martedì 14 aprile 2020

I due poli sono tre !!!

Ne usciremo tripolari: Occidente, Cina, Asia
- Intervista di Danilo Taino a Parag Khanna -

Vista dall’Asia, la pandemia è diversa. Il virus si è sviluppato lì (in realtà in Cina), ma ora l’epicentro della crisi è in Occidente, in Europa e negli Stati Uniti. Com’è che i Paesi asiatici hanno risposto meglio? O almeno sembrano avere risposto più rapidamente e con maggiore efficacia? Soprattutto: la velocità e la qualità delle loro reazioni è una spinta ulteriore allo spostamento del «centro del mondo» a Oriente, lontano dal vecchio Atlantico, tendenza già ampiamente in atto prima del coronavirus? Parag Khanna non è stupito dell’evoluzione della crisi e pensa che, alla fine, nel mondo si creeranno una Red Zone, una zona rossa dove i governi hanno fallito, e una Green Zone, una zona verde dove hanno dimostrato di badare al benessere dei cittadini. Sull’emergere dell’Asia non cinese, e ribadisce non cinese, lo studioso di relazioni internazionali di origine indiano-americana ha scritto molto: pochi mesi fa per Fazi è uscito Il secolo asiatico?. Risponde al telefono da Singapore:

La Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong hanno dato una risposta decisa ed efficace all’espansione del virus. Non hanno seguito il modello drasticamente autoritario scelto da Pechino, ma anzi hanno puntato sulla trasparenza, la tecnologia, il coinvolgimento dei cittadini. L’Occidente fatica molto di più. Come si spiega?

«Innanzitutto, in questi Paesi c’è un alto livello di fiducia nei governi. Sono competenti e negli anni passati lo hanno dimostrato in molti casi. Quando parlano sono creduti e quando prendono decisioni sono seguiti. In secondo luogo, c’è stata l’esperienza della Sars, tra 2002 e 2003. Questi stessi governi l’hanno affrontata allora e hanno predisposto una serie di strutture e di piani di emergenza che allo scoppio della nuova crisi erano pronti per essere resi operativi. Inoltre, tutti i cittadini si ricordano della Sars e della necessità di adottare comportamenti corretti per fermare l'epidemia».

Intende dire che c'è stata una mobilitazione generale, dei governi, delle amministrazioni ma anche dei cittadini?

«La questione è stata presa molto seriamente. C'è un grande senso di solidarietà. Le organizzazioni di volontari si sono subito mosse. E c'è stato un enorme uso della tecnologia. Non solo per tracciare i contagiati. Taiwan manda messaggi sui telefoni cellulari delle persone. La corea del sud concede permessi di viaggio. Singapore ha creato un App, Trace-Together, che avverte se si è stati in prossimità di una persona infetta. Per fare alcuni esempi. E c'è un grande utilizzo di network di dati. Con estrema attenzione all'anonimato e alla privacy».

Lei dice, dunque, buongoverno, fiducia, esperienza, tecnologia. Sono le differenze maggiori con l'Occidente?

«Metterei la cosa in termini diversi. Ci sono tre nuovi valori asiatici, già ben chiari prima del virus, che stanno alla base della crescita e della forza dei Paesi della regione, dell'Asia del Sudest e orientale. Il primo è la democrazia tecnocratica. Per capirci, no Trump. Governi rispettosi delle regole democratiche, ma competenti. Il secondo è il capitalismo di Stato, nel senso che lo Stato ha un ruolo significativo nell'economia. Il terzo è un conservatorismo sociale, nel senso dell'applicazione di politiche solide e prudenti finalizzate al benessere dei cittadini. Impostazioni diverse da quelle praticate in Cina. Questi sono i New Asian Values, i nuovi valori asiatici che la pandemia sta proponendo al mondo».

In che senso?

«Nel senso che i tre valori diventeranno sempre più importanti anche in Occidente. L'apprezzamento della performance dei governi dell'Asia si sta diffondendo, anche il "Financial Times" lo ha sottolineato di recente. Oggi tutti devono affrontare le difficoltà immediate della crisi. Ma dopo verrà il momento di individuare chi e cosa ha funzionato meglio e l'approccio asiatico sarà al centro della discussione».

Come vede la Cina? In Occidente c'è chi ne sottolinea le responsabilità nella gestione iniziale dell'epidemia, nel tentare di nasconderla, e chi la vede come esempio di successo nel combatterla.

«Sulla Cina direi tre cose. La prima è che le autorità portano la responsabilità di avere soppresso all'inizio le informazioni sul virus. Di questo sono colpevoli. La seconda è che hanno dimostrato che lo Stato è molto efficace nella risposta. La terza riguarda il ruolo internazionale di Pechino: in questa crisi non è leader ma è un service provider: grazie alla base industriale del paese, può fornire al mondo ventilatori, mascherine, materiale medico. Sanno che devono farlo».

Vede, nelle iniziative di propaganda internazionale che Pechino sta portando avanti ovunque, l'obiettivo di presentarsi come il modello da seguire? Per dire che l'impostazione autoritaria e centralizzata funziona meglio non solo in economia, ma anche per la salute?

«È una lettura un po' ingenua. La battaglia su Twitter e la guerra delle accuse non avrà grandi effetti: non importa che cosa dicono i media. Posso assicurare che la maggioranza della popolazione mondiale, che sta in Asia, sa bene, al cento per cento, da dove è venuto il virus. Nessuno ha dubbi su questo, al di là di ogni propaganda. Le conversazioni cinesi su Twitter non contano niente. È sciocco seguirle».

In questa crisi, però, risulta straordinariamente evidente la mancata leadership degli Stati Uniti.

«La leadership americana è in declino da tempo. Anche in altri momenti lo abbiamo visto: in Iraq e Afghanistan, nelle prese di distanza dalle organizzazioni internazionali. Ora il problema è diventato il tema della capacità internazionale degli Stati Uniti. Quanti investimenti usciranno dal Paese verso il resto del mondo? Può diventare un tema di depressione. Il loro vero solo punto di forza, in una prospettiva economica, è il ruolo globale che ha il dollaro».

Non vede uno scontro di "soft power" tra Cina e Stati Uniti?

«Penso che il concetto di soft power sia senza significato, inutile. Il creativity power è ciò che è importante: questo è ciò che influenza chi è connesso, la capacità di guidare sulla base della creatività e dell'innovazione. E ci sono comunque altre relazioni importanti, per esempio quelle create dagli apparati militari e le infrastrutture».

Le pare che la pandemia cambi o acceleri le tendenze in atto nello spostamento del baricentro delle economie?

«Non sono nemmeno certo che sia un'accelerazione dei trend già esistenti. Che fossero già esistenti prima della pandemia. Prendiamo il caso delle infrastrutture (sulle quali c'è una sfida cinese al resto del mondo, con la Belt e Road Initiative, ndr): tra i 25 maggiori gruppi dell'engineering e delle costruzioni ci sono solo due imprese americane, tra l'altro attive soprattutto nel mercato interno. Per il resto, sono cinesi, sudcoreane, tedesche, italiane. L'Italia è una superpotenza nell'engineering, con Saipem, Enel, Eni. Gli Stati Uniti sono fuori da questo importantissimo business».

Lo ritiene un elemento centrale, quello delle infrastrutture? certo, la pandemia chiede che si facciano investimenti nelle reti, nelle strutture sanitarie...

«Le infrastrutture sono sempre una questione di soldi. Barack Obama prima e Donald Trump poi avevano promesso grandi interventi, mille miliardi di dollari di investimenti. Dopo 8 anni di Obama e 4 di Trump non è ancora stato speso niente. Anche nel bailout deciso nei giorni scorsi a Washington c'è zero per le infrastrutture. Oggi l'unico Paese con un alto livello di infrastrutture è il Giappone. E abbastanza la Corea del Sud. Il tasso di infrastrutture della Cina è al livello di quello della Polonia. Le opere le chiedono le Nazioni Unite, che le hanno messe tra gli obiettivi dello sviluppo umano. Se vuoi ridurre la mortalità, per dire, in Messico, devi fare strade. Le infrastrutture sono decisive, il problema è che, con gli alti indebitamenti, nei prossimi anni ci saranno meno soldi a disposizione».

Crede che, dopo la sorpresa che la Cina ha fatto al mondo, molte imprese preferiranno affidarsi ad altri Paesi per le loro forniture, ad esempio al Sudest asiatico?

«Era una tendenza già presente nel 2019. Causata dalla guerra commerciale e dalla Belt and Road Initiative che aumenta la connettività regionale. Queste sono le ragioni più forti, non so se la pandemia causerà un grande spostamento. Ma di certo la Cina non ne beneficerà, mentre il Sudest asiatico esce bene dalla situazione, ha mostrato di avere economie resilienti. E bisognerà fare i conti con meno denaro in circolazione».

L'India?

«È difficile avere numeri per quel che riguarda l'India. Il paese è in lockdown con grandi problemi. Molti indiani sono occupati nei servizi e la quarantena li colpisce pesantemente. Riusciremo a capire qualcosa di più quando ricominceranno a muoversi, tra due o tre settimane».

Si parla molto di "decoupling" tra Cina e Usa, della creazione di due sfere d'influenza e due economie parallele e separate. Già da prima del coronavirus, che però potrebbe accelerare la tendenza.

«Il mondo di domani, in realtà già di oggi, non sarà bipolare, sarà tripolare. Un polo quello di Stati Uniti ed Europa, uno quello della Cina, uno quello dell'Asia non cinese. In Asia nessuno vuole vivere nel sistema cinese o in quello americano. Sarà un mondo di culture multiple, di allineamenti multipli».

Vede qualche tendenza determinata dalla crisi del virus che li possa attraversare tutti?

«Qualcuno avrà più successo di altri. In generale, ci sarà una maggiore automazione del lavoro, la robotizzazione sarà accelerata. E ci sarà una questione migranti. Al momento, le migrazioni sono abbastanza ferme. Ma poi molte persone si faranno delle domande. Si chiederanno: voglio continuare a vivere in un luogo con un governo incapace? E prenderanno delle decisioni. Ci saranno una Red Zone e una Green Zone».

- Intervista di Danilo Taino - Pubblicata sul Corriere del 5 Aprile 2020 -

3 commenti:

Unknown ha detto...

Chiedo gentilmente a Franco cosa ne pensa di due cose: di quale Asia parla l'intervistato ?. Corea del Sud,anche Giappone forse,ma Taiwan,Singapore,Hong Kong ?,sono minuscoli,o no ?. Poi dice che ci saranno meno soldi ?.che vuol dire ?Vengono stampati dalle Banche Centrali o creati elettronicamente dal circuito bancario !. Certo nel meccanismo del credito/debito, ma vengono creati mi sembra.Oppure è un'altra questione ?.Grazie,Cordiali Saluti. Franco Trondoli

BlackBlog francosenia ha detto...

Credo che, come l'ha definita proprio lui, parli dell'Asia non cinese in senso lato, e quindi tenderei ad escludere il Giappone, che storicamente ed economicamente con l'Asia ha sempre avuto ben poco a che fare, ed includerei soprattutto l'India, e senza dimenticare la Thailandia (il sudest asiatico).
Quanto al denaro, ed al fatto che ci saranno meno soldi, credo si riferisca ai precedenti ed agli imminenti lanci di denaro col paracadute, dalle banche centrali alle banche, che in prospettiva - continuando il capitalismo - non possono certo continuare, ma abbisognano di nuove strategie in grado di combattere i due mostri temuti dal capitalismo (la recessione e l'inflazione). Un saluto a te, e grazie.

franco

Unknown ha detto...

Grazie dei chiarimenti Franco. Sei sempre gentile. In bocca al lupo. F.Trondoli