Usato per descrivere il peggioramento della situazione economica e finanziaria a partire dal 2008, il concetto di crisi sottintende una rottura incontrollata di un sistema perenne. Ragion per cui sarebbe sufficiente correggere gli eccessi. Ma se il capitalismo democratico vigente a partire dalla fine della seconda guerra mondiale stesse affrontando uno squilibrio insormontabile?
La crisi del 2008 è cominciata quarant'anni prima.
- di Wolfgang Streeck -
Giorno dopo giorno, gli episodi che segnano l'attuale crisi del capitalismo mostrano come siano i "mercati" a dettare le leggi agli Stati. Per le persone si impone una constatazione: i dirigenti politici non lavorano per gli interessi dei cittadini, ma per quelli degli altri Stati e organismi internazionali - come il Fondo Monetario Internazionale e l'Unione Europea, che si erigono ad arbitri del gioco democratico.
La crisi attuale ed il conseguente impoverimento delle finanze pubbliche possono essere interpretati come manifestazioni di uno fondamentale squilibrio delle società capitalistiche avanzate, divise fra le esigenze del mercato e quelle della democrazia - una tensione costante che trasforma in regola l'instabilità, e non in eccezione. Pertanto, la crisi può essere compresa solamente alla luce della trasformazione intrinsecamente conflittale del cosiddetto "capitalismo democratico".
A partire dalla fine degli anni 1960, tre soluzioni successive hanno preteso di superare la contraddizione fra democrazia politica e capitalismo di mercato: la prima soluzione è stata l'inflazione; la seconda, il debito pubblico; e la terza, il debito privato.
A ciascuna di queste soluzioni ha corrisposto un tipo di relazione fra i poteri economici, il mondo politico e le forze sociali. Una dopo l'altra, queste soluzioni hanno collassato ed hanno affrettato il passaggio al ciclo successivo. La tempesta finanziaria del 2008 ha segnato la fine della terza epoca ed ha annunciato mutazioni le cui natura rimane incerta.
Inflazione
Il capitalismo democratico del dopoguerra conobbe la sua prima crisi a partire dalla fine degli anni 1960, quando l'inflazione cominciava a diffondersi per tutto il mondo occidentale. Il desiderio di crescita economica aveva cominciato a minacciare la pacificazione delle relazioni sociali che aveva messo fine ai conflitti del dopoguerra. Essenzialmente, il patto sociale adotta fino ad allora era il seguente: la classe lavoratrice accettava l'economia di mercato e la proprietà privata in cambio della democrazia politica, la quale a sua volta garantiva la protezione sociale e il costante miglioramento del livello di vita.
Più di vent'anni di crescita senza interruzione hanno contribuito a rafforzare la convinzione secondo cui il progresso socio-economico costituisce un diritto inerente alla cittadinanza democratica. I leader si sentivano obbligati ad onorare la promessa di un ampliamento del welfare, del diritto dei lavoratori ad una libera contrattazione collettiva, e dell'obiettivo della piena occupazione. Molte delle misure messe in campo dai diversi governi facevano intensamente uso dell'armamentario economico keynesiano.
All'inizio degli anni 1970, però, la capacità di crescita cominciò a cadere e quella convinzione cominciò ad essere messa in discussione, cosa che generò un'ondata mondiale di proteste sociali. I lavoratori, che in quel momento non avevano paura della disoccupazione, non intendevano rinunciare a quel che consideravano il loro diritto al progresso. Per i governi del mondo occidentale, la questione era quella di far sì che i sindacati affievolissero la loro domanda di aumenti salariali senza che venisse messa in discussione la promessa keynesiana della piena occupazione.
Gli anni 1970 sono stati caratterizzati dalla convinzione (condivisa dalle alte sfere statali) che far crescere la disoccupazione in modo da frenare l'aumento dei salati sarebbe stato un suicidio politico - ossia, sarebbe stata la morte della democrazia capitalista.
Per uscire da questa impasse e per preservare allo stesso tempo la piena occupazione e i contratti collettivi liberi, prendeva forma un percorso: la flessibilizzazione delle politiche monetarie, anche se questo poteva significare la crescita dell'inflazione.
All'inizio, l'aumento dei prezzi non era un problema per i lavoratori. La forte rappresentanza dei potenti sindacati impose l'indicizzazione dei salari a fronte dell'aumento dei prezzi. Dall'altro lato, nel dilapidare il patrimonio, l'inflazione nutriva i detentori di attivi finanziari, vale a dire, i gruppi che contavano nel loro settore pochi lavoratori.
L'inflazione era diventata il riflesso monetario di un conflitto di distribuzione: da un lato, una classe lavoratrice che rivendicava la stabilità occupazionale ed una quota maggiore del reddito nazionale; dall'altro, c'era una classe capitalista che cercava di massimizzare il ritorno sugli investimenti. L'una dava priorità ai diritti del cittadino; l'altra, alla proprietà e al mercato. In questo caso, l'inflazione esprimeva il conflitto in una società i cui membri non condividevano gli stessi criteri di giustizia sociale.
Se nell'immediato dopoguerra la crescita economica aveva permesso ai governi di ridurre gli antagonismi di classe, ora l'inflazione permetteva di mantenere il livello di consumo e di distribuzione del reddito per mezzo di risorse che l'economia reale non aveva ancora prodotto. Tale strategia di pacificazione dei conflitti si dimostrò efficace, ma non avrebbe potuto durare indefinitamente. Spinti dai mercati, i governi abbandonarono gli accordi salariari redistributivi per tornare alla disciplina di bilancio.
L'inflazione venne sconfitta dopo il 1979, quando Paul Volcker, direttore della Federal Reserve degli Stati Uniti (FED), decise di innalzare il tasso di interesse ad un livello senza precedenti. La misura provocò una disoccupazione inedita dai tempi della Grande Depressione. Questo "putsch" venne legittimato dalle urna con la rielezione del presidente Reagan, nel 1984. Nel Regno Unito, anche Margaret Tatcher, che aveva seguito la politica degli Stati Uniti, aveva avuto rinnovato il suo incarico di primo ministro, nel 1983, nonostante l'aumento di rivendicazione dei posti di lavoro e la veloce deindustrializzazione causata, fra gli altri fattori, dalla sua politica di austerità monetaria. In entrambi i paesi, la deflazione venne accompagnata da un attacco ai sindacati.
Negli anni successivi, l'inflazione si stabilizzò in tutto il mondo capitalista, mentre la disoccupazione rimaneva più o meno costante: dal 5 al 9%, fra il 1980 ed il 1988. Allo stesso tempo, i tassi di sindacalizzazione cadevano e gli scioperi diventavano così sparuti che alcuni paesi smettevano di contabilizzarli.
Debito pubblico
L'era neoliberista venne inaugurata nel momento in cui gli Stati anglosassoni abbandonarono uno dei pilastri del capitalismo democratico del dopoguerra: l'idea secondo la quale la disoccupazione avrebbe rovinato l'appoggio di cui godevano non silo i governi del momento, ma anche la forma stessa dell'organizzazione sociale. In tutto il mondo, i leader politici seguivano alla lettera le esperienze portate avanti da Reagan e Tatcher.
L'inflazione si ritirò solo per cedere il passo al debito pubblico, che crebbe vertiginosamente nel decennio del 1980. La stagnazione della crescita rese i contribuenti - in particolare quelli più ricchi ed influenti - ostili nei confronti delle responsabilità fiscali. Il contenimento dei prezzi pose fine all'aumento automatico delle imposte (in funzione del livello di reddito). Il controllo dell'inflazione mise fine alla svalutazione continua del debito pubblico attraverso la svalutazione della moneta nazionale.
L'aumento della disoccupazione causato dalla stabilizzazione monetaria obbligò gli Stati ad aumentare le spese per le politiche sociali. In sintesi, il contro dei diversi diritti sociali creati nel corso del decennio 1970 in cambio dell'accettazione della moderazione salariale da parte dei sindacati cominciò a pesare sempre più sulle finanze pubbliche.
Dal momento che non era più possibile giocare con l'inflazione per ridurre il divario fra le esigenze dei cittadini e quelle dei mercati, toccava allo Stato il compito di finanziare la pace sociale. Per qualche tempo, il debito pubblico è stata un'alternativa funzionale e comoda per sostituire l'inflazione, permettendo ai governi di utilizzare come fonti di finanziamento risorse che ancora non erano state concretamente prodotte.
Ma anche l'accumulazione di debito pubblico, però, non poteva continuare in eterno. Nella misura in cui il peso del debito aumentava, una parte crescente della spesa pubblica serviva per pagare gli interessi su questo debito. Ad un certo punto, impossibile da determinare a priori, i creditori esteri e nazionali potrebbero pretendere di recuperare il denaro. I "mercati", allora, cominciarono a prendere provvedimenti per imporre agli Stati la disciplina di bilancio e l'austerità necessaria a salvaguardare i loro interessi.
La vittoria di Bill Clinton, nel 1992, ha segnato l'inizio di una serie di sforzi volti al "consolidamento fiscale" promossi aggressivamente su scala mondiale da organismi come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Nel 1994, i democratici hanno perso la maggioranza al Congresso, nelle elezioni a metà mandato. Clinton ha optato allora per adottare una politica di austerità, segnata da importanti riduzioni della spesa pubblica, attuando una giravolta politica che avrebbe dovuto, secondo le sue stesse parole, mettere fine alla "protezione sociale così come la conosciamo".
Debito privato
L'amministrazione Clinton non era in condizioni di pacificare l'economia politica del capitalismo democratico. La sua strategia di gestione dei conflitti sociali consisteva in gran parte nell'ampliare la deregolazione del settore finanziario, già iniziata da Reagan.
L'aumento della disuguaglianza nell'appropriazione del reddito, causata dal continuo declino del sindacalizzazione e dalle forte riduzioni della spesa sociale, così come la caduta della domanda aggregata derivante dalle politiche di aggiustamento di bilancio sono state controbilanciate dall'indebitamento dei cittadini e delle imprese in quantità inedite.
Il governo non prendeva più capitale in prestito per finanziare l'uguaglianza di accesso ad un alloggio decente o per investire nella formazione dei lavoratori: erano gli individui stessi, i cittadini, che venivano invitati (spesso senza avere una scelta reale) a prendere in prestito delle somme per proprio conto e a proprio rischio, che fosse per pagare gli studi o per trasferirsi in quartieri meno poveri.
La politica istituita dall'amministrazione Clinton piacque a molti. I ricchi pagavano meno imposte, e chi fra di loro aveva la possibilità di investire sul mercato finanziario guadagnava grandi somme. E i poveri non avevano di che lamentarsi - almeno in un primo momento. I mutui subprime, e la ricchezza illusoria su cui si basavano, sostituivano l'aiuto per l'edilizia abitativa (che era stato cancellato) e gli aumenti salariali (inesistenti al gradino più basso del mercato del lavoro "flessibilizzato"). Per gli afroamericani in particolare, l'aquisizione dell'abitazione rappresentava l'unica realizzazione del "sogno americano": si trattava di un sostituto essenziale alla pensioni, che oltre a non fornire un dignitoso livello di vita, non erano garantite dal governo, costantemente sottomesso alle politiche di austerità fiscale.
Così, diversamente dal periodo dominato dal debito pubblico - in cui il prestito dello Stato permetteva di usare oggi le risorse di domani - erano ora gli individui che potevano comprare immediatamente tutto quello di cui avevano bisogno, in cambio del compromesso di fornire al mercato una parte significativa dei loro salari futuri.
La liberalizzazione permetteva, pertanto, di compensare il congelamento del bilancio e l'austerità pubblica. Il debito privato si sommava al debito pubblico, e la domanda individuale - rafforzata dai dollari provenienti dalla crescente industria del casinò finanziario - aveva preso il posto della domanda collettiva gestita dallo Stato. È stato questo a sostenere l'occupazione e i profitti, in particolare nel settore immobiliare.
Tale dinamica ha accelerato a partire dal 2001, periodo in cui di questo "keynesismo privatizzato" non ha beneficiato soltanto il settore finanziario, con enormi guadagni: è stato anche il pilastro di un boom economico invidiato dai sindacati europei. Avevano costruito in forma esemplare la politica del denaro facile messa in atto dalla FED, che ha provocato l'indebitamento rapido della società nordamericana. Osservavano con entusiasmo che, a differenza della Banca Centrale Europea, la FED aveva l'obbligo giuridico non solo di assicurare la stabilità monetaria, ma anche di mantenere alto il livello di occupazione.
La fine di tutto questo apparato avvenne nel 2008, con la caduta della piramide di crediti internazionali su cui si basava la prosperità della fine degli anni 1990 e dell'inizio degli anni 2000.
E il capitalismo oggi?
Dopo i successivi periodi di inflazione, deficit pubblici ed indebitamento privato, il capitalismo democratico del dopoguerra è entrato nella sua quarta fase.
Mentre l'insieme del sistema finanziario mondiale minacciava di crollare, gli Stati nazionali, nel tentativo di restaurare la fiducia economica, socializzavano le perdite del settore privato ed autorizzavano i prestiti pubblici al fine di soccorrere le banche. Questa misura ha portato alla crescita vertiginosa dei deficit pubblici.
Dal 2008, il conflitto di distribuzione inerente al capitalismo democratico si è trasformato in una lotta ostinata fra investitori finanziari mondiali e Stati sovrani. Mentre in passato i lavoratori lottavano contro i padroni, i cittadini contro i ministri delle Finanze e i debitori privati contro le banche private, oggi le istituzioni finanziarie competono con gli Stati - e per di più li ricattano affinché vengano salvate. Rimane da determinare la natura dei rapporti di forza sui quali si base questa situazione.
Dall'inizio della crisi, ad esempio, i grandi conglomerati finanziari esigono tassi di interessi molto variabili a seconda degli Stati e fanno pressioni differenziate sui governi per costringere i cittadini ad accettare tagli al bilancio senza precedenti. A causa del debito pubblico colossale che oggi opprime gli Stati, qualsiasi aumento sui tassi di interesse, per quanto minimo, può causare un disastro per i bilanci.
In questo scenario, i mercati devono stare attenti a non sottoporre gli Stati ad una pressione eccessivamente forte, dal momento che questi ultimi potrebbero optare per una moratoria del debito. Si rende necessario, allora, che alcuni Stati si dispongano a salvarne altri più minacciati, come modo di prevenire l'innalzamento generale dei tassi di interesse sui prestiti sovrani.
I mercati non si aspettano solamente un consolidamento del bilancio: esigono anche prospettive razionali di crescita economica. Ma come combinare le due cose? Nonostante il rischio del debito irlandese si sia abbassato a causa del fatto che il paese ha adottato misure drastiche di riduzione del deficit, questo è tornato nuovamente a crescere alcune settimane dopo: il piano di recupero economico era talmente rigoroso che impediva qualsiasi ripresa economica.
Da alcuni anni, l'amministrazione politica del capitalismo democratico è diventata sempre più difficile. È assai probabile che questo periodo politico ed economia sia il più incerto mai sperimentato dai leader politici dai tempi della Grande Depressione.
Le banche, già definite nel 2008 come "troppo grandi per fallire", possono diventare ancora più grandi nel 2012 e 2013. E potranno, pertanto, mettere in pratica nuovamente il ricatto con cui hanno imparato a giocare così tanto abilmente per tre anni. Stavolta, tuttavia, la ferocia pubblica del capitalismo privato potrebbe rivelarsi impossibile - semplicemente perché le finanze pubbliche sono arrivate al limite delle loro capacità.
Nella crisi attuale, la democrazia è altrettanto a rischio dell'economia, se non di più. Non è stato sconvolto solo il funzionamento efficace dell'economia capitalista, ma anche quello della "integrazione sociale".
Nell'analizzare l'evoluzione della crisi a partire dal decennio del 1970, appare plausibile considerare che il capitalismo democratico troverà una nuova forma - sebbene temporanea - per risolvere i conflitti sociali del momento. Ma, stavolta, a beneficio esclusivo delle classi dominanti, trincerate dentro la fortezza politica insuperabile della industria finanziaria internazionale.
- Wolfgang Streeck - Pubblicato il 4 gennaio 2012 -
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