mercoledì 2 novembre 2016

La tristezza dell'osservatore

works

Con una scrittura originale come un classico pezzo di jazz, che ne ha fatto uno degli autori italiani piú importanti della sua generazione, in questo romanzo autobiografico Vitaliano Trevisan racconta il lavoro nel luogo in cui è una religione, il Nordest, dagli anni Settanta fino agli anni Zero. E attraverso questa lente scandaglia non solo le mutazioni del nostro Paese, ma la sua stessa vita: il fallimento dell'amore, i meccanismi di potere nascosti in qualunque relazione, la storia della propria e di ogni famiglia, che è sempre «una storia di soldi».
«Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone. Una delle possibilità che contemplavo. Che contemplo tuttora. Poi non ho coraggio. Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo, e la sua divisa, sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa. Assurdità che sempre mi ritornano. L'origine è un vestito che uno non smette mai».
La condanna tutta umana al lavoro inizia per Vitaliano Trevisan a quindici anni, quando una sera a cena chiede al padre una bicicletta nuova, da maschio, perché girare con quella della sorella maggiore significa essere preso in giro dai compagni. Per tutta risposta, il padre lo porta nell'officina di un amico che stampa lamiere per abbeveratoi da uccelli: «Cosí capisci da dove viene», gli dice, alludendo al denaro. Inizia per l'autore una «carriera» che è un succedersi di false partenze: dal manovale al costruttore di barche a vela, dal cameriere al geometra, dal disoccupato al gelataio in Germania, dal magazziniere al portiere di notte, fino allo spaccio di droga e al furto, «un commercio che obbedisce alle stesse fottute regole di mercato». Trevisan racconta gli anni Settanta schiacciati tra politica ed eroina, cui sembra essere sopravvissuto quasi per caso, la storia di un matrimonio e della sua fine, le contraddizioni del mondo della cultura - dove per ironia della sorte la frase piú ripetuta è «non ci sono soldi», la stessa che gli propinava il padre - e la sofferenza psichica, il percorso pieno di deragliamenti di un ragazzo destinato a fare lo scrittore.

(dal risvolto di copertina di: Vitaliano Trevisan: Works, Einaudi Stile Libero pagg. 652 euro 22)

“Come Chaplin vi svelo cos’è davvero il lavoro”
- Intervista a Vitaliano Trevisan, che in “Works” racconta i mille mestieri di un Nordest tutto bulloni e fatica: “Siamo ancora a Tempi Moderni” -
- di Maurizio Crosetti -

Cade tra noi all’improvviso un grande libro da un lontanissimo altrove.
Precipita da un luogo che si chiama contrà Molino di Campodalbero, dove la provincia di Vicenza abbandona i capannoni e s’arrampica sui monti Lessini. Un grumo di case con appena tre abitanti e uno è lui, Vitaliano Trevisan, scrittore, drammaturgo, attore e contenitore di altri mestieri. Infatti è proprio di questo che parla “Works” (Einaudi Stile Libero), meteorite di 652 pagine appena uscito. Parla di lavoro. È il diario di numerose vite appartenute alla stessa persona, perché lavoro vuol dire tanto: paesaggio umano e fisico, luoghi, nomi, colleghi, superiori, attrezzi ma anche attese, vuoti, ansia, abbandoni, precarietà. Così Works è soprattutto una geografia psichica, “una collezione di false partenze” e un deposito di materia, c’è l’odore di olio lubrificante e la malta impastata col badile, ci sono il profilato d’alluminio di un armadio e la tenebra di un albergo nel quale fare la guardia mentre tutti dormono. Il corpo delle cose, insieme all’evanescenza di un dolore in perenne sottofondo, indistinto ma conficcato nel cuore.
La faccia di Vitaliano Trevisan è quella di Primo Amore di Matteo Garrone, il cranio pelato e gli occhi inquietanti dell’uomo che pretende la sua donna sempre più magra fino al delirio di entrambi. «Recitare, uno dei miei mestieri, sì». Occhi celesti profondi. Si rolla una sottile sigaretta al Bar Trego, dove siamo seduti nel freddo che c’è fuori e che scende ancora dalla montagna spruzzata di neve. «Poi saliamo su, ti porto a vedere». La cadenza veneta, gli accenti ogni tanto cascano all’indietro. Un lieve tremolio della testa. «Vengo qui al bar per collegarmi al wi-fi e scaricare le mail e qualche volta i giornali, per vedere la Juve, per comprare su Amazon libri e vestiti». Mostra la giacca inglese da caccia con inserti di daino sulle spalle. «In casa non ho televisore né Internet, mi scaldo con la legna. Meglio essere soli in montagna che in pianura».
Ed è dai margini apparenti, lontanissimo dalla società culturale e dalle sue confraternite, che la voce di Trevisan ha limato questo blocco di parole. Letteratura come necessità. Repertorio (parziale) dei mestieri svolti dall’autore: saldatore di gabbie per quaglie, stampatore a pressa di lamiere, operaio comune, scaricatore, muratore, manovale semplice, ladro di giubbotti, pusher di fumo, disegnatore tecnico, venditore di mobili, portiere di notte.

Scusi, Trevisan. Anche ladro? Spacciatore? Tra un capitolo e l’altro, come se pure questo fosse scritto nel suo singolare libretto di lavoro.

«Ho rubato giubbotti quando andavo (per poco) all’Università di Padova o magari no, leggete l’ultima riga del libro». Lo facciamo, non svela il finale: “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione”. Forse che sì, forse che no.

E il fumo?

«Ci sono occupazioni meno rispettabili, tipo l’immobiliarista che ha circuito mio zio e gli ha sottratto la casa».

Perché “Works”?

«Vuol dire lavori e anche opere. L’ho proposto io, come tutti i miei titoli. Non ho editor, solo correttori di bozze. Il primo romanzo è rimasto fermo per quattro anni perché volevano impormi un editing, alla fine ho vinto. Quello che scrivo è solo mio».

Il lavoro non è di moda in nessun posto, purtroppo nemmeno in fabbrica, figurarsi nei libri. Ma lei ci ha speso cinque anni per parlarne: perché?

«Ci pensavo da almeno dieci. Se non lo faccio io, mi dicevo, chi mai? Scrivo con lentezza, una o due pagine al giorno. Tutti si riempiono la bocca di lavoro ma non più le mani, è caduta la compenetrazione tra classi, i cosiddetti comunicatori non hanno più niente a che fare col lavoro. Non lo conoscono, e meno lo conoscono più ne parlano».

Cos’è diventato il profondo Nordest? Nel suo libro crollano i miti e resta il dolore.

«I morti lavorando sono in crescita, e davvero c’è chi finisce in manicomio anche se li hanno chiusi. Qui nel Veneto abbiamo l’ansia di tornare indietro, di essere di nuovo tragicamente poveri: i nipoti che retrocedono all’epoca della polenta dei nonni. E quante bugie dalla politica, ancora e sempre democristiana. Il sindacato smantellato, a volte anche giustamente. Sembra che il lavoro manuale debba riguardare solo gli immigrati: non è così. Degli italiani poveri non si parla più».

Il libro è pieno di bulloni, tondini, carta millimetrata, tormenti, denaro nero, cattiverie. E d’improvviso, l’orgoglio del lavoro artigiano.

«Qui, sgobbare è ancora Tempi Moderni ma è anche La chiave a stella, è il talento innato della meccanica che sale dal basso. Ecco, Primo Levi lavorò davvero e poteva scriverne così. I nuovi contratti sono tutti a termine, il nero in agricoltura e nella ristorazione è all’80 per cento. Ora ci sono i voucher, solo una scusa per aggirare tasse e contributi. Le piccole aziende venete chiudono in continuazione ma non fanno massa, muoiono invisibili».

Saliamo sulla jeep nera di Trevisan, dopo marmisti e concerie ci si arrampica nella foresta di Giazza tra faggi, frassini, carpini e pioppi neri.

«Un bosco giovane, senti che odore». I tornanti si fermano davanti a una casetta bianca su tre livelli in faccia al torrente Chiampo, che allargandosi forma il lago dei Poareti, dei poveretti. «Non a quest’ora, ma qui io vengo a vedere le trote che saltano».

Solitudine e singolarità come in Works che è pieno di luoghi mai sentiti che si chiamano Cavazzale, Sandrigo, Poianella, Lupia, e a volte gli uomini Bortolo, Pericle, Adone (e lui, comunque, Vitaliano). “Works” è un libro anche felice, anche ironico, seppure intriso di un forte sentimento di perdita. Cosa resta, alla fine di una storia di lavoro?

«Lo spaesamento, le occasioni buttate via. Anche gli errori e i pentimenti. Restano i dintorni, cioè il territorio che frequento».

Non il mondo ufficiale delle lettere, si direbbe.

«Lì non conosco nessuno, non chiedo niente. Né santi in paradiso né diavoli in terra. Io non c’entro, di un autore rimane e conta solo l’opera».

E di un lettore?

«I classici, i libri davvero formativi. Per me Thomas Bernhard, Sciascia, Conrad, Beckett, Quintiliano, Machiavelli su tutti. La narrativa di trama non mi prende, meglio le biografie e i saggi. E gli italiani contemporanei non li leggo proprio, i più premiati inseguono una ricerca strabica dell’effetto, scrivono male o non sanno scrivere in assoluto. Non faccio recensioni, ma quando leggo parole come “narrazione” o “storytelling” vorrei urlare».

Piove. Si ridiscende al Bar Trego. Locandina del Giornale di Vicenza appesa fuori: «Trovate bombe nella bara del partigiano Toni Giuriolo». La vita come un pezzo d’acciaio montato su un perno asimmetrico.

«A scuola finivo il mio tema in mezz’ora, poi avevo il tempo di scriverne almeno altri due che vendevo ai compagni. Più o meno quello che faccio adesso».

Vitaliano si rolla ancora una sigaretta sottile ed estrae l’ultima frase come un sussurro.

«È triste essere un osservatore, rende malinconici. Anche viceversa».

- Maurizio Crosetti - pubblicato su La Repubblica/Cultura il 4 maggio 2016 -

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