lunedì 14 novembre 2016

Una rete globale del valore

cotone

Il cotone è stato il primo prodotto attraverso il quale è stata avviata la costituzione di un'economia globalizzata e il mondo ha assunto, pur tra metamorfosi e trasformazioni ancora in corso, la forma che ancora oggi possiede. Ben prima dell'avvento della produzione con le macchine nel 1780, imprenditori europei e potenti uomini politici ridisegnarono l'industria manifatturiera mondiale, la cui espansione imperialista poggiava sullo sfruttamento inumano degli schiavi nelle piantagioni e degli operai nelle fabbriche. In apparenza, il volume si propone come una storia, dalle origini ai giorni nostri, del prodotto piú importante del XVIII e del XIX secolo: la sua produzione, trasformazione, circolazione. In realtà, attraverso il prisma del cotone, è del capitalismo industriale che Sven Beckert vuole tracciare la storia globale, nelle sue dimensioni e componenti fondamentali, non solo economiche e tecnologiche, ma anche sociali, giuridiche, politiche. E il cotone può legittimamente assurgere al ruolo di prisma, poiché è proprio a partire da esso che il capitalismo industriale è nato. Beckert definisce «capitalismo di guerra» l'insieme dei processi di insediamento imperialista, conquista coloniale, espropriazione della terra, sfruttamento intensivo di forza lavoro schiavistica, che consentiranno al Regno Unito di controllare, già nei primi decenni del XIX secolo, il mercato mondiale del cotone. In seguito, dopo la Guerra di secessione del 1861-65, sarà il turno degli Stati Uniti. Fino all'apparizione di nuovi grandi protagonisti su scala globale, come la Cina, la cui egemonia sembra provenire dall'applicazione dei medesimi meccanismi, ma questa volta all'interno del paese e nel resto del Sudest asiatico.

(dal risvolto di copertina di: Sven Beckert, "L'impero del cotone. Una storia globale", Einaudi, 2016, pp. XXX - 610 € 34,00)

«Cinquecento anni fa, in una decina di piccoli villaggi situati lungo la costa del Pacifico, nel territorio corrispondente all’attuale Messico, la gente trascorreva le proprie giornate coltivando mais, fagioli, zucche e peperoncini. La, tra il Río Grande de Santiago a nord e il Río Balsas a sud, si dedicavano anche alla pesca, alla ricerca di ostriche e vongole, alla raccolta di miele e cera d’api. Oltre a praticare un’agricoltura di sussistenza e a realizzare semplici manufatti artigianali – le loro creazioni piú note sono dei piccoli recipienti in ceramica decorati con motivi geometrici –, questi uomini e queste donne coltivavano anche una pianta da cui spuntavano piccole capsule contenenti bianchi fiocchi. La pianta non era commestibile. Ma era la piú preziosa tra le colture. La chiamavano ichcatl: cotone».

Tra sangue, smog, denaro: il mondo è una balla di cotone
- Dagli schiavi neri agli operai di Manchester, così un tessuto ha innescato la modernità -
di Massimiliano Panarari

La storia del globo dell'evo contemporaneo letta attraverso una balla di cotone. È risaputa l'attitudine di vari studiosi anglosassoni a fare un'autentica storiografia globale, partendo da un elemento, un fatto o un personaggio, che diventa un prisma alla luce delle cui rifrazioni ricostruire un'intera epoca. E può avvenire anche, con notevole forza euristica e di suggestione, prendendo ad oggetto di indagine una commodity, vista la centralità delle materie prime nell'edificazione delle società umane.
   Un esempio eccellente è "L'impero del cotone" di Sven Beckert, celebrato studioso del capitalismo e professore di Storia americana ad Harvard: un libro importante e affascinante, che ha fatto incetta di premi ed è piaciuto molto al presidente Barack Obama. Una ricerca monumentale che palesa la centralità del cotone - la cui lavorazione aveva rappresentato la principale industria manifatturiere dal 1000 al 1900 - e la sua funzione di rampa di lancio per il decollo della rivoluzione industriale e l'avvento della modernità in Occidente (a partire dall'Inghilterra, lembo geografico periferico di un continente che non lo generava per via naturale).
   Questa fibra lanuginosa commerciata da tempo quasi immemorabile si convertì così, in virtù dell'esplosione della sua nuova lavorazione meccanizzata ed industriale, nella commodity per eccellenza del 18° e del 19° secolo e nella merce globale n°1 (l'«oro bianco»), determinando intorno a sé un'epocale e durissima riorganizzazione dell'esistenza di vere masse della popolazione europea (perché vari territori, dall'Italia del Nord alla Germania del Sud, divennero satelliti di questa catena e rete planetaria del valore). Attraverso le traiettorie della produzione, trasformazione, commercializzazione e circolazione del cotone, lo studioso harvardiano effettua la storia del capitalismo industriale che si globalizza, ovvero la storia del mondo moderno e della genesi della nostra epoca (prima della conquista dell'egemonia da parte del capitalismo digitale e «immateriale»). E analizza, a tutto campo, le conseguenze tecnologiche, giuridiche, sociali e politiche che il trionfo della manifattura capitalistica ha innescato, tessendo altresì una fitta trama di narrazioni - compreso, come sa fare magistralmente soltanto lo storytelling «non fiction» degli anglosassoni, storie di singoli - che mescola il tragico vissuto biografico degli schiavi neri delle piantagioni del continente americano con quello sfavillante delle grandi famiglie agrarie sudiste degli Stati Uniti e delle dinastie industriali britanniche (come gli Ashworth e i Potter), che accumularno fortune inusitate. Perché un passaggio decisivo, e un motore formidabile per l'industrializzazione totale della manifattura cotoniera, derivò precisamente dall'esigenza di ridurre le importazioni made in England e di fronteggiare l'inarrestabile concorrenza dell'Inghilterra che, mediante la meccanizzazione, aveva inondato il mercato mondiale di filati a basso costo.
   Il consolidamento come ineguagliabile potenza commerciale esportatrice di prodotti cotonieri dell'Impero britannico è un altro prisma esemplare da scomporre, comne fa l'autore, per comprendere una molteplicità di snodi della modernizzazione ottocentesca (e i suoi pesantissimi lasciti). Se il capitalismo contemporaneo trova il proprio fondamento nello Stato di diritto e nelle sue relazioni con un sistema di istituzioni pubbliche nazionali e sovranazionali, quello originario decollato con la globalizzazione commerciale della commodity cotoniera è, nell'interpretazione di Beckert, il «capitalismo di guerra». E la sua culla britannica era ben lungi dal rappresentare uno Stato liberale e democratico, ma coincideva con una potenza imperialista estremamente aggressiva, autoritaria e protezionista, perennemente in guerra, contraddistinta da una burocrazia oppressiva e gravata da un enorme debito pubblico per le incessanti spese militari.
   La storia dell'impero del cotone e delle sue capitali Manchester e Liverpool (scrigni di immense ricchezze in un paesaggio «dantesco» di fuliggine, smog, eserciti di poveri e dolenti maree umane) è una vicenda impastata di sopraffazione, sudore e sangue. Quello dei milioni di schiavi e operai, uomini, bambini e donne (destinatari di un dispositivo «foucaultiano» di disciplinamento eretto sull'applicazione continua di tremende punizioni corporali), a cui si indirizza la compassione umana di un simpaterico Beckert, che dell'epopea dei filari rischiara e illumina doviziosamente il dark side. Come pure i risvolti della lotta politica ai quattro angoli del pianeta di contadini e coltivatori, strozzati dalle contrattazioni al ribasso e dai vari crolli globali dei prezzi, contro l'asse tra gli industriali e le classi politiche metropolitane imperialistiche: il «populismo cotoniero» dagli Stati Uniti di fine Ottocento e inizio Novecento (dove la Farmers Alliance riuscì a influenzare l'elezione del presidente nel 1896) all'India nella quale animò il movimento nazionalista ed anticolonialista, dall'Egitto al Messico (in cui i populisti furono tra i protagonisti della rivoluzione degli anni Dieci).
   Fino a che, appunto, nella sua impressionante parabola anche quello cotoniero dovette sottastare alle «leggi» inesorabili e inaggirabili che presiedono alla caduta degli imperi.

- Massimiliano Panarari -

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