Vittorio Emanuele II, l'arcitaliano
di Alessandro Barbero
Generazioni di italiani si sono fatti un’idea di Vittorio Emanuele II leggendo il libro Cuore. Il 17 gennaio 1882, «per l’anniversario dei funerali di re Vittorio», il primo della classe, Derossi, tiene un discorso in memoria del primo re d’Italia. Erano passati quattro anni dal giorno in cui Vittorio era stato tumulato a Roma al Pantheon, e in tutte le classi del regno in quella data si continuava a tenere la sua commemorazione: l’Italietta di fine Ottocento sapeva come si fa a raccontare la storia patria e a garantire che la versione ufficiale si radichi a fondo nella memoria di tutti. E che versione! Il biondo Derossi, prediletto del maestro, celebra «un regno di ventinove anni ch’egli aveva fatto benefico col valore, con la lealtà, con l’ardimento nei pericoli, con la saggezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure»; descrive l’Italia che dà «l’ultimo addio al suo re morto, al suo vecchio re, che l’aveva tanto amata, l’ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia», e conclude commosso: «Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l’Italia». Ancora oggi, rileggendo questa pagina si sente l'efficacia della penna di De Amicis, che all'epoca non aveva ancora scoperto il socialismo. Poi, certo, tutto è rimesso in prospettiva dall'avvio del capitolo seguente: «Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise». Se non sapessimo che Edmondo non poteva aver letto L'Elogio di Franti di Umberto Eco, verrebbe da chiedersi se non l'abbia fatto apposta, di introdurlo proprio in quel punto, per strizzare l'occhio su tutta la retorica che ha appena rifilato al lettore. Quanti, fra quelli che avevano conosciuto e servito il defunto re, sapevano che quella versione ufficiale faceva acqua da tutte le parti?
Se fossero stati ancora vivi, qualche dubbio lo avrebbero certo avuto i precettori che tanti anni prima erano stati incaricati della sua educazione e scrivevano nei loro rapporti che il principino «è sempre addormentato, lavora poco o nulla», e comunque «lavora con somma noia e indolenza». Qualche dubbio lo avrebbe avuto il conte di Cavour, che era stato per tanti anni il suo primo ministro, sperimentando tutte le gelosie e le meschinità di Vittorio, il quale lo chiamava «il maestro» e una volta ebbe a dire che gli avrebbe pagato un milione di franchi purché partisse per l'America. Camillo, da parte sua, faceva sapere in giro che lui era pronto anche a morire per il re, in quanto simbolo della monarchia e dell'Italia unita, ma «come uomo desidero da lui un solo favore, il rimanerne il più lontano possibile».
Avrà certamente avuto i suoi dubbi il generale Solaroli di Briona, aiutante di campo di Vittorio durante la guerra del '59, il quale giudicava così le qualità militari del re soldato: «il nostro re all'infuori del coraggio e dell'avventatezza non ha nulla; non ha occhio, né sangue freddo, non si ricorda mai il nome di un paese»; se per una volta avevamo vinto la guerra, era solo perché al comando c'era Napoleone III. E dovevano avere qualche dubbio i ministri del governo Rattazzi che nel 1867 confidarono all'ambasciatore inglese Lord Clarenton che il primo re d'Italia «era ipocrita e ignorante, un intrigante che nessun onest'uomo poteva servire senza danno per la sua reputazione... Tutti sono d'accordo nel giudicare il re un imbecille; è un disonesto che mente con tutti».
Tant'è che per la leggenda dell'eroe e del re galantuomo. Ma va anche detto che oggi Vittorio piacerebbe moltissimo. Sarebbe un sovrano populista, capace di fare pressione su una Camera non abbastanza docile minacciando, come fece davvero: «darò il suffragio universale e andrò io stesso a parlare agli elettori». Di lui piacerebbe la familiarità sgrammaticata che intratteneva con i ministri, come d'Azeglio a cui scriveva: «Mi voglia sempre tanto bene quanto io ce ne voglio a lei», ma anche: «a dire il vero non sono molto amatore di consigli. Quando ne avrò bisogno glielo chiederò. Con tutto ciò non mi voglia male. Ciao Massimo».
Piacerebbe l'allegra baldanza con cui prendeva di petto le difficoltà, come quando progettava insieme allo scomunicato Cavour di portar via al Papa mezzo Stato Pontificio: «Io e il maestro siamo pronti ad ogni cimento, anche a prendere il sole e a luna coi denti». Piacerebbe il disinvolto furfante che sempre a proposito dei ministri (ma Cavour e d'Azeglio erano morti e le nuove leve non erano all'altezza) garantiva alla figlia Maria Clotilde: «li tengo tutti in pugno: avendo conservato un intero archivio di lettere che essi mi hanno scritto in epoche diverse, li faccio star zitti e rigare dritto».
Piacerebbe anche il cattolico superstizioso capace d'infischiarsi del Papa e della scomunica («me ne fotto») ma spaventatissimo dalle profezie di Don Bosco, il peccatore gagliardo dalle mille amanti «che, se non di Dio come dovrebbe, ha una grande paura del diavolo», come riferiva malizioso un diplomatico francese. Piacerebbe l'uomo di gusti semplici che «preferisce i cibi grossolani e popolari», e ai pranzi di corte «non svolge nemmeno il tovagliolo, non tocca cibo: con le mani appoggiate sull'elsa della sciabola, esamina i convitati, senza cercar di nascondere l'impazienza e la noia».
Piacerebbe il padre cialtrone che dopo essere rimasto vedovo scrive a Maria Clotilde per informarla che sposerà la Rosina, in una lettera che meriterebbe di essere citata per intero. Comincia con una bugia spudorata: «Non ho mai amato al mondo che la tua santissima madre
e poi questa»; poi infila uno dopo l'altro «un terribile destino», «un grande amore», e finalmente spara la cartuccia fatale: «ora, cara Kekina, sono pronto a sposarla». La Rosina, s'intende, è così delicata che non gliel’ha mai chiesto, e proprio per questo lui ha promesso, «quella promessa che come uomo onorato e soldato mi lega fino alla morte». Il buon papà prosegue implorando la figlia: «Non volermi male ed abbi un poco di carità per il tuo misero paparino. Ho bisogno, ho diritto di avere un poco di pace», e via seguitando. E come potrebbe non piacere? Era l'arcitaliano. Peccato che non ci sia più Alberto Sordi per interpretarlo in un film.
- Alessandro Barbero - Pubblicato sulla Stampa del 13/3/2020 -
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