sabato 12 novembre 2016

Terza Natura

turkle

Viviamo in un mondo che sempre piú sacrifica i piaceri e i benefici della conversazione sull'altare delle tecnologie digitali. Parliamo con un amico, ma nel frattempo diamo piú di un'occhiata allo smartphone, e spesso i nostri figli si lagnano se non hanno tra le mani un dispositivo elettronico. Viviamo costantemente in un altrove digitale. Ma per capire chi siamo, per comprendere appieno il mondo che ci circonda, per crescere, per amare ed essere amati, dobbiamo saper conversare. La perdita della capacità di parlare «faccia a faccia» con gli altri - con empatia, imparando nel contempo a sopportare solitudine e inquietudini - rischia di ridurre le nostre capacità di riflessione e concentrazione, portandoci, nei casi estremi, a stati di dissociazione psichica e cognitiva. In questo libro, frutto di anni di interviste e di indagini sul campo, Sherry Turkle, «l'antropologa del cyber-spazio», sottolinea le insidie e gli effetti delle appendici tecnologiche che ci circondano nella società e nella nostra vita quotidiana, per far sí che ognuno ridiventi padrone di se stesso, senza farsene acriticamente dominare.

(dal risvolto di copertina di Sherry Turkle: "La conversazione necessaria", Einaudi)

I dialoghi sconnessi nel mondo fluido della Rete
- di Benedetto Vecchi -

Il terrore dei silenzi durante una conversazione, l’angoscia che toglie il respiro quando viene rivolta una richiesta di attenzione; o quando l’argomento del dialogo con amici, familiari, amanti richiede impegno e concentrazione. Infine la paura della solitudine. Questa la cornice cesellata da Sherry Turkle nell’ultimo saggio La conversazione necessaria (Einaudi, traduzione di Luigi Giacone, pp.447, euro 26) dedicato al dialogo nell’era digitale. Un libro che rivela l’ostilità verso un mondo, quello contemporaneo, dove ogni aspetto della vita privata e sociale deve chinarsi all’algida tendenza a rendere tutto calcolabile. Ma anche un atto di amore, a volte dal sapore melenso, verso l’attitudine delle discipline umanistiche a fornire strumenti per comprendere una realtà dove siamo Insieme ma soli, come titolava un altro saggio di Turkle pubblicato da Codice edizioni.
L’autrice è, infatti, una studiosa di lungo corso su come le tecnologie digitali abbiano trasformato le relazioni sociali e la percezione individuale della realtà. Fresca del dottorato, mandò alle stampe a metà degli anni Ottanta Il secondo io, analisi sfrontata e eccentrica di come gli umani considerassero il personal computer un doppio cognitivo con il quale stabilire un vero e proprio dialogo interiore. Quel libro è stato considerato, in seguito, uno dei testi fondanti della network culture per la convinzione che lo animava sul personal computer interpretato come «macchina universale». Una macchina che poteva essere programmata e dunque manufatto flessibile: può essere usato per risparmiare lavoro umano o per manipolare testi, immagini o per comunicare.
Sherry Turkle ha poi continuato la sua esplorazione di questo «mondo nuovo» in altri importanti lavori (La vita sullo schermo, Apogeo) e il già ricordato Insieme ma soli), miscelando le discipline della sua biografia intellettuale – la filosofia (in gioventù è stata un’appassionata lettrice di Jean-Paul Sartre) e la psicologia -, anche se negli ultimi anni ha privilegiato la ricerca sul campo per mettere a fuoco le trasformazioni delle relazioni interpersonali alimentate dalla pervasività di strumenti comunicativi come gli smartphone.
Forte, in questo nuovo saggio, è la convinzione che il confine tra dentro e fuori lo schermo sia irreversibilmente evaporato e che la Rete non debba essere considerata un mondo a parte, ma il medium indispensabile per vivere in società, precisando continuamente che il contesto nel quale lavora e sul quale riflette siano gli Stati Uniti, assegnando così alle sue riflessioni una parzialità che le preserva da improprie generalizzazioni e semplificazioni. Leggendo il libro è invece forte la sensazione che la realtà indagata non sia poi così diversa da altri contesti nazionali, sia dal punto di vista sociale che culturale. Dunque un saggio che ha la capacità di illuminare un tema, la conversazione, al di là di uno specifico contesto nazionale.
Il primo merito del libro è di sfuggire al riflesso pavloviano che domina ormai gli scritti di molti studiosi della Rete, cioè la convinzione che le tecnologie digitali stiano minando l’autenticità della comunicazione umana. Su questo Turkle è categorica. Dall’invenzione della scrittura, la conversazione non è solo una questione di relazioni vis-à-vis perché è mediata anche da tecnologie.
Di costante c’è solo la volontà di condividere pensieri e emozioni grazie però a manufatti artificiali, come un libro, un telefono, uno schermo, una tastiera. Parlare di ripristinare un’autenticità perduta è quindi fuorviante. Tanto più nella conversazione dove il gioco dell’interpretazione del linguaggio del corpo e del tono della voce hanno sempre avuto un ruolo centrale. Con il computer e gli smartphone questi elementi si presentano in veste nuova, venendo meno la presenza fisica. Per il resto, mettono in rilievo sono elementi sempre presenti nella comunicazione. Semmai li amplificano perché sono gli elementi centrali della «realtà aumentata», esemplificata dalla Rete.
Il riferimento implicito a Marshall McLuhan è qui evidente, in particolar modo quando l’autrice scrive che le tecnologie conferiscono forme particolari alla comunicazione. Nessuna nostalgia per un immaginario passato incontaminato dalla tecnica, ma l’invito a fare i conti con i mutamenti già intervenuti, suggerendo semmai strategie minime di autodifesa dalla invasività della comunicazione on line. Divertenti sono, a questo proposito, i riferimenti a chi coricandosi si assicura di avere a portata di mano lo smartphone acceso. La «connessione h.24» oscilla tra la Scilla della necessità – molti lavori prevedono una reperibilità massima – e i Cariddi del desiderio di rivolgersi a quelle claustrofobiche comunità virtuali di simili che la rete consente di formare.
Il volume ha una apertura entusiasmante. Sherry Turkle ricorda come il poeta e saggista Henry Thoreau esemplificasse la conversazione attraverso la presenza di una sedia, due sedie, tre sedie. La prima sedia allude al monologo interiore; le due sedie è l’incontro con l’amico o l’amante; le tre sedie una serata tra amici. L’autrice aggiunge una sedia posta però all’aria aperta (negli altri casi sono in casa) per indicare la conversazione che può nascere in uno spazio pubblico. In ogni modo, la conversazione prevede sempre una comunicazione in presenza. E qui cominciano però gli elementi problematici: la comunicazione online avviene in assenza.
Gli sms, i post, la messaggistica, i gruppi di affinità richiedono una comunicazione ininterrotta, a che nulla a che fare con la conversazione. Ha bisogno di solitudine («la riflessione interiore»), di scambi, dell’interpretazione dei movimenti del corpo e il tono della voce. La retorica della comunicazione ininterrotta sovrappone la connessione online con la conversazione. Lo «stare in rete» serve inoltre a porre distanza tra sé e gli altri. Mette cioè al riparo dalle sensazioni forti (una delle vittime illustri della pervasività della connesione on line è l’empatia, sentimento da sostituire con una successione di «mi piace» sui tanti pensieri inviati agli amici del social network) e dai conflitti che segnano la vita quotidiana, famigliare, amorosa. Divertente è l’aneddoto della rottura di una relazione sentimentale attraverso un breve sms che si chiude con un laconico «mi dispiace».
Sherry Turkle inanella il libro di altri episodi ormai ricorrenti nella vita sociale. La cena con gli amici dove tutti sono chini sul proprio smartphone per «chiacchierare» con altri; i dialoghi interrotti tra genitori e figli durante le cene per rispondere alla posta elettronica o alle segnalazioni di post sul proprio account. La dipendenza dai social network, equiparata a quella del gioco d’azzardo, visto che il rapporto con la macchina crea una bolla dove la realtà viene tenuta rigorosamente fuori. Pagine godibili anche quelle dedicate al mito del multitasking: il cervello umano è capace di fare più cose contemporaneamente, ma questo significa una perdita di attenzione e capacità di concentrazione direttamente proporzionale alle operazioni da svolgere, riducendo ad esempio così la produttività sul lavoro.
La connessione senza soluzione di continuità produce cioè un «sé algoritmo» che ha tantissimi effetti collaterali certo non previsti ma tutto sommato funzionali a quella corrosione della sfera pubblica dove consenso, dissenso, elaborazione di un punto di vista autonomo dal potere costituito si riducono al numero di «like» posti su un messaggio. Con l’aggiunta del fatto che il «sé algoritmo» diventa l’elemento funzionale non solo per una riduzione della soggettività individuale a una serie di dati, successivamente elaboratori dagli apprendisti stregoni dei Big Data, ma per trasformare il singolo in un «controllore» che non vengano violate attraverso comportamenti eccentrici la weltashauung dominante nella «società del controllo». L’autrice si ferma però sulla soglia di una critica politica. Preferisce forme periodiche di «disintossicazione» dall’imperativo alla condivisione. La sua è una ecologia della comunicazione on line ancora da lì a venire e tuttavia delega alla buona volontà dei singoli. Troppo poco per vivere nella seconda natura chiamata web.

- Benedetto Vecchi - Pubblicato su Il Manifesto del 6 ottobre 2016 -

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