalista. Il vecchio collegamento fra teoria, programma, partito e potere dev'essere, esso stesso, imputato alla forma borghese, che definiva anche la posizione della teoria. Se salta per aria la relazione borghese fra "vita" e filosofia, in quanto tale, così come fra economia e politica, diventa non più possibile imporre al pensiero la vecchia assegnazione prescritta dal modello mercantile.
La teoria - che non deve più celebrare alcuna base sociologistica di classe, anche se questa si presenta nella figura ultima e degradata di una "volontà elettorale" - alla fine gode della libertà propria del "fuorilegge" e viene riconosciuta come momento critico di una crisi sociale di portata mondiale, senza che sostenga che queste pretese, rispetto alla totalità del mondo intero, le derivino da una qualche metafisica della logica finale. La nuova modestia della teoria dev'essere, tuttavia, allo stesso tempo, la sua nuova e inaudita radicalità, e semplicemente su questo riposa la sua verità. L'apparente modestia dei filosofi occidentali-democratici della capitolazione, al contrario, smentisce sé stessa, poiché, a livello di dirigere la radicalità della critica contro le attuali condizioni di vita, mobilita in maniera del tutto immodesta la radicalità delle relazioni capitaliste contro gli esseri umani reali.
La teoria proscritta non può più richiamarsi ad un qualche soggetto ontologico che non sia essa stessa. Quando si dissolve l'ontologia e la metafisica del lavoro astratto, forgiato dalla forma merce, la crisi già non può più essere superata mediante la trasformazione di un soggetto in sé, inconsciamente presente da sempre nella sua particolarità capitalista, in un soggetto per sé del lavoro totale. E' la società, essa stessa, che deve ora costituirsi coscientemente in quella terra desolata nella quale fino ad ora non c'è stato alcun soggetto se non la forma cieca e feticista della "astrazione reale" (Sohn-Rethel). La teoria dà fondamento a questa costituzione cosciente proprio perché non può più evocare alcun "interesse" immanente alla forma merce, ma può solo mobilitare "l'interesse" sensibile contro la stessa astrazione reale. I germi di questo movimento sono praticamente già presenti nella società come critica femminista, sociale ed ecologica. Queste forme di critica pratica non sono più un ontologico "in sé" "per sé" del lavoro, ma sono momenti effettivi del movimento di soppressione del valore. Il momento teorico cammina ancora a passi lenti e deve compensare il proprio ritardo.
In questo caso, anche il cambiamento di luogo della teoria va inteso in senso letterale. Già da molto tempo, dovrebbe essere diventato chiaro che rinchiudere il pensiero (soprattutto quello rivoluzionario) dentro la prigione dell'amministrazione intellettuale accademica occidentale , non gli avrebbe fatto bene. L'università non si sbarazzerà della "muffa di mille anni" per mezzo di una modernizzazione capitalista, poiché lo stesso capitale è muffa residuale di una preistoria di mille anni di feticismo sociale. Ma, d'altra parte, crollano anche le dicotomie del mondo della merce mantenute istituzionalmente. La rivoluzione teorica è, allo stesso tempo, una rivoluzione istituzionale, ed ogni rivoluzione comincia con la pratica di non prendere più sul serio le sacre istituzioni.
Così come non serve avere, oggi, una coscienza teorica esplicitamente critica del valore al fine di confrontare il gesticolare, la mimica, i discorsi e le azioni della classe politica del sistema produttore di merci, con i cerimoniali dei cacicchi di una tribù cannibale, allo stesso modo, nell'attività scientifica corrente si vede un'unità scimmiesca da preistoria. E' in questo modo, particolarmente grossolano, poiché la vita accademica è, allo stesso tempo, l'ultimo bastione di una coscienza di stato. In nessun'altra sfera del sistema produttore di merci si mantiene tanto tenacemente, come in questa, una grottesca ed antidiluviana ostentazione dei titoli. Solo i fasti della toga, del berretto dottorale, della talare, ecc., già ci rimandano a questo stato di cose. La gente si domanda perché i rettori e i decani non si mettano ad usare ossa alle narici come indice della loro importanza.
Per ironia, la crisi della "muffa di mille anni" coincide con la crisi delle relazioni stabilite con il valore. I rimbrotti della coscienza accademica che ne derivano non sono privi di grazia. Con l'obsolescenza del solenne orgoglia per il proprio stato, diventa obsoleta, tutt'ad un tratto, l'arbitrarietà astratta che guadagna denaro. Con le restrizioni imposte dalla crisi fiscale dello Stato, anche l'impresa del pensiero vede strangolata la sua offerta. Come si sa, perfino la filosofia va alla ricerca di finanziamenti e cerca di provare la sua importanza ai fini del funzionamento capitalista. La cantilena che intonano riesce ad essere divertente. Si tratta della transizione istituzionale della filosofia, e delle scienze umane in generale, verso quel livello di leggerezza che oggi definisce di gran lunga il suo contenuto.
Non c'è alcun motivo per il lamenti pessimisti a proposito del futuro della cultura, che si vede tagliati i finanziamenti per progetti di ricerca che, in qualche modo, sono nella loro maggioranza inutili, o costituiscono una minaccia pubblica. Tanto meno devono essere oggetto di compassione quegli accademici che si mantengono in posti di lavoro parziali o provvisori, per puro attaccamento alla loro rispettabilità professionale, percependo redditi equivalenti a quelli dell'assistenza sociale. E' più probabile che possano emergere connessioni innovative tra filosofia e "vita", insieme ad altre, grottesche, come tentativi un po' stravaganti di stabilire, per esempio, un "consultorio filosofico", come una specie di dentista dello spirito o un'officina di bricolage per appassionati pensatori.
In generale, però, non ci si deve aspettare che la scienza, decaduta ed intimidita, in quanto ramo istituzionale della modernità borghese, investa contro le sue proprie basi e compia, di per sé, il prossimo passo storico del pensiero, cioè, che passi alla critica radicale della forma merce. Anche la scienza, come tale, è stata modellata dalla forma merce, e in tal senso dev'essere superata; non retrocedendo in direzione del mito, ma avanzando su un territorio sconosciuto. Il fatto che essa non sia più presa sul serio, indica il primo passo nella giusta direzione. La ragione relativa di Paul Feyerabend o di Hans Peter Duerr si basa su questa situazione.
Queste osservazioni non devono essere intese, equivocando, come espressioni di un risentimento anti-accademico. Non c'è alcuna vergogna nel fatto che qualcuno concluda il suo corso di laurea o il suo dottorato di ricerca, e che si guadagni da vivere come accademico. Ma, alla fine, cosa si può obiettare contro l'americanizzazione della posizione sociale degli accademici? Nei nuovi legami compulsivi fra "vita" e filosofia risiede anche la possibilità di una nuova capacità di distanziamento. Così come la scienza presuppone una distanza nei confronti dei suoi oggetti, il superamento della scienza della costituzione feticista presuppone una meta-distanza nei confronti della stessa scienza. Se tutti sono artisti, come pensavano Joseph Beuys o Andy Warhol, allora, nessuno lo è. E questo vale anche per la scienza.
Nella stessa misura in cui si massifica la capacità di astrazione, la società feticista dell'astrazione reale viene spinta verso la dissoluzione. La "proletarizzazione" degli intellettuali e la "deproletarizzazione" della società vanno di pari passo e danno mostra del carattere discutibile del mondo concettuale sociologistico.
Diminuisce il numero dei "figli di operai" fra gli studenti, ma, con una rapidità ancora maggiore, di minuisce quello degli "operai" nell'insieme della popolazione. Nel 1986, per la prima volta nella Repubblica Federale Tedesca, era maggiore il numero degli alunni che concludeva il secondo grado rispetto a quello che concludeva l'insegnamento di base; nel 1991, ancora per la prima volta, c'erano più studenti universitari che apprendisti artigiani. Con questo, ogni pacchetto di relazioni amorose con sopra l'etichetta "intellettuali e classe operaia", tipico della lotta di classe, si vede ridotto ad assurdo. Quando la "intellighenzia" stessa viene convertita in "popolo", questa non è più intellighenzia, e nemmeno il popolo è popolo. La crisi del lavoro astratto, che presuppone una "classe" e un "popolo" che le corrisponda, si esprime nell'esistenza sociale, così come la crisi dei contenuti si esprime nella crisi istituzionale.
Il focus dell'innovazione teorica non può più nascere all'interno dell'attività intellettuale ufficiale. La nuova meta-distanza nei confronti della scienza stessa, supportata dalla "vita" effettiva di una intellighenzia massificata - e anche soppressa e superata in quanto intellighenzia - potrebbe essere capace di ricaricare la batteria del pensiero socialmente critico. Non è a partire da un'opposizione forzata "contro" l'impresa scientifica, ma da una posizione obliqua in rapporto a questa, che può nascere un discorso critico ne confronti della modernità capitalista, capace di selezionare gli interventi secondo criteri distinti da quelli della macchina scientifica borghese arrivata ad un punto morto. "L'inutilità di diventare adulto" (Koch/Heinzen), così come la visione chiara della mancanza di senso dei criteri capitalisti di successo, a volte arrivano più vicino alla teoria proscritta della critica radicale del valore di quanto attualmente vogliano ammettere gli esecutori dell'impresa intellettuale.
- Robert Kurz - Testo originalmente pubblicato su "Münchner Zeitschrift für Philosophie", n. 22, del 1992 -
fonte: EXIT!
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