mercoledì 1 aprile 2020

Guerra e Pandemia

Un'economia di guerra?
- di Michael Roberts -

Se le pandemie fossero uguali in tutti i paesi, l'immagine che vediamo qui sopra ci indicherebbe il modo in cui finirà questa, di pandemia. In tutti i paesi il coefficiente che indica la relazione tra inizio e fine dell'infezione sarebbe di 40-50 giorni. Ma molti paesi ancora non sono nemmeno vicini al punto di picco, e non c'è alcuna garanzia che il picco ci sarà nello stesso momento, visto che i metodi di limitazione e prevenzione (analisi, autoisolamento, quarantena e lockdown) funzionano diversamente. Ma alla fine ci sarà un picco ovunque, e la pandemia si attenuerà, anche se lo farà solo per tornare l'anno successivo, forse. Ciò che appare chiaro è che il blocco che sta avendo luogo in così tante economie maggiori provocherà un enorme crollo della produzione, degli investimenti e dei redditi nella maggior parte di queste economie. L'OCSE riassume meglio quale sia il quadro. L'effetto che avrà l'impatto dovuto alla chiusura delle attività potrebbe causare una riduzione del 15%, o più di quello che è il livello di produzione in tutte le economie avanzate, e nelle principali economie dei mercati emergenti. Nell'economia centrale, la produzione diminuirebbe del 25%... «Per ogni mese di contenimento, ci sarà una perdita di 2 punti percentuali nella crescita annuale del PIL».

Rileggendo il mio libro, "The Long Depression", ho scoperto che la perdita di PIL, nelle maggiori economie, dall'inizio della Grande Recessione del 2008, attraverso i 18 mesi che ci hanno portato a metà del 2009, è stata superiore al 6% del PIL.  In quel periodo, il PIL reale globale è sceso di circa il 3,5%, mentre le cosiddette economie dei mercati emergenti non hanno avuto nessuna contrazione (dal momento che la Cina ha continuato ad espandersi). In questa pandemia, se le principali economie rimangono bloccate per due mesi, e forse più (il blocco di Wuhan, in Cina, non verrà revocato fino alla prossima settimana; di modo che si parla di più di due mesi), allora è probabile che il PIL globale si contrarrà più di quanto ha fatto nella Grande Recessione. Naturalmente, la speranza sarebbe che il blocco sia di breve durata. Come ha detto il segretario generale dell'OCSE, Gurria: «non sappiamo quanto tempo ci vorrà per porre rimedio alla disoccupazione e alla chiusura di milioni di piccole aziende; ma parlare di una ripresa rapida è solo un pio desiderio». Chiaramente, l'idea del presidente Trump secondo cui l'America possa tornare a lavorare a partire dalla domenica di Pasqua non è realistica. Tuttavia, nella speranza che i blocchi siano di breve durata e partire dal fatto che non ci sia altra scelta per poter sopprimere la pandemia, i governi pro-capitalisti hanno fatto tutto ciò che era possibile per evitare il peggio per le loro economie. La prima priorità è stata quella di salvare le attività capitalistiche, soprattutto per le grandi imprese. Perciò le banche centrali hanno ridotto a zero, se non ancora a meno, i loro tassi di interesse; e sono stati annunciati miriadi di agevolazioni creditizie e di programmi di acquisto di obbligazioni, al cui confronto i salvataggi e le misure di quantative easing degli ultimi dieci anni impallidiscono. I governi hanno annunciati garanzie su prestiti e sovvenzioni per le imprese per un ammontare mai visto prima. Globalmente, ho calcolato che i governi hanno annunciato pacchetti di «stimolo» fiscale per un importo pari a circa il 4% del PIL, più un altro 5% di PIL in garanzie del credito e dei prestiti al settore capitalistico. Per la Grande Recessione, i salvataggi fiscali erano arrivati solo al 2% del PIL mondiale.

Se prendiamo il pacchetto di 2 trilioni di dollari concordato dal Congresso degli Stati Uniti, assai superiore a quello stanziato nel corso del disastro finanziario del 2008-9, vediamo che due terzi di esso andranno in rifinanziamenti in contanti ed in prestiti non ripagabili per le grandi imprese (compagnie di viaggio, ecc.) e per le aziende più piccole, ma solo un terzo per aiutare a sopravvivere quei milioni di salariati e di lavoratori autonomi per mezzo di un elemosina in contanti e attraverso il differimento delle imposte. Lo stesso avviene nel Regno Unito e in Europa con i pacchetti pandemici: per prima cosa, salvare le attività capitalistiche; e poi, in secondo luogo, fare sopravvivere la popolazione che lavora.Sono previsti contributi per i lavoratori licenziati e per i lavoratori autonomi, solo per due mesi, e in molti casi le persone non riceveranno denaro contante per settimane, se non addirittura per mesi. Pertanto, queste misure sono ben lontane dal dare un sostegno sufficiente per quei milioni di persone che sono già state bloccate o che si sono viste licenziate dalle loro aziende .

È ingenuità, se non davvero ignoranza, quella di economisti premi Nobel, come Joseph Stiglitz, Chris Pissarides o Adam Posen, che elogiano schemi come quelli del governo britannico solo perché sarebbe «più generoso» di quello statunitense. «Il Regno Unito ha il merito di avere realmente invertito la sua austerità, e di essere molto ambizioso e coerente», ha detto Posen che è stato un policy-maker della Bank of England (BOE) ai tempi della crisi finanziaria. «La lista dei desideri, in termini di progetti, di dimensioni, di contenuto e di coordinamento; è tutto fantastico». In questo modo, l'inglese arci-keynesiano Will Sutton ha riassunto un simile umore: «è stato attraversato un Rubicone. Il Keynesismo  è stato rimesso a quello che deve essere il suo posto nella vita pubblica britannica». Anche i vecchi sostenitori dell'austerity si sono uniti a questo coro di elogi, incluso l'ex cancelliere del Regno Unito, George Osborne. L'opinione pubblica inglese e americana sembra anche essere convinta che i pacchetti siano generosi, visto che gli ultimi sondaggi suggeriscono una ripresa di consensi a sostegno del bugiardo Presidente Trump e del «Operazione Ultimo Respiro» Primo Ministro Johnson. Sembra che durante la crisi, ovunque, quelli che sono i governanti in carica abbiano guadagnato sostegno. Ma la cosa potrebbe non durare, ad ogni modo, se il blocco continuerà e la recessione comincerà a farsi sentire. La realtà è che il denaro che va ai lavoratori, se paragonato a quello per le grandi imprese, è minimo. Per esempio, il pacchetto del Regno Unito offre un 80% di quello che è il salario per i dipendenti e delle entrate per i lavoratori autonomi. Ma in realtà questo non è altro che la solita indennità di disoccupazione che in Europa viene offerta da molti governi. Il Regno Unito aveva un indice di indennità molto basso, che ora è stato portato alla media europea, e questo è stato fatto tra l'altro solo per pochi mesi. E ciò nonostante ci saranno milioni di persone che non ne usufruiranno. Inoltre, nessuna di queste misure eviterà la recessione, e non saranno sufficienti a ripristinare la crescita e l'occupazione nella maggior parte delle economie capitaliste nel corso del prossimo anno. È perfino possibile che questa recessione pandemica non possa avere una ripresa a forma di V, come sperano la maggior parte delle previsioni tradizionali. È assai più probabile una ripresa a forma di U (cioè una recessione che duri un anno o due). E c'è inoltre il rischio di una ripresa molto molto lenta, che somiglia più che altro ad una L curva, come fino ad adesso ha cominciato ad apparire in Cina.

In realtà, l'economia mainstream non sa che pesci pigliare. Il punto di vista keynesiano, ci viene offerto da Lord Skildesky, biografo di Keynes. Skildesky ha evidenziato come i blocchi siano l’opposto di quello che è il tipico problema keynesiano della «carenza di domanda». In effetti, si tratta di un problema di carenza di offerta, dal momento che la più parte dei lavoratori produttivi ha smesso di lavorare. Ma Skildesky non la vede in questo modo. Quello che vediamo, ritiene che non sia un «collasso dell'offerta» ma piuttosto un «eccesso di domanda». Ma l’«eccesso di domanda» è lo specchio della «scarsa offerta». Il problema è da dove cominciare: sicuramente tutto inizia a partire dalla perdita di produzione e di creazione di valore, e non dall'«eccesso di domanda». Skildesky ci dice che «normalmente, una recessione viene innescata da un fallimento bancario o da un crollo della fiducia nelle imprese. La produzione si blocca, i lavoratori vengono licenziati, il potere di acquisto diminuisce e la recessione si diffonde a partire da riduzione multipla della spesa. L'offerta e la domanda precipitano insieme, fino a che l'economia non si stabilizza ad un livello più basso. In simili circostanze, Keynes ha detto che la spesa pubblica dovrebbe aumentare per compensare la caduta della spesa privata».
Chi legge il mio blog, sa bene che a mio avviso, mentre una recessione può essere «innescata» da un fallimento bancario o da «un crollo della fiducia nelle imprese», questi fattori scatenanti non sono la causa soggiacente a quelle che sono le crisi ricorrenti nel capitalismo. Perché a volte i fallimenti bancari non causano una recessione e perché improvvisamente avviene un crollo della fiducia nelle imprese? La teoria keynesiana non è in grado di rispondere. Skildesky continua dicendo che se la crisi è una crisi di «eccesso di domanda», allora dobbiamo ridurre la domanda fino a che essa incontri l'offerta! Io penserei che piuttosto sarebbe meglio uscire da questa recessione aumentando la produzione fino a che essa non incontri la domanda, ma andiamo avanti. Skildesky precisa che «non è che le imprese vogliono produrre meno.  Sono costrette a produrre meno perché ad una parte della loro forza lavoro viene impedito di lavorare. L'effetto economico è simile a quello esercitato dalla coscrizione in tempo di guerra, quando una parte della forza lavoro viene sottratta alla produzione civile. La produzione di beni civili diminuisce, ma la domanda complessiva rimane la stessa: semplicemente, essa viene redistribuita, dai lavoratori che producono beni civili ai lavoratori arruolati nell'esercito o riallocati per produrre munizioni. Cosa accade oggi, verrà determinato a partire da quello che accade al potere di acquisto di coloro che sono costretti a rimanere inattivi». Davvero? Nell'economia di guerra, tutti quanti lavorano ancora - infatti, durante la seconda guerra mondiale, c'era davvero la piena occupazione, nella misura in cui veniva spinta la macchina bellica. Attualmente, oggi, nel giro di pochi trimestri  ci stiamo dirigendo verso quello che è il più grande incremento della disoccupazione, che ci sia mai stato in tutta la storia economica. Questa non è un'economia di guerra. Skildesky ci ricorda che la soluzione di Keynes riguardo all'«eccesso di domanda» nell'economia di guerra, è stata quella di proporre un aumento della tassazione. «Nel suo pamphlet, "Come pagare per la guerra" (1940), ha detto che il consumo civile deve essere ridotto per liberare risorse per il consumo militare. Senza un incremento del risparmio volontario, c'erano solo due modi per poter ridurre il consumo civile: o l'inflazione, o tasse più alte».
«La soluzione, che lui ed il Tesoro avevano trovato insieme, era quella di aumentare l'aliquota standard dell'imposta sul reddito fino al 50%, insieme ad un'aliquota marginale massima del 97,5%, ed abbassare contemporaneamente la soglia per il pagamento delle imposte. Quest'ultima misura avrebbe portato 3,25 milioni di contribuenti extra nella rete della tassa sul reddito. Avrebbero pagato tutti, l'aumento delle tasse richiesto dallo sforzo bellico, ma il pagamento delle tasse da parte di 3 milioni di persone sarebbe stato rimborsato dopo la guerra, sotto forma di crediti di imposta. Ci sarebbe stato anche un razionamento di quelli che esano i beni essenziali». Wow! Perciò, la risposta di Skildesky all'attuale recessione è quella di aumentare le tasse, anche per quelli che si trovano in fondo alla scala dei redditi, in modo da poter loro impedire di spendere troppo e causare inflazione! Egli finisce dicendo che la pandemia «dovrebbe rendere più profonda quella che è la nostra comprensione di cosa significa essere keynesiani». E certo!
La situazione attuale non è quella di un'economia di guerra, come dice James Meadway. Quando colpì la pandemia di quella che venne chiamata "Spagnola", ci trovavamo proprio alla fine della prime guerra mondiale. Quella pandemia, negli Stati Uniti causò 675.000 decessi, ed almeno 50 milioni di morti in tutto il mondo. L'influenza non distrusse l'economia statunitense. Nel 1918, l'anno in cui i decessi per l'influenza raggiunsero il culmine negli Stati Uniti, i fallimenti commerciali furono mena della metà di quelli prebellici, e nel 1919 furono ancora meno (si veda il grafico). Spinto dallo sforzo produttivo, nel 1918 il PIL reale degli Stati Uniti aumentò del 9%, e di circa l'1% l'anno successivo, anche quando infuriava l'influenza.

Naturalmente, allora non ci fu alcun blocco, e le persone vennero lasciate semplicemente a vivere o a morire. Ma il punto è che, una volta finito l'attuale blocco pandemico, quello di cui c'è bisogno per rilanciare la produzione, gli investimenti e l'occupazione, è proprio qualcosa che somiglia all'economia di guerra; non un salvataggio delle grandi aziende per mezzo di sovvenzioni e prestiti, cosicché loro possono tornare alla solita routine. Questa recessione può essere invertita solo attraverso misure simili a quelle belliche, vale a dire, massicci investimenti pubblici, proprietà pubblica dei settori strategici e direzione statale di quelli che sono i settori produttivi dell'economia. Ricordate, ancor prima che il virus colpisse l'economia globale, c'erano molte economie capitalistiche che stavano rallentando velocemente, o che si trovavano già in piena recessione. Negli Stati Uniti, una delle economie con i migliori risultati, la crescita reale del PIL nel quarto trimestre dello scorso anno era scesa sotto il 2% annuale, con previsioni di un ulteriore rallentamento quest'anno. Gli investimenti delle imprese erano stagnanti, e gli utili non finanziari delle imprese continuavano a calare da 5 anni. Il settore capitalista non era, e non è in grado di guidare una ripresa economica che possa riportare alla piena occupazione e all'aumento dei redditi reali. Ciò richiede che a guidare sia il settore pubblico.
Andrew Bossie e J.W. Mason hanno appena pubblicato un documento esplicativo su quella che è stata l'esperienza del settore pubblico dell'economia statunitense in tempo di guerra. Ci mostrano come, tanto per cominciare, l'amministrazione  Roosevelt abbia offerto al settore capitalistico ogni sorta di garanzie sui prestiti, sugli incentivi fiscali, ecc.. Ma era ben presto diventato chiaro che il settore capitalistico non avrebbe potuto essere in grado di svolgere il compito di portare a termine lo sforzo bellico, dal momento che non avrebbe investito, o incrementato quelle che erano le capacità, senza garanzie di profitto. Ecco che così ebbe il sopravvento l'investimento pubblico diretto e venne imposta la direzione esercitata dal governo. Bossie e Mason hanno scoperto che a fronte di una crescita del PIL dall'8 al 10% , durante gli anni '30, la spesa federale dal 1942 al 1945 crebbe ad una media di circa il 40% del PIL. E cosa ancora più significativa, durante la guerra, la spesa per i contratti sui beni e sui servizi è stata in media del 23%. Attualmente, nella maggior parte delle economie capitalistiche, gli investimenti del settore pubblico corrispondono a circa il 3% del PIL, mentre gli investimenti del settore capitalistico sono superiori al 15%. Durante la guerra, tale rapporto era rovesciato. Ho mostrato gli stessi risultati in un mio post del 2012. Cito da quel post: «Ciò che è avvenuto, è stato un massiccio aumento negli investimenti governativi e nella spesa pubblica. Nel 1940, gli investimenti del settore privato erano ancora al di sotto del livello del 1929, e durante la guerra sono ancora ulteriormente calati. In questo modo il settore statale si è impadronito di quasi tutti gli investimenti, dal momento che le risorse (valore) sono state dirottate verso la produzione di armi ed altre misure di sicurezza nel contesto dell'economia di guerra». Keynes stesso, ha detto che l'economia di guerra ha dimostrato che «Sembra politicamente impossibile per una democrazia capitalistica organizzare le spese su una scala necessaria a poter fare grandi esperimenti per dimostrare la mia tesi; eccetto che in condizioni di guerra».

L'economia di guerra non ha stimolato il settore privato, ma ha sostituito il «libero mercato» e gli investimenti capitalisti per il profitto. Per poter organizzare l'economia di guerra ed assicurare che produca i beni necessari alla guerra, il governo Roosevelt diede vita a tutta una serie di agenzie di mobilitazione che non solo spesso acquistavano beni, ma che ne dirigevano direttamente da vicino la produzione, ed influenzavano pesantemente il funzionamento delle compagnie private e di intere industrie. Bossie e Mason concludono che: «tanto più, e più velocemente, l'economia ha bisogno di cambiare, tanta più pianificazione è necessaria. Assai più che in qualsiasi altro periodo della storia americana, l'economia in tempo di guerra è stata un'economia pianificata. Il massiccio e rapido passaggio dalla produzione civile alla produzione militare, richiedeva una direzione assai più responsabile rispetto a quella di un normale processo di crescita economica. Anche la risposta nazionale al coronavirus e la transizione e la conversione dal carbonio richiederanno anch'esse un grado di pianificazione da parte del governo, assai più alto del normale». Ciò che la storia della Grande Depressione e della guerra ha dimostrato, è che, una volta che il capitalismo si trova nello sprofondo di una lunga depressione, allora deve avvenire una profonda distruzione che rada al suolo tutto ciò che il capitalismo aveva accumulato nei decenni precedenti, prima che diventi possibile una nuova era di espansione. Non c'è politica che possa evitarlo e che possa preservare da questo il settore capitalistico. Se questa volta ciò non dovesse avvenire, allora la Lunga Depressione che l'economia globale capitalistica ha subito a partire dalla Grande Recessione potrebbe entrare in un nuovo decennio. Le maggiori economie (lasciamo perdere le cosiddette economie emergenti) lotteranno per poter uscire da questa enorme recessione a meno che la legge del mercato  e del valore non venga sostituita dalla proprietà pubblica, dagli investimenti e dalla pianificazione, utilizzando tutte le competenze e tutte le risorse delle persone che lavorano. È questo che questa pandemia ci ha mostrato.

- Michael RobertsPubblicato il 30/3/2020 su Michael Roberts Blog -

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