domenica 6 novembre 2016

Sundoku

anteprima_tsundoku

Che tenerezza il gatto in testa
- di Alessandra Iadicicco -

Sono stralci di poesie senza autore, ricordi di fantasie popolari, briciole di saggezza, minuzzoli di arguzia, visioni, moniti, spergiuri. Metafore vive o catacresizzate, cioè indurite, acquisite, cristallizzate e divenute più precise e azzeccate della lettera. Guardate a distanza, o di sbieco, attraverso i confini delle lingue e delle culture, fanno un effetto-sorpresa, suscitano lo sconcerto o una risata, danno la soddisfazione di una buona battuta, di una bella trovata. Sfuggono alle regole della linguistica, talvolta anche a quelle della logica, si negano alle ricostruzioni della filologia, ai rigori del vocabolario, mettono in crisi i traduttori che, quando pretendano di trasporle con esattezza, per eccesso di fedeltà rischiano il ridicolo. Tanto vale illustrarle con un disegno, variopinto e infantile quanto basta perché l’intuizione sia immediata e lampante, strampalato e creativo a sufficienza per restituire, di quelle locuzioni, tutta l’impertinenza e la stranezza geniale. Tanto vale prenderle come un gioco — in fondo il linguaggio, Wittgenstein docet, questo è —, inventariarle come capita via via che le si incontra per caso, collezionarle come trofei, con lo spirito di avventura di un cacciatore e la curiosità di un esploratore.

È quanto ha fatto con le espressioni idiomatiche, fiori della lingua, sue caleidoscopiche invenzioni, la giovanissima inglese Ella Frances Sanders, scrittrice, illustratrice e viaggiatrice appena ventenne, specialista di nulla, dotata però della freschezza, dell’età, perfino dell’ingenuità giuste per affrontare l’impresa di redigere questo catalogo — parecchio buffo e di necessità incompleto — come un puro divertissement. Già allenata in questa partita con le parole, ci aveva regalato l’irresistibile librogiocattolo Lost in Translation, una raccolta di lemmi intraducibili da tutto il mondo pubblicata da Marcos y Marcos un anno fa. Si presentava come un album di figurine, un dizionario a fumetti, una rassegna di concetti stilizzati e colorati da fare nostri e custodire come un tesoro. Se ne estraevano gioielli come il giapponese sundoku, cioè i libri acquistati, impilati e mai letti (chi non ne ha?), il persiano tiám, lo scintillio negli occhi dell’altro al primo sguardo (chi non l’ha visto?), il tedesco Warmduscher, chi preferisce docce tiepide, teme l’acqua bollente o gelata, resta in uno spazio confortevole e insomma è un fifone (chi non ne conosce?). Se quel primo lavoro conteneva versatili parole-pongo, tessere di mosaico insostituibili, fatate parole-talismano, nel nuovo vademecum The Illustrated Book of Sayings, tradotto come il primo da Ilaria Piperno e ugualmente pubblicato da Marcos y Marcos con il titolo Tagliare le nuvole col naso, ci sono le formule magiche, gli abracadabra che, di paralleli universi linguistici, dischiudono le segrete meraviglie e, dei parlanti di una certa comunità, rivelano i vezzi, i tic, le maniere, l’immaginario condiviso e la singolare fervida immaginazione. Che a un irlandese al colmo della gioia sembri di stare in groppa a un maiale, uno svedese dello stesso umore vada pattinando su un panino ai gamberi e un indonesiano sazio e felice beva acqua nuotando la dice lunga sulle tradizioni alimentari, contadine, marinare, o sulla scarsezza delle risorse idriche di quei popoli. In Germania nei posti giusti, trendy, à la page, c’è un orso che balla il tip tap, in Brasile nelle situazioni di pericolo il caimano nuota a dorso tra i piranha e in Giappone, per fingere innocenza o ostentare dolcezza, ci si mette un gatto
in testa, il che ci informa sugli animali araldici, simbolici, prediletti o sulle specifiche risorse faunistiche di quelle zone del pianeta. Ma una lettura geografica, storica o antropologica dei modi di dire va fatta con prudenza. I sintagmi più vivaci, arcani, bizzarri non vanno presi tanto come indizi informativi su determinate culture quanto piuttosto come l’impagabile e irripetibile (leggi intraducibile) scintillio della lingua.

È vano cercare di spiegarsi perché un lettone quando mente soffi paperelle, mentre un romeno con le stesse intenzioni ti venda ciambelle. È inutile chiedersi perché un mongolo per dirti «salute!» voglia i tuoi baffi folti come una selva, mentre un tedesco per invocare la fortuna ti auguri di romperti il collo e le gambe. Si possono trovare delle parentele, come con l’inglese Break your leg, si possono indovinare delle somiglianze, per esempio tra le italiane mani nel sacco e la barba norvegese nella buca delle lettere. Ma chi pretende di afferrare il significato di questi giri di parole andrà in giro tronfio, vanesio e compiaciuto come un serbo che tagli le nuvole con il naso.

- Alessandra Iadicicco - pubblicato su Il Corriere/La Lettura del 30 ottobre 2016 -

Nessun commento: