O l'economia o la vita
- pubblicato su lundimatin, 30 marzo 2020 -
« Non riesci a capire, non riescono a capire i tuoi conferenzieri, che siamo noi che stiamo morendo, e che quaggiù l'unica cosa veramente viva è la Macchina? Abbiamo creato la Macchina affinché eseguisse il nostro volere, ma ora noi non riusciamo a farci obbedire. Ci ha privato del nostro senso dello spazio e del senso del tatto, ha offuscato ogni relazione umana e ridotto l'amore ad un atto carnale, ha paralizzato i nostri corpi e le nostre volontà, e ora ci obbliga a venerarla. La Macchina si evolve, ma non secondo le nostre linee. La macchina procede, ma non verso la nostra meta. Noi esistiamo semplicemente come globuli sanguigni che scorrono nelle sue arterie, e se potesse funzionare senza di noi, ci lascerebbe morire. » (da Edward Morgan Foster, "La macchina si ferma" [1909], Portaparole, 2012). [Il racconto può essere letto per intero qui]
Non tutto è falso, nella comunicazione ufficiale. In mezzo a tante menzogne sconcertanti, a volte succede che i governanti abbiano visibilmente il cuore in gola, ed è allora che arrivano a descrivere nel dettaglio fino a che punto l'economia stia soffrendo. È vero, ci sono gli anziani che vengono lasciati a casa a morire soffocati, in modo da non entrare nelle statistiche ministeriali e perché non ingombrino gli ospedali. Ma ecco che non appena avviene che muoia una bella azienda, ecco che gli si serra loro la gola. Certo, dappertutto si crepa a causa di difficoltà respiratorie, ma non bisogna permettere che l'economia vada in debito di ossigeno. Per lei, l'economia, ci sarà sempre un respiratore artificiale. Per questo, ci sono le banche centrali che provvederanno. I governanti somigliano a quella vecchia borghese la quale, mentre un visitatore agonizza nel suo salotto, sta sudando freddo a causa delle macchie sul suo bel pavimento. O come quell'esperto di tecnocrazia nazionale che, in un recente rapporto sulla sicurezza nucleare, conclude scrivendo semplicemente che: «fondamentalmente, la vittima principale del grave incidente nucleare è l'economia francese.»
Di fronte all'attuale tempesta microbica, che a partire dalla fine degli anni '90 è stata comunicata mille volte a tutti i livelli governativi, ci si perde in speculazioni a proposito della mancanza di preparazione da parte dei responsabili. Come mai a questo punto sono mancate le maschere, i tamponi, i letti, gli infermieri, i farmaci? Perché queste misure così in ritardo, e questi improvvisi capovolgimenti di linea di condotta? Perché queste disposizioni così contraddittorie: isolarsi ma andare a lavorare, chiudere i mercatini ma non i grandi supermercati, fermare la circolazione del virus ma non quella delle merci che lo trasportano? Perché ostacolare in maniera così grottesca i tamponi a livello di massa, o la somministrazione di un farmaco manifestatamente efficace ed economico? Perché scegliere il confinamento generale piuttosto che l'individuazione dei soggetti malati? La risposta è semplice e lineare: è l'economia, stupido!
Raramente l'economia è arrivata ad apparire, come sta succedendo ora, per quello che è realmente: una religione, se non addirittura una setta. Dopo tutto, a pensarci bene, una religione è solo una setta che ha preso il potere. Raramente, i governanti sono apparsi così palesemente posseduti, così come lo sembrano ora. I loro appelli lunari al sacrificio, alla guerra e alla mobilitazione totale contro il nemico invisibile, il loro appello all'unità dei fedeli, i loro inconsulti deliri verbali che non provano più nessun imbarazzo per alcun paradosso, sono gli stessi di ogni e qualsiasi celebrazione evangelica; ed ecco che noi, da dietro i nostri schermi, sempre più increduli, siamo chiamati a sopportarli. Caratteristica e peculiarità di questo genere di fede è che nessun fatto può invalidarla, anzi. Anziché dire che l'espansione del virus è venuta per condannare il regno globale dell'economia, ecco che diventa piuttosto l'occasione per realizzarne i presupposti, dell'economia. Il nuovo stile del confinamento, in cui «gli uomini non traggono alcun piacere (ma al contrario grande dispiacere) dalla vita in compagnia», e dove ciascuno considera chiunque, a partire dalla sua rigida separazione, come una minaccia per la propria vita, e dove la paura della morte viene imposta come la base del contratto sociale, e viene così realizzata l'ipotesi antropologica ed esistenziale del Leviatano di Hobbes; quell'Hobbes che Marx riteneva «uno dei più antichi economisti inglese, ed uno dei filosofi più originali». Per poter meglio inquadrare questa ipotesi, vale la pena ricordare che Hobbes era divertito dal fatto che sua madre lo avesse partorito prematuramente sotto l'effetto della paura dei fulmini. Nato dalla paura, logicamente, egli vedeva nella vita solo la paura della morte. «Questo era un suo problema», si potrebbe dire. Non si è obbligati a riconoscere questa visione malata come la base della sua esistenza, e men che mai di ogni esistenza. L'economia, che sia liberale o marxista, di destra o di sinistra, diretta o regolata, è proprio questa malattia che propone come formula per la salute generale. In questo, è davvero una religione.
Come ha osservato l'amico Hocart, fondamentalmente non c'è niente che distingua il presidente di una nazione «moderna» da un capo tribù delle isole del Pacifico o da un sovrano pontificio a Roma. Si tratta sempre e comunque di compiere tutti i riti propiziatori che siano in grado di attirare prosperità alla comunità, placare gli dei, risparmiarci le loro ire, assicurare l'unità ed impedire che le persone si disperdano. «La sua ragion d'essere non è quella di coordinare, bensì quella di presiedere il rituale» (Re e cortigiani): non si tratta di comprendere ciò che costituisce l'incurabile imbecillità dei leader contemporanei. Una cosa è attrarre la prosperità, un'altra è gestire l'economia. Una cosa è compiere dei rituali, un'altra è governare la vita delle persone. Quanto il potere sia di natura puramente liturgica, è sufficientemente dimostrato dalla profonda inutilità, se non dall'attività essenzialmente controproducente, degli attuali governanti, i quali riescono a vedere la situazione solo come un'inaudita occasione di estendere smisuratamente le loro prerogative, ed assicurarsi così che nessuno venga a prendere quello che è il loro misero posto. Di fronte alle calamità che si abbattono su di noi, i leader della religione economica devono davvero essere proprio gli ultimi dei babbei in materia di riti propiziatori, e quella religione non deve essere altra che una dannazione infernale.
Ci troviamo perciò davanti ad un crocevia: o salviamo l'economia o salviamo noi stessi; o usciamo dall'economia o ci lasciamo arruolare nel "grande esercito delle tenebre" di quelli che sono stati sacrificati (quella che è la retorica del momento, molto 1914-1918, non lascia molti dubi in proposito). La scelta è fra l'economia e la vita. E dal momento che ci troviamo davanti ad una religione, è proprio di uno scisma che stiamo parlando. Dovunque, sono stati decretati gli stati di emergenza, dove sono all'opera l'estensione delle misure di polizia e di controllo della popolazione, la soppressione di ogni limite allo sfruttamento, la decisione sovrana riguardo chi viene lasciato vivere e chi è autorizzato a morire, la disinibita apologia del governo cinese, non mirano a garantire nel presente la «salvezza della popolazione», ma preparano il terreno per una sanguinoso «ritorno alla normalità», o meglio all'instaurazione di una normalità ancora più anomica di quella prevalente nel mondo precedente. In tal senso, per una volta, i leader non stanno mentendo: il futuro è già qui, adesso. [...]
I governanti attuali sanno benissimo che nel giorno dello sconfinamento non avremo altro desiderio che quello di veder cadere le loro teste, e perciò faranno tutto il possibile per evitare che un tale giorno arrivi, diversificando, controllando e differenziando l'uscita dal confinamento. Sta a noi decidere questo momento e le sue condizioni. Sta a noi dare forma al dopo. Sta a noi tracciare la strada che sia tecnicamente ed umanamente praticabile per poter uscire dall'economia. «Ci alziamo e usciamo», non è poi passato così tanto tempo da quando diceva così una disertrice di Gouncurt. O per citare un'economista che cercava di disintossicarsi dalla religione: «l'avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano» (Keynes, da "Prospettive economiche per i nostri nipoti" [può essere letto qui per intero])
- pubblicato su lundimatin, 30 marzo 2020 -
fonte: Lundimatin
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