Peste e Rabbia
- di Charles Reeve -
Come possiamo incrociare e fare entrare in risonanza le riflessioni sullo strano e singolare periodo in cui viviamo? Un periodo che, a causa del suo lato tragico, mostra in rilievo evidenziandole le debolezze e i limiti del sistema capitalista globalizzato che, solo ieri, venivano viste come se fossero espressione della sua forza e del suo potere.
Sottoposti a un discorso tossico, come in un loop, siamo bloccati nel presente da un'atmosfera ansiogena, impotenti a causa del nostro stesso isolamento. Ci sentiamo come minacciati in un mondo in cui qualsiasi oggetto o individuo viene percepito come ostile, come causa di morte. Le relazioni umane stesse vengono minate dal pericolo. Le statistiche e le curve degli «specialisti» della morte vengono seguite come quelle del mercato azionario, sommergendoci e sopraffacendoci; vengono ad aggiungersi alle spiegazioni complottistiche, alle speculazioni e alle presunte certezze che vorrebbero rassicurarci. È in una tale magma che lo spirito critico si deve aprire una strada. Solo cercando di esercitarlo, riusciremo a raggiungere l'unica via d'uscita verso l'aria libera e a superare così la rassegnazione del pensiero di fronte alla paura.
Sembrava che la rimozione dell'idea della morte fosse ben consolidata ormai nelle società ricche, cancellata dal culto del benessere e dal mito del progresso, dell'individuo che domina la natura. Ora, la tempesta del progresso non è altro che la distruzione di ciò che è vivente; qualcosa che era già temuto, anche un secolo fa, dai nemici dell'ideologia produttivistica, tra cui Walter Benjamin e altri emancipatori «pessimisti».
La fragilità della vita e della società era stata scaricata sui popoli della povertà, in quei territori colpiti incessantemente dalla barbarie bellica, in quelle società che rimanevano in attesa dei frutto di questo terribile progresso. La produzione di morte era diventata un'immagine consumabile, fonte di rivolta, certo, ma tuttavia lontana. Il consolidarsi del senso di sicurezza non aveva mai smesso di essere rafforzato dai muri della repressione e della xenofobia delle società ricche. L'immagine del rifugiato, le decine di migliaia di persone annegate nel Mediterraneo, stava lì a ricordarcelo ogni giorno che passava. Poi, senza alcun preavviso, il virus ha eluso i controlli di polizia, i muri e le frontiere. Alla fine ha preso quella che è la strada più moderna e la più facile, quella della circolazione commerciale delle merci e degli uomini, e anche quella che - ironia del presente - si era travestita da svago, da tempo libero, da turismo di massa. « Sempre più lontano, sempre più veloce, sempre più niente ! », recitava un graffito anarchico, tratteggiato sui muri di una grande città. Ecco, ci siamo: piombati nel niente. Tutto questo lo sapevamo già, eravamo stati avvertiti, stavamo andando a sbattere contro un muro. Stavolta, ci siamo: siamo andati dritti contro il muro! Lo scontro frontale ci ha stordito e ci paralizza. Eppure, ancora una volta nell'esperienza storica, è solamente prefiggendosi degli obiettivi di portata enorme che si può tentare di strapparci dalla paralisi e dalle paure, che possiamo riuscire ad attraversare questo periodo sorprendentemente strano.
Siamo usciti dalla normalità, quella normalità del capitalismo che rifiutavamo ma che alla quale eravamo comunque obbligati a sottometterci, talvolta anche al di là della nostra coscienza. Ecco, forse quello che è un primo forte insegnamento di tutto questo: noi facciamo tutti e tutte parte del sistema, al di là delle idee di rottura che possiamo condividere, al di là delle pratiche fuori dall'ordinario che possiamo sperimentare. Ma una tale uscita dalla normalità non è quella che abbiamo potuto vivere in altri momenti della storia, la rottura del tempo del capitalismo e il passaggio ad un altro tempo prodotto dall'attività sovversiva della collettività. Quello che stiamo vivendo oggi è un tempo sospeso che ci viene imposto, che non è il risultato di un'azione autonoma di opposizione al mondo. Questa stranezza è sicuramente una delle cause della nostra angoscia. Viviamo un'esperienza nuova che non poteva essere prevedibile in questa forma: « lo sciopero generale del virus », tanto per usare la formula appropriata che è stata enunciata da qualche parte. Il blocco del business as usual è stato fatto senza di noi, fuori da quegli schemi a noi noti che avevamo sempre immaginato, desiderato, e per i quali abbiamo combattuto. È uno sciopero generale di massa senza «masse» o, peggio ancora, senza la forza collettiva della sovversione. Probabilmente, sarebbe giusto dire che stiamo vivendo una prima scossa che preannuncia altre, in un processo di collasso generare di quella che è una società organizzata per perseguire il fine distruttore del profitto. Questo collasso, in quanto estraneo ad ogni consapevole azione collettiva, non è portatore di un mondo nuovo, di un progetto di riorganizzazione della società su basi nuove. Rimane sempre una creazione del capitalismo, nei limiti della sua barbarie, senza alcuna prospettiva se non quella del collasso. Finisce qui ogni somiglianza con lo sciopero generale, che era la creazione di una collettività che si riappropria della sua forza.
Tuttavia, lo shock che ci colpisce, che preannuncia una serie di rotture nell'ordine mondiale, non è estraneo al funzionamento del sistema sociale in cui viviamo, né può essere dissociato dalle sue contraddizioni. I recenti sviluppi della globalizzazione del capitalismo, l'accelerazione degli scambi, la concentrazione e la rapida e gigantesca urbanizzazione delle popolazioni hanno accelerato lo sconvolgimento ecologico, distrutto la fragile riproduzione del mondo vegetale, del mondo animale e di quello umano, abbattendo le ultime barriere esistenti tra tali mondi. L'avvento del capitalismo globale non ha coinciso affatto con la preannunciata fine della storia, ma ha inaugurato una nuova epoca di epidemie sempre più frequenti e ravvicinate nel tempo. Dopo l'influenza aviaria, dopo la SARS, c'era da temere l'arrivo imminente di una nuova epidemia, era pressoché prevedibile. Eppure la logica del profitto del modo di produzione capitalistico ha continuato per la sua strada, senza pietà, e il freno a cui si fa riferimento nel « Monologo del virus » non è stato azionato; avrebbe potuto essere tirato solo da delle forze sociali in opposizione a questa logica e che faticano a costituirsi. Le conseguenze di una tale logica, e dell'incapacità di bloccarla si trovano davanti a noi. Questa, mi sembra possa essere uno spunto di riflessione: quello di non separare la crisi virale dalla natura del sistema. Bisogna opporsi alla tentazione di facili spiegazioni che si accontentano di adattarsi ai limiti dell'esistente, e che nascondono malamente l'intenzione di far ripartire la macchina. Un buon esempio in tal senso è quello dei deliri complottisti di ogni sorta, tra i quali il seducente «virus creato in laboratorio». Ma anche se sappiamo che la guerra biologica fa parte dei progetti criminali delle classi dirigenti, se la disorganizzazione e l'incidente sono inerenti ad ogni burocrazia, militare o di altro tipo, il fatto è che la visione complottista ignora e trascura la logica mortifera del modo di produzione capitalistico. La spiegazione più inverosimile appare come se fosse la più ovvia. Questo virus è stato davvero fabbricato, ma non da dei poteri occulti, bensì dal processo distruttivo del capitalismo moderno.
È abbastanza evidente che le misure di confinamento e di privazione delle libertà sociali ed individuali pongono in evidenza quelle che sono le relazioni di classe. Ancora una volta, stavolta in maniera macabra, l'uguaglianza formale svanisce di fronte alla palese disuguaglianza sociale. Una disuguaglianza che viene accelerata dalla crisi virale. Ma la crisi virale rivela anche quella che è la natura del capitalismo moderno, le sue contraddizioni. La realtà della vita quotidiana stravolta è ormai quella del collasso dei sistemi finanziari, del crolla dei mercati azionari, della precarietà generalizzata del lavoro salariato, del vertiginoso aumento della disoccupazioni, di un impoverimento di massa. Una boccata d'aria fresca: gli «economisti», i quali avevano relegato in fondo al cassetto degli oggetti superflui gli imbarazzanti concetti dello squilibrio del sistema, sono praticamente spariti, confusi da quello che non si aspettavano e rimasti a corto di previsioni. Mentre milioni di disoccupati vanno ad aggiungersi alle migliaia di morti provocati dalla pandemia, vediamo fortune gigantesche che sgomitano per trovare protezione tra le braccio dei loro Stati. Riparte la stampa di denaro e l'inflazione, che ci era stato detto che apparteneva al passato, rifà la sua comparsa. La conseguenza si annuncia già come una seconda scossa del collasso. Né può sorprendere il fatto che l'epidemia di Covid-19 e quelle che l'hanno preceduta siano state generate in una Cina diventata la fabbrica del mondo, in un territorio in preda ad una distruzione selvaggia, rapida e massiccia della natura. La Cina, fabbrica del mondo, è una produttrice di virus allo stesso modo in cui produce mascherine, apparecchiature di assistenza respiratoria, antidolorifici, ecc. Si tratta di un insieme.
A partire da quella che è la sua ampiezza globale, planetaria, la contaminazione virale ha portato assai rapidamente ad un blocco del commercio e ad un crollo dell'economia. Una crisi ne innesca un'altra. Ciascuna rimanda all'altra, ognuna si intreccia con l'altra. Oramai, tutto è globale. E, nello spazio di un paio di settimane, ciò che era a malapena concepibile è diventato realtà: solo negli Stati Uniti d'America, in quello che è uno dei centri della macchina infernale, ci sono più di dieci milioni di lavoratori che dall'oggi al domani si sono ritrovati disoccupati.
Tra le domande che ci poniamo, che ci inquietano, c'è quella della risposta dei poteri politici sul terreno dei diritti formali, di queste costrizioni liberticide che sconvolgono il quadro giuridico della nostra esistenza. La prospettiva di adottare il «modello cinese» come riferimento in termini di stato di emergenza si è ben presto delineato nelle società europee per poi concretizzarsi nell'adozione di metodi, di tecniche repressive e di controllo della vita quotidiana. A tutto ciò, si sono aggiunte delle deroghe per mettere in discussione il diritto del lavoro. In alcuni paesi, come il Portogallo, il governo socialista è arrivato al punto di sospendere il diritto di sciopero, permettendo allo Stato di «avere i mezzi legali per obbligare le imprese a funzionare» [*1]. Abbiamo, per esperienza, motivo di temere che queste forme di stato di emergenza possano, una volta superata la crisi virale, essere «riversate nel diritto comune», se vogliamo riprendere la banale formula del «journal de tous les pouvoirs» [N.d.T.: Il quotidiano Le Monde]. Tanto più che questa «fine», il famoso «de-confinamento», rischia di essere lento e prolungato. L'urgenza - già proclamata da tutte le forze politiche - di un necessario ritorno al «business as usual» giustificherà senza dubbio il perpetuarsi di «costrizioni liberticide». Un nuovo quadro giuridico per quelle che saranno delle nuove forme di sfruttamento. Ciò vuol dire che l'unica opposizione a questo nuovo stato di diritto autoritario sarà indissociabile dalla capacità collettiva di opporsi alla riproduzione della logica produttiva della distruzione del mondo che ci ha condotto nella situazione in cui ci troviamo.
Stando così le cose, rimane ineludibile la questione di sapere se il capitalismo, sistema complesso, potente e capace di inaspettati colpi di scena possa adeguarsi, alla lunga, ad un funzionamento sociale regolato da delle misure e dei vincoli liberticidi estremi. Dall'esperienza storica, uno stato di emergenza è compatibile con la riproduzione di rapporti di sfruttamento e con il perseguimento della produzione di profitto, con un forte intervento dello Stato. Non è un caso che uno dei grandi teorici dello «stato di emergenza», Carl Schmitt, sia stato un abile ammiratore dell'ordine nazista, ed abbia fornito il quadro giuridico di una società moderna in Europa, per una decina d'anni, al prezzo di orrori terrificanti. Più vicino a noi, è indiscutibile che l'ordine totalitario ereditato dal maoismo abbia saputo creare un regime in grado di edificare una moderna potenza capitalistica, in seno alla quale l'esplosione delle disuguaglianze sociale e la crescita del conflitto di classe, siano stati finora superati per mezzo di misure dispotiche. Un'altra cosa è l'applicazione di questo modello alle società del vecchio capitalismo prevalentemente privato, in cui lo Stato deve regolare, attraverso la cogestione con le «parti sociali», tutto l'insieme delle relazioni sociali. Quantomeno in linea di principio, dal momento che è vero cha la direzione degli affari economici e pubblici avviene in maniera più autoritaria nelle attuali forme del capitalismo liberale. La tendenza era evidente già prima della pandemia e del prevedibile crollo dell'economia. L'evoluzione del capitalismo, la sua crisi di redditività e la necessità di massimizzare i profitti aveva progressivamente finito per ridurre lo spazio per la negoziazione e la cogestione, fondamento del consenso alla democrazia rappresentativa e alle sue organizzazioni. La crisi della rappresentatività politica in cui viviamo da anni ne è stata la conseguenza immediata.
Ciò detto, possiamo domandarci se l'attuazione di queste misure liberticide sia legata ad un progetto cosciente del potere di costruire in maniera durevole, e basandosi su un'accettazione altrettanto duratura, uno stato di emergenza permanente. Oppure se l'adozione di queste misure non sia la sola risposta di cui dispone la classe politica per poter affrontare le conseguenze sociali della pandemia?
Come in ogni crisi, la classe dirigente deve destreggiarsi tra l'idea della difesa dell'interesse generale, che è alla base della sua egemonia ideologica, e quella che è la sua subordinazione ai veri committenti, la classe capitalista. In ogni situazione problematica, l'unico piano B disponibile è quello di un rafforzamento dell'autoritarismo, di un maggior ricorso alla paura in quanto modo di governare. Nell'attuale periodo, la portata delle costrizioni richieste dall'ampiezza della crisi virale globale pone, in ultima analisi, il problema di una paralisi del sistema produttivo in sé. Per adesso, il rallentamento dell'economia è solo al suo inizio e la continuazione della vita sociale dimostra in maniera indiscutibile quale sia la ricchezza e la potenza delle moderne società capitalistiche. Se le misure di blocco dovessero essere prolungate, si richiederebbe di assistere al collasso della macchia economica. Tuttavia, la rapida transizione, avvenuta in pochi giorni, da uno stato di stagnazione economica a quello di una vertiginosa recessione, con milioni di disoccupati, è un segno della fragilità dell'intero edificio. Ciò spiega la riluttanza di una parte della classe dirigente ad adottare delle misure di stato di emergenza sanitaria.
I discorsi contro il liberticidio sono giustificati, in quanto ci mettono in guardia contro la perdita dei diritti già abbastanza esigui. Ciononostante, e tenuto conto degli effetti disastrosi che queste misure eccezionali possono avere sugli squilibri della «loro» economia, si può considerare il fatto che i sistemi politici che le adottino, non tanto con lo scopo primario di dominare la maggioranza della popolazione, di sottomettere gli sfruttati a delle nuove condizioni di sfruttamento ma, innanzitutto, perché si trovano costretti a farlo dalle circostanze, a partire da una situazione che sfugge loro di mano. Sicuramente, le classi dirigenti sanno fare un buon uso di quelle che sono le misure dello stato di emergenza, approfittandone per accelerare lo smantellamento dei diritti cosiddetti «fondamentali», per trasformare così lo stato di diritto. Nondimeno, ci sono dei fatti che mostrano quale sia l'ambiguità della situazione. Le medesime classi politiche - in Europa e anche altrove, in quei paesi in cui l'equilibrio sociale è fragile - si vedono costrette a rimettere in discussione gli orientamenti e le decisioni prese in precedenza. Un esempio è quello della sospensione in Francia della detestata «riforma delle pensioni» e della «riforma dei diritti dei disoccupati», così come il timido progetto di liberazione di alcune categorie di detenuti, in Francia, negli Stati Uniti, in Marocco e altrove. Ciò significherebbe sopravvalutare la loro funzione, e perfino la loro intelligenza di classe, e ritenere che a dominare la situazione siano i leader, e che essi siano capaci di essere in grado di andare oltre quelle che sono delle misure per salvaguardare le leggi del profitto. Sono queste leggi, a guidare la loro iniziativa politica. Nell'attuale situazione di crisi sanitaria, la necessita di attuare il confinamento delle popolazioni, sembra essere stato il solo modo per tentare di evitare una situazione di disastro sociale ed economico. La popolazione viene confinata, non per affermare il dominio sociale ma come unico modo per poter decongestionare una servizio sanitario pubblico ridotto a brandelli, come conseguenza della scelta dell'austerità. Nel voler dimostrare di saper padroneggiare la situazione, il sistema politico cerca di nascondere quali sono le sue responsabilità nel disastro sanitario. Cerca di negare il suo fallimento dal punto di vista della difesa del famoso «interesse generale». Con un effetto perverso, il progressivo blocco dell'economia, dovuto a queste misure, indebolisce la governance.
Non c'è niente che garantisca che, e in che modo, l'uscita dal «confinamento» possa avvenire nella forma di un armonioso ritorno a quella che era la riproduzione del passato. È tale, senza dubbio, il progetto dei signori del profitto e dei loro servitori politici. Tutti quanti loro rischiano di trovarsi davanti all'uscita dallo stato di emergenza ancora più deboli di quanto non fossero prima che cominciasse la crisi. E con in più un'altra emergenza, quella di un crisi sociale generalizzata. La crisi del capitalismo sarà il secondo episodio della crisi virale. Ciò perché, da ora in poi, la classe politica cerca di preparare l'uscita come un lungo processo di integrazione delle misure di emergenza in un stato di diritto sempre più emergenziale.
La crisi della rappresentazione, già radicata in quella che è una società ricca e violentemente ineguale, non potrà che essere sempre più confermata dai devastanti effetti della crisi economica. Dopo il tempo sospeso del confinamento, le forze del capitalismo cercheranno di imporre un ritorno al modo di produzione del passato, e alla legge del profitto come unica alternativa. Ma noi non ci troviamo nel XVI secolo della peste nera e, almeno in Francia, si può sperare che la rivolta e la resistenza accumulata nel corso degli ultimi anni possa nutrirsi delle nuove solidarietà che si sono sviluppate durante il confinamento. Il collettivo, l'unica fonte di creazione liberatrice dovrà riguadagnare pienamente il suo posto, ed espandersi.
A partire dall'esperienza di questi mesi strani, emerge già quello che è un elemento fonte di speranza: l'esperienza della cura. Lavorando in delle condizioni estremamente difficili e con mezzi limitati a causa della scelta politica di quegli stessi che oggi si presentano come se fossero dei salvatori, le collettività di cura sono riuscite a farsi carico della sopravvivenza della società. Al di là delle gerarchie e delle burocrazie, hanno dato prova di organizzazione, di improvvisazione, di innovazione e di invenzione. Se l'orrore non si è diffuso ulteriormente e ancora di più, lo dobbiamo a loro. Questo mutuo soccorso delle collettività di lavoro, ha senza dubbio tratto energia da anni di esperienza nella lotta contro l'austerità e la scarsità, contro la distruzione delle loro condizioni lavorative, contro l'assalto predatorio portato avanti dal capitalismo privato. Di fronte all'ingiustizia della morte, accomunati dai valori dell'aiuto reciproco, il personale sanitario si è in tal modo riappropriato del proprio compito, riprendendo momentaneamente il controllo delle loro attività, sottraendolo agli amministratori finanziari. A partire dalla loro funzione, questi lavoratori sono consapevoli di quale sia la loro utilità sociale ai fini della sopravvivenza della collettività, una coscienza, questa, che rafforza il loro impegno e coinvolgimento, ma anche la forza della loro resistenza. Come si era già visto in altre catastrofi, è questa consapevolezza che può fornire un quadro di riferimento per un avvenire diverso. Noi viviamo l'epidemia, ma questo tempo sospeso può anche essere il tempo in cui coltiviamo e accumuliamo la rabbia. L'occasione per affermarla arriverà con la vita, dopo il tempo dei becchini. Nel frattempo, per le nostre paure e per la nostra angoscia, può servire leggere alcune righe di un caro amico di Karl Marx, Heinrich Heine, scritte in quegli anni di piombo che ci furono tra la rivoluzione del 1848 e la Comune: «Qui, attualmente, regna una grande calma. Una pace fatta di fiacchezza, di sonnolenza e di noia. È tutto silenzioso, come in una notta d'inverno avvolta nella nebbia. L'unico piccolo rumore che si sente, è misterioso e monotono, come quello di gocce che cadono. Si tratta degli interessi, delle rendite del capitale, che scendono senza mai smettere, goccia a goccia, dentro le casseforti dei capitalisti, fino a farle quasi traboccare; lo si sente distante il flusso continuo del diluvio della ricchezza dei ricchi. Di tanto in tanto, a quel sordo sciabordio si mescola un qualche singulto, un gemito emesso a bassa voce, il singhiozzo della miseria. A volte risuona anche un leggero crepitio, come un coltello che viene affilato.» [*2].
Qualcosa del genere ci coglie oggi, come se il silenzio non fosse sempre solo quella calma, ma anche il tempo in cui si affilano le armi dei conti da regolare.
- Charles Reeve - Pubblicato su Lundi Matin il 13 aprile 2020 -
NOTE:
[*1] - Antonio Costa, Premier ministre, déclaration à la télévision privée SIC, 20 mars 2020.
[*2] - Heinrich Heine, Lutèce. Lettres sur la vie politique, artistique et sociale de France (1855), précédé d’une présentation de Patricia Baudouin, La Fabrique, 2008.
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